Quella mattina mi ero svegliata con una sensazione strana. Non era difficile da immaginare: ero alla ventinovesima settimana della mia prima gravidanza, avevo un pancione non indifferente e aspettavo due gemelli.

Quando eravamo andati per la prima volta a fare l’ecografia non sapevamo neanche che la mamma della mia bisnonna era gemella, quindi non ci sfiorava l’idea che geneticamente ci fosse la possibilità di una gravidanza gemellare..

Il medico aveva tergiversato un po’, cosa che mette sempre una certa ansia, poi aveva sorriso dicendo: “E se dovessero essere due?”.

La reazione non è facilmente descrivibile. Io e mio marito non eravamo sicuri di aver capito, poi avevamo realizzato, avevamo gioito, eravamo increduli e entusiasti e lo siamo stati per tutti i mesi successivi.

La data prevista era fine settembre, ma sapevo già che molto probabilmente il parto sarebbe avvenuto prima: nelle gestazioni gemellari funziona così, dicevano.

La gravidanza, fino a quel momento, era andata benissimo. Mai una nausea, un malore, esami clinici perfetti. Mi ero goduta tutto: i corsi, i preparativi, i corredini, le aspettative, le speranze.

Solo una brutta, nuova sensazione si era insinuata negli ultimi quindici giorni.

Ne avevo parlato al medico, gli avevo detto che non li sentivo più muovere tanto come prima. Mi aveva fatto ascoltare frettolosamente i battiti, liquidandomi con un “Come siete noiose voi primipare! Senti: questo è un battito e qui c’è l’altro”, aveva detto spostando scocciato lo strumento sul mio pancione. “Più crescono, meno hanno posto. Vedrai come correranno quando escono!”. Mi ero sentita anche un po’ cretina per aver posto la domanda, ma intanto ero più tranquilla: sarebbe andato tutto bene.

Eppure, quella mattina di fine luglio, non so… non saprei definire che cosa mi turbava, non avevo dolori, ma sentivo che qualcosa non andava, forse merito di quell’istinto che nasce in ogni donna non appena la stanghetta sul test di gravidanza si colora.

A metà pomeriggio, ecco la brutta sorpresa: una striatura di un terrificante rosso vivo sulla carta che avevo utilizzato in bagno.

Io nel panico, mio marito calmo e positivo come sempre. Breve consultazione e poi avevamo deciso di andare in ospedale, era ormai venerdì sera e il ginecologo non rispondeva in studio. Vista la particolarità della gravidanza, ci era sembrata la decisione migliore.

Dal momento in cui eravamo arrivati in ospedale, il ricordo delle ore successive è come ovattato. Una serie interminabile di attese, visite, nuove attese.

Ecografie e tracciati per controllare i battiti dei bambini e quei discorsi soffiati fuori tra sorrisi forzati: “Prova a fare due passi in corridoio, vogliamo che si sveglino questi due ragazzi!”.

Ah, non ve l’ho detto. Erano due maschietti: Nicola e Matteo.

Io camminavo, ma piangevo. Camminavo, ma sapevo. Lo sapevo dai volti dei medici e delle infermiere, muti ma preoccupati e forse già addolorati di doverci dare una terribile notizia.

Sdraiata su quel lettino, riuscivo solo a guardare insistentemente i muri della clinica, di cui avevo imparato a memoria ogni crepa, ogni fessura.

Ad un certo punto, qualcuno che non identifico nei meandri della memoria, si prese la responsabilità di dirci la verità. Non c’era più battito.

Da lì altri prelievi di sangue, antibiotici somministrati d’urgenza per paura di una mia infezione, per scongiurare il pericolo che ad una tragedia se ne sommasse un’altra.

Centrifugata. Devastata. Così mi sentivo. Una sola domanda mi aleggiava in mente in quei momenti: perché?

Immagino sia quello che si chiede chiunque si trovi ad affrontare un dolore.

Perché era toccato a noi? Passammo la notte, io e mio marito, stretti in un lettino in una camera singola: avevano voluto concederci tutta la privacy possibile, data l’estrema delicatezza della situazione.

Non chiudemmo occhio. Io piansi disperata tutta la notte, impaurita anche per quello che avrei dovuto affrontare la mattina dopo. Mio marito, triste, disperato, ma sempre la mia roccia, cercava di infondermi coraggio e tenermi calma. I nostri genitori, che ad un certo punto della nottata erano andati a casa, angosciati e preoccupati.

La mattina arrivò la sicurezza finale, l’ecografia fatta dal “guru” dei ginecologi, che confermò in maniera asettica e professionale il verdetto della sera prima: i feti erano entrambi morti.

Mi indussero il parto. Eh no, non si può fare un cesareo, se c’è anche il minimo sospetto di infezione, per non diffonderla nell’organismo.

La cosa che mi distruggeva non erano i dolori, era sapere che non avrebbero portato ad un evento felice. Solo altro dolore.

Non vidi i gemellini. Nessuno dei miei familiari li vide, o almeno è ciò che mi dissero e, se non è così, io non voglio saperlo. Li ho immaginati nel mio cuore e resteranno per sempre solo in quell’immagine.

La gravidanza era arrivata a circa sei mesi e mezzo, quindi dovette essere fatto il funerale e la tumulazione, ai quali io non partecipai. Non avrei retto.

Anche il periodo successivo non fu facile: piangevamo e dormivamo. Il medico disse che era una naturale difesa del cervello: se dormi, non soffri. Se mio marito non fosse stato accanto a me, forse non ne sarei uscita.

Ricordo chiaramente che non uscivo di casa per non dover incontrare nessuno che, non sapendo cosa era accaduto e vedendomi senza pancione, mi dicesse: “Allora? Hai partorito? Dove sono i bimbi, tutto bene?”

Sono domande che si fanno, per sana curiosità verso un evento che, di solito, porta ad un epilogo gioioso. A me scatenavano rabbia. Avrei voluto urlare contro quelle persone tutto il mio dolore, implorarle di non chiedermi nulla, quindi per evitare, non uscivo.

L’ultimo scoglio durissimo da superare fu ritirare il risultato dell’autopsia.

Andammo con il cuore gonfio di angoscia e di paura. Poteva essere stato tutto causato da un mio problema, che mi avrebbe quindi impedito un’altra gravidanza?

Un medico gentilissimo, partecipe e competente ci fece sedere in disparte in una sala che ricordo enorme, ma certo il ricordo potrebbe essere falsato dalle sensazioni di allora.

Ci spiegò che i feti erano sani. Era la placenta che aveva avuto infarti multipli e non li aveva più nutriti. Bene, da una parte, male dall’altra perché così avemmo la conferma che il mio ginecologo di allora, quando gli avevo comunicato le mie sensazioni aveva preso un grosso abbaglio, sottovalutando la mia preoccupazione.

Quando ero andata alla visita, secondo il referto autoptico, i feti erano già morti, e lui non se ne era accorto. Da più parti ci arrivò la notizia che la gravidanza non era stata trattata come avrebbe dovuto, proprio perché gemellare e alcune conferme sulle responsabilità di quel medico. Ci fu suggerito di denunciarlo al tribunale per i diritti del malato, ma noi non lo facemmo. Volevamo dimenticare. Non i gemelli, ma la brutta esperienza, la sofferenza.

A piccoli passi, infatti, piano piano, iniziammo a stare meglio. Il rimanere molto uniti fu fondamentale.

Il pensiero che mi tormentava di più era capire se io avessi potuto fare di più, se potevo accorgermi prima di quelle sensazioni strane, se dovevo insistere con quel medico per approfondire le mie apprensioni, insomma in parole povere il pensiero ricorrente era: è stata colpa mia?

Ad un certo punto, però, mi assolsi.

Mi resi conto che stavo meglio dal fatto che riuscivo a raccontare quanto ci era accaduto, sempre commuovendomi, ma senza sprofondare in un abisso.

Il nuovo ginecologo, il mio “prof”, che sapeva tutto e si era trovato – ringraziando il cielo – in ospedale nella mattina più brutta della mia vita, ci dette tutte le informazioni del caso e soprattutto la certezza che potevamo diventare genitori, che tutto sarebbe andato bene.

Oggi guardo i nostri ragazzi: Leonardo ha vent’anni e Lara tredici.

Solo da un paio d’anni hanno saputo che hanno due fratellini maggiori che li guardano da qualche parte. Non so perché, ma prima non avevamo mai trovato il modo o l’occasione giusta per raccontarglielo.

Ci hanno chiesto: “Quindi se fossero nati loro, noi non ci saremmo?”

Ci ho pensato e ho realizzato che probabilmente è così, se tutto fosse andato come doveva, noi non li avremmo avuti, non avremmo potuto crescerli, viverli.

Mi sarebbe piaciuto conoscere Nicola e Matteo. Non cancellerò mai dentro di me le emozioni che mi hanno donato in quei sei mesi e mezzo, come non cancellerò il ricordo di quel dolore.

A volte le cose non accadono per una ragione, accadono e basta.

Spesso da un grosso dispiacere ci si risolleva per ricostruire qualcosa di bello, di grande, pur non dimenticando mai quello che è stato.

Io non so perché non sono potuta essere la mamma di Nicola e Matteo, ma so che la mia gioia più grande, il mio orgoglio, la mia completezza, adesso, è essere la mamma di Leonardo e Lara.