Un giorno di sole

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Non si dovrebbe scrivere.

Non si può tentare di sollevare la coltre pesante di realtà che rende quasi impossibile respirare. Faccio violenza a me stesso. Con un umore come il mio si dovrebbe solamente perdere tempo su internet, su youtube, o giocando ai videogiochi.

Andiamo, voi ci riuscite ancora? Vi svegliate sorridendo? Un giorno di sole è sufficiente per risollevarvi l’umore?

No. E’ vietato, o quasi. Resta solo l’incomprensibile bisogno di correre. Condividere. Spingere.

Si vive come bestiame sui mezzi pubblici di ogni città d’Italia. Roma è solo uno specchio più grande, ma la sostanza è la stessa ovunque. Non sopportiamo più la presenza di nessuno.

Questo non può essere normale. Non può essere la realtà.

Quando ero giovane con il termine ‘Sistema’ si definiva qualcosa di irreale, una sorta di deus ex machina in grado di controllare capillarmente la vita di ognuno, di plagiarci in qualcosa che non siamo, di trasformarci sempre più in automi, in insensibili pezzi di carne mossi esclusivamente dalla necessità di profitto. Ci sbagliavamo. Il profitto è stata la carota che ci hanno fatto ballare a un palmo dagli occhi, ma non era per noi. Non lo è mai stato. E un giorno alla volta ci hanno convinto che fossimo noi a sbagliare la formula del successo. Per anni, anni e ancora anni vedevamo sugli schermi illuminati delle televisioni, dei cartelloni pubblicitari, dei personal computer mandrie di sconosciuti ricoperti di ogni cosa avessimo mai desiderato.

L’uomo è un essere semplice.

Il suo stesso metodo di apprendimento si basa sulla ripetizione di un comportamento esterno. I bambini imparano ad essere come i genitori, prima di diventare loro stessi, e diventano loro stessi dalla sintesi dei comportamenti che provano a riprodurre a modo loro.

Qui si è incrinato il meccanismo. Le persone che ci siamo trovati a mimare non erano reali, e abbiamo provato a vivere una vita al di sopra delle nostre possibilità.

Pensateci per un secondo.

Viviamo in un mondo dove con la spesa militare di un singolo paese si potrebbe cancellare la fame.

Abbiamo inventato dei filtri in grado di garantire una riserva d’acqua potabile a vita che costano quanto una t-shirt.

Eppure, viviamo in un mondo dove l’occidente è assediato da ogni fronte, dove il terrore e gli attentanti ci induriscono un giorno alla volta. Ho provato a riportare alla mente gli eventi degli ultimi anni, ma non ci sono riuscito. Guardando la lista pubblicata su Wikipedia mi si è stretto lo stomaco. Non ce ne accorgiamo nemmeno più. E quando qualcosa non fa più notizia vuol dire che è entrata nel senso comune, diventa parte della vita quotidiana.

E allora mi fermo e mi faccio violenza, ancora, e mi chiedo: posso fare qualcosa?

Sento freddo quando l’unica risposta razionale è: da solo no.

Torno a guardarmi attorno. Un mondo di uomini e donne sole davanti a schermi retro-illuminati.

Mi faccio violenza per l’ultima volta, e mi trovo a sperare di non essere il solo a vederla così.

Sperare è come una droga. Sul serio. E’ un istante, un istante brevissimo. Per un istante i passanti non sono più estranei. L’estate è alle porte coi suoi profumi, i suoi colori, il suo calore. Mi illudo che si potrebbe anche essere felici. Poi mi torna in mente il monologo finale del ‘Grande Dittatore’ di Charlie Chaplin, che sembra sia stato scritto una settimana fa e non nel 1940 e mi accorgo che è doloroso anche sperare, e smetto di farmi del male. Guardo ancora fuori dalla finestra. Se mi guardo attorno vedo solo calcinacci. Calcinacci e un fumo denso che non mi permette né di respirare né di vedere ad un metro avanti a me.

Sento gente urlare, costantemente: chi urla di dolore, chi di rabbia, chi cerca qualcosa o qualcuno.

Io che so solo di avere ancora tutti i miei pezzi al loro posto mi sento fortunato, fin troppo, mi vergogno di questo mentre i calcinacci diventano pezzi di palazzi, pezzi di automobili, rifiuti incendiati e corpi lasciati a loro stessi.
E so che non voglio fare la stessa fine, ma fino a pochi minuti fa questo era un luogo completamente diverso. Aveva i suoi difetti, certo, come ogni angolo del mondo. Aveva le sue storie, le sue beghe, i suoi segreti. Ma non era tutto solo grigio: era un luogo di
vita. Un posto pieno di vita, di vite.
Vite che ora stanno sparse in mezzo a una strada. Il vento sembra portare solo urla cariche d’odio e sirene, che impediscono a chiunque di pensare, di ragionare lucidamente su quanto sta succedendo, 
ci sta succedendo.

E’ solo dopo questa momentanea crisi di panico che apro la finestra e fuori c’è ancora Roma.

C’è il giardino del palazzo in cui abito, la fermata della metropolitana qualche centinaio di metri più avanti. Il traffico scorre sulla Tiburtina come sempre. Vedo qualcuno passare, gli ultimi sono una coppia che avrà la mia età, con una figlia imbottita dentro una giacca lucida che sembra sorridere e guarda i gatti scappare sopra i muretti. Mi ripeto che è stato solo un momento. Che il Futuro non può sembrare solamente simile a quello che credevo di aver visto.