Morte villana

Chi non merta salute non speri mai d’aver sua compagnia.

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Morte villana, di pietà nemica,
di dolor madre antica,
giudicio incontastabile gravoso,
poi che hai data materia al cor doglioso
ond’io vado pensoso,
di te blasmar la lingua s’affatica.

E s’io di grazia ti voi far mendica,
convienesi ch’eo dica
lo tuo fallar d’onni torto tortoso,
non però ch’a la gente sia nascoso,
ma per farne cruccioso
chi d’amor per innanzi si notrica.

Dal secolo hai partita cortesia
e ciò ch’è in donna da pregiar vertute:
in gaia gioventute
distrutta hai l’amorosa leggiadria.

Più non voi discovrir qual donna sia
che per le propietà sue canosciute.

Chi non merta salute
non speri mai d’aver sua compagnia.

Precisa Dante (Vita Nuova, VIII): “Questo sonetto si divide in quattro parti: ne la prima parte chiamo la Morte per certi suoi nomi propri; ne la seconda, parlando a lei, dico la cagione per che io muovo a blasimarla; ne la terza la vitupero;ene la quarta mi volgo a parlare a indiffinita persona, avvegna che quanto a lo mio intendimento sia diffinita. La seconda comincia quivi: poi che hai data; la terza quivi: E sʼio di grazia; la quarta quivi: Chi non merta salute”.

Morte Villana – di Carlo Rocchi