L’ amico… Dopo la morte dell’attivista negra Marielle Franco, del partito PSOL, Socialismo e Libertà, la Polizia, i Procuratori e i Politici tutti avevano gridato ai quattro venti che i colpevoli sarebbero stati trovati e il caso risolto nel più breve tempo possibile. Sembra ormai acquisito che a uccidere la donna siano stati i reparti deviati della Polizia. Ma non ci sono ancora imputati e pare plausibile pensare che la Polizia non investigherà mai la Polizia. Il confine tra reparti deviati, corrotti e membri onesti ed effettivi delle forze dell’ordine è troppo labile, troppo sfumato.

Sono passati tre mesi, poco è successo a parte le dichiarazioni di intenti, il tentativo di colpevolizzare (mediaticamente e non giudizialmente) un collega di Marielle alla Camera di Rio de Janeiro che avrebbe mantenuto rapporti con un rappresentante dei reparti deviati, un ex commissario di Polizia, oggi in carcere, il quale avrebbe progettato l’agguato a Marielle dalla prigione. Questo individuo però, intervistato dai giornalisti per mezzo dell’avvocato, avrebbe dichiarato di essere un capro espiatorio. Non essendoci prove concrete che portino ai veri colpevoli, si vuole attribuire la colpa a un malfattore che si è attribuito altri crimini ma non questo.

In questi mesi si è scoperto che la donna che rappresentava le favelas e i diseredati è stata uccisa con una mitragliatrice (il tipo di arma è stato individuato attraverso l’analisi delle capsule dei proiettili) in dotazione all’esercito e alle forze dell’ordine. In questi mesi la fidanzata di Marielle si è battuta, si è fatta vedere in televisione, ha cercato di tenere alta l’attenzione sul crimine e sulla volontà dei parenti, degli amici e della società civile di arrivare alla verità. La sensazione però è che la scomoda verità sulla morte di Marielle Franco non la conosceremo mai.

Lo Stato intanto, forte dell’intervento militare a Rio de Janeiro, città fuori controllo a causa della guerra, della disputa del territorio e dello spaccio della droga da parte di due fazioni criminali (una delle quali è supportata da Terceiro Comando da Capital di San Paolo, gruppo maggiormente organizzato rispetto a quelli di Rio) lo Stato si presenta in favela attraverso i volti e le armi di uomini dell’ordine in tuta mimetica. Nella favela Rocinha stanno morendo tre, quattro persone a settimana a causa delle pallottole vaganti.

La Polizia invade, l’esercito aiuta, i narcotrafficanti vengono sorpresi armati mentre vendono cocaina, c’è una sparatoria tra i vicoli dove cani troppo magri depositano feci disseccate sul selciato e sulle pietre lungo il rigagnolo del Valao o tra i vicoli, i bar e gli edifici strettissimi della Rua Um nei quali i reparti speciali irrompono compiendo movimenti e cadenze precisi come in un rituale, e molto simili a quelli del film Tropa de Elite del regista Ze’ Padilha.

L’eco degli spari rimbomba dappertutto, le scene di guerriglia vengono immediatamente filmate, i video girano su youtube e whatsapp, il panico cresce e in molti si chiedono perché lo Stato intervenga in questo modo quando è palese che, morto un capo, il narcotraffico ne eleggerà subito un altro, morto un soldato del narcotraffico ci saranno altri cinque, sei adolescenti felicissimi di prenderne il posto e lo stipendio. Qual è il motivo delle ripetute incursioni? La Polizia Militare, i Reparti Speciali e l’Esercito davvero invadono la favela perché vogliono sconfiggere il narcotraffico?

Oppure stanno (consapevolmente o meno, in questo caso sarebbero usati, manipolati da chi sta sopra a loro) cercando di aiutare la fazione Amigos dos Amigos a sconfiggere Comando Vermelho (attuale occupante della Rocinha e gestore delle Bocas de Fumo, punti di spaccio di cocaina e marijuana)? O addirittura qualche membro delle forze dell’ordine starebbe entrando in favela per chiedere soldi ai narcotrafficanti in cambio della connivenza nella vendita di droga? O è tutta una grande campagna elettorale in vista delle elezioni nel mese di ottobre duemiladiciotto, il governo cioè vorrebbe far credere a noi residenti che si sta sforzando per ristabilire l’ordine nella città?

Rio de Janeiro è nel caos e lo sa bene Don Matteo mentre parla via Skype con la mamma a San Giuliano Milanese. Lui, prete missionario nella favela Rocinha, caduto ultimamente nella dipendenza da fumo e alcol, gestore e organizzatore di un bel corso propedeutico all’ingresso in università da parte di adolescenti volenterosi della favela, tutto sbarbato e coi due ciuffi che gli sono rimasti in testa finalmente pettinati, è seduto al tavolaccio azzurrognolo nella minuscola cucina del suo mini appartamento nella via Apia, via d’accesso, via principale della favela. Dall’esterno, oltre al rumore delle moto, dei taxi, delle macchine e il solito vociare, giunge l’eco degli spari che però non provengono direttamente dalla via Apia, ma dalla Rua Um, là sopra, vicino all’Estrada da Gavea. Niente di cui preoccuparsi eccessivamente.

– Dicevi, mamma

– Dicevo, Matteo, che l’altro ieri sono andata a visitare il tuo amico Timoteo (mi è sempre piaciuto che tu col tuo nome di evangelista fossi amico di Timoteo, il cui nome ci ricorda il braccio destro di San Paolo, il suo più fedele seguace) e l’ho visto proprio bene; adesso ha una moglie, due figli, loro sono una famiglia perfetta. Il tuo amico, come sai, insegna nelle scuole di San Giuliano ed ha un orario che lo impegna ma non troppo, pensa che riesce a dedicarsi anche alla musica.

– Mi fa piacere per lui, mamma. E sono contento di sapere che ti muovi e che visiti i miei amici. Ti tieni attiva.

– Aspetta a felicitarti, non sai ancora perché sono andata da lui.

– Perché ci sei andata?

– Perché tu sei un disgraziato e hai abbandonato tua madre. E i tuoi fratelli sono peggio di te e non mi vogliono bene anche se abitano qui a due passi!

L’apparenza della donna attraverso il monitor è buona. Viso aguzzo, scavato, occhi spiritati come al solito.

– Timoteo mi ha vista, mi ha incontrata seduta da sola sulla panchina di Piazza Italia che piangevo, e si è fermato. E’ stato molto carino. Mi ha invitata a mangiare una fetta di torta a casa sua. Stava tornando da scuola.

– E perché piangevi?

– Perché mi manchi, Matteo. Tu lo sai che sei il mio figlio preferito, non ne ho mai fatto mistero. Ed io non capisco perché tu abbia deciso di dedicarti ai poveretti del Brasile e non ti sia voluto dedicare a quella poveretta di tua madre. Da quello che mi dicono su di te pare poi che in Brasile non ci stai bene. E io non capisco perché non ti decidi a tornare.

– Chi è che ti ha parlato e con quale coraggio? Io sto benissimo!

– Non mentire a tua madre, Matteo. Hai le due occhiaie più profonde che ti abbia mai visto. A una madre non ci vuole molto a capire che il figlio ha ripreso a bere.

– Chi te lo ha detto?

– I tuoi colleghi della Curia me lo hanno detto. Mi hanno raccontato che li hai scaricati, hai deciso di rischiare la vita e di dedicarti a un progetto nuovo anche se loro te l’avevano sconsigliato. E qualcuno della favela ha inviato una e mail alla Curia raccontando le tue prodezze nei bar, la sera.

– Mamma, sono grande ormai, sono adulto, so badare a me stesso!

– Da quello che mi hanno raccontato, io non ne sarei troppo sicura. Per questo piangevo, piangevo per me e non per te, perché non mi pare giusto che io a ottant’anni suonati debba ancora preoccuparmi per mio figlio che dall’altra parte del mondo si comporta come un adolescente.

– Io non ti ho chiesto di preoccuparti per me.

– Ma io mi preoccupo e sto male a pensarti da solo in un bar a fumare e a bere. Lo sai che ti fa male, soprattutto bere, te lo hanno detto i medici quando hai fatto i controlli. Il tuo fegato è ingrossato.

– Mamma, per favore, smettila, mi fai sentire ridicolo.

– Ridicola mi sono sentita io quando il tuo amico mi ha sorpresa che piangevo. Mi sono sfogata con lui, gli ho detto cosa ti sta succedendo in Brasile, lui mi ha risposto che ti conosce bene, che sei forte e supererai anche questa.

– E poi?

– Poi abbiamo bevuto un the’ buonissimo, alla pesca. E abbiamo mangiato una bella fetta di torta. Sono stata bene con lui, molto meglio di quando durante i fine settimana i tuoi fratelli mi vengono a trovare e fingono di volermi bene.

– Non essere crudele, mamma. Loro ti vogliono bene davvero.

– Sì, come potrebbe volermene un cane a cui ho sempre dato da mangiare. Il loro affetto è automatico, loro non riflettono, non pensano a come mi sento io. Vengono a trovarmi solo per risparmiare sul pranzo e mi lasciano ancora le cose da lavare. E io penso ma le loro donne a casa i panni non li lavano?

Finita la conversazione, spento il computer, Matteo, con la testa tra le mani, ascolta i suoni della favela, le moto, i venditori di hamburger e carne alla griglia, i bambini che corrono pericolosamente tra i moto taxi e quelli che usano uno skate mentre in alto, nella Rua Um, come se niente fosse, come se ormai fosse normale, narcotrafficanti e polizia si affrontano a pistolettate e a raffiche di mitragliatrice.