Alle Poste, dice?

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Le Poste Italiane sono un piccolo universo urbano che fa parte della nostra quotidianità di sempre, fatta di noiose incombenze e commissioni da sbrigare rigorosamente sbuffando.

Rappresentano un luogo di ispirazione pazzesca per tutti quelli che, come me, sono inclini a osservare e descrivere. Le mitiche Poste sono il limbo in cui l’essere umano misura sè stesso e le proprie paure, i propri limiti. La propria pazienza.
Andare alle Poste richiede alcuni minuti di dura battaglia mentale con me stesso, per non cedere a quell’impulso che ti dice “fanculo, ci andrai domani”, e dimostrare invece tenacia e forza di volontà.
Scoglionato, mi alzo e con un profondo senso di apatia psicologica che vorrebbe trascinarmi in basso, l’idea di dover andare alle Poste si è già librata nel mio subconscio e adesso mi condiziona totalmente, lasciandomi sfibrato.

Entro nell’ufficio postale, è pieno di gente avvizzita e grondante di sudore nauseabondo. Mi siedo guardandomi intorno, terrorizzato da tutte quelle persone che mi sembrano un esercito di zombie pronto a scarnificarsi l’uno con l’altro.

Li vedo tutti ghignanti e nervosi, lanciano occhiate furibonde al cartellone elettronico per la coda. Battono il piede per terra in segno di impazienza, si lamentano a voce alta della lentezza delle operazioni, dandosi manforte a effetto domino. Seduto accanto a me c’è un signore che piagnucola fastidiosamente per la coda troppo lunga, sostenendo di trovarsi lì da ore e ore nonostante siano passati solo quarantacinque minuti dall’apertura dell’ufficio. Il suddetto signore sprigiona un tanfo diabolico di secrezioni provenienti dalle ghiandole sudoripare intasate, e quell’olezzo pungente e velenoso mi avvolge, stritolando tutta la mia persona in un caldo abbraccio mortale. Non sopravvivrò a questo, penso.

Ho diverse persone davanti a me, dovrò aspettare almeno mezz’ora, mi metto l’anima in pace e inizio a catalogare mentalmente ogni singola persona che si trova in quello spazio angusto e angosciante, pieno di corpi umidi stipati come scope in un sgabuzzino buio.

Le impiegate hanno tutte la stessa aria afflitta, sembrano rassegnate a un’esistenza fatta di numeri, codici a barre e gesti meccanici e ripetitivi. Ti guardano con sufficienza, e mentre lo sfortunato di turno paga la sua bolletta, loro si confrontano a voce alta sugli aspetti più privati delle loro vite, che tutti possono opportunamente ascoltare indisturbati.
“Io gliel’ho detto eh, ma lei è testarda, lo sai. Le ho detto, guarda Franci che sei più cornuta di un rinoceronte. E lei mi fa no ma cosa dici, Riccardo è uno serio. Solo tanto impegnato in questo periodo” snocciola un’impiegata bionda con la le guance rosa e il rossetto rosso brillante, rivolgendosi alla collega più vicina. E’ sui cinquanta, ha le zampe di gallina e il trucco pesante che le si sgretola in faccia come cemento secco.

Il cliente che sta servendo è visibilmente scocciato, attende la sua ricevuta per potersene andare, ma la panterona seduta dietro al computer non sembra avere la minima intenzione di curarsi di lui troppo in fretta.

“Tutti bugiardi questi uomini. Poi ci chiamano sesso debole? Sesso debole una sega. L’ho detto anche io alla Franci che lui la tradisce sicuramente, ma lei è troppo ingenua. Cioè, lo sai che le voglio bene, però insomma lui è un marpione no? C’ha provato pure con me” le risponde la collega a fianco, una ragazza piuttosto giovane con un discutibile fiore bianco brillantinato attaccato alla testa, a mò di ornamento floreale. Sembra più adatto a stare in un centrotavola il giorno di Natale che a pendere dalla cima della testa di una persona.

“Nooooo! Ma davvero? Che bastardo! E tu che hai fatto?” risponde impressionata l’altra.

“Eh. Gli ho detto, guarda che la Franci è una mia amica. Sei un porco!” dice il Centrotavola, con tono trionfante.
Mi godo questo interessante spaccato culturale di femminismo, nel giro di pochi minuti, in cui finalmente l’impiegata strappa la ricevuta e l’uomo se ne va lanciandole un’ultima penetrante occhiataccia.
Ho ancora due persone prima che venga il mio turno, così inizio a fare il mio gioco mentale preferito. Immagino una situazione da fine del mondo, catastrofica, in cui mi trovo a dover scegliere con chi farei sesso tra i presenti prima che la Terra venga spazzata via da uno Tsunami potentissimo. Hanno tutti un’aria poco incoraggiante, decisamente poco incline a suscitare pensieri erotici di qualunque tipo. Mi specchio nel riflesso del cartellone, e penso subito che anche la mia aria è sicuramente poco invitante. Decido di lasciar perdere.

Sposto la mia attenzione su un ragazzo che è appena entrato. Si tratta di uno di quei businessman giovani e di successo, con la prospettiva di una carriera promettente davanti a sè e l’auricolare nell’orecchio destro, in cui si farnetica confusamente solo di statistiche e altre questioni di marketing di cui io non capisco un cazzo.

Indossa un elegante completo blu da uomo, ha l’immancabile valigetta nera da manager che conterrà sicuramente documenti fondamentali al funzionamento delle rotative economico-bancarie del mondo, e sembra talmente sicuro di sè da non avere nemmeno bisogno di prendere il numerino per mettersi in fila.
“Non è possibile, tutta questa gente e solo tre sportelli aperti! Ecco perchè l’Italia è un Paese che affonda sempre di più. Non posso aspettare così tanto per pagare una semplice bolletta, è inammissibile” esordisce a un minuto dalla sua trionfale entrata nell’ingresso.
Noto subito un certo schieramento all’interno dell’ufficio, di quelli che lo guardano con espressione comprensiva e quelli che invece lo fissano con disappunto e sconcerto.

L’uomo inveisce ancora un pò, poi si mette l’animo in pace, si siede e il suo telefono satellitare super accessoriato grande come uno yacht squilla di nuovo.

Lui preme il tasto dell’auricolare e di nuova sbraita cose riguardanti i sondaggi aziendali e il mobbing di gruppo. “Mobbing di gruppo” mi evoca subito scene da film porno di gang bang in ufficio, dove gli improbabili e stringati dialoghi degli attori sono il vero pezzo forte della faccenda.
Tocca a me, mi alzo e mi dirigo verso l’agognato sportello. L’impiegata di prima, la panterona con il trucco da drag queen mi squadra, e mentre completa l’operazione, mi dice “così giovane e tutti quei capelli bianchi?”, con una falsa espressione materna che vorrebbe trasmettermi consolazione ma che riesce solo a farmi replicare: “Sono sicuro che li ha anche lei sotto gli strati fossili della sua tinta di platino”. Lei rimane in silenzio. Mi fissa placidamente. Rimaniamo per qualche secondo a studiarci come due guerrieri prima dell’epica battaglia. Ci sfidiamo mentalmente, senza mai battere le palpebre.

“Grazie e arrivederci” mi dice con tono piatto, consegnandomi la mia ricevuta.