Erano circa le undici di quella che si preannunciava come un’altra banale mattina di Novembre di un tedioso periodo senza novità e mentre io e il mio amico Sherlock Holmes stavamo comodamente seduti davanti al caminetto a fumare oziosamente la pipa, sentimmo la signora Hudson protestare. Affacciatomi dalla scala, vidi un uomo tozzo ma in carne, con vesti sporche e stivali infangati, mettere piede sul pianerottolo. Holmes, nel mentre, sentenziò:

“Finalmente un altro caso”.

Al che chiesi come facesse ad esserne così sicuro: poteva essere chiunque. Ma ecco che l’individuo piombò nella stanza affaticato, come se avesse corso molto; e così era stato, come lui stesso ci confermò in seguito. Dopo aver ripreso fiato, fece un inchino e si scusò per la maleducazione. Il mio compagno guardandolo, gli disse:

“Vedo che stavate praticando giardinaggio e alla spiacevole notizia che vi ha fatto arrivare fin qui, siete sobbalzato ferendovi con le vostre cesoie. E mentre correvate siete caduto”.

“Ma come diavolo…?” esclamò l’uomo. In genere, il mio amico non dava spiegazioni ma avendo bisogno di sfogarsi dopo tanto tempo passato a oziare e a drogarsi per scacciare la noia spiegò:

“Mio caro signore, i vostri stivali infangati. Solo in un giardino o in un prato può esserci della terra che si è bagnata durante la pioggia di ieri notte. Ma osservando la ferita netta e diritta che solo un coltello affilato può provocare, escludo il prato naturale e penso al giardino che ha bisogno di essere curato con gli arnesi adatti. Ma quello che vi ha ferito non è stato un coltello, che non rientra negli attrezzi da giardinaggio, bensì delle cesoie visto che le forbici da potatura non provocano quel piccolo taglio ma una grande ferita. Siete molto sicuro di voi e per questo lavorate senza guanti. Quindi deduco che la notizia improvvisa sia stata la causa dell’incidente. Per quanto riguarda la caduta, deduco dai leggerissimi strappi sui vostri pantaloni bagnati che mentre correvate sin qui, siete inciampato e scivolato in avanti in ginocchio, nella strada innevata da stamattina. Ora, volete sedervi e raccontare quel che vi è successo, con calma e senza omettere neanche il più piccolo particolare? Ah, quasi dimenticavo, questo è il mio amico e collega il dottor Watson. Parli liberamente davanti a lui, è persona degna di fiducia”.

Sbalordito dalla notevole perspicacia e grande intuizione del mio amico, l’uomo si sedette sulla sedia di fronte alle nostre poltrone e cominciò:

“Mi chiamo Victor Melloy. Ieri è morto Jhoannes Herborn, il mio caro fratello per parte di madre, che oramai è morta da anni, e con lei anche mio padre, qualche settimana fa. La morte del povero fratellastro mi sembra infinitamente misteriosa. Jhoannes, quella sera, come sempre, aveva sbarrato tutte le finestre della casa con l’aiuto della sua cameriera e chiuso, con quattro giri di chiave e la catenella, la porta”.

“E perché prendere tutte queste precauzioni? chiese Sherlock Holmes. “Bhe, Jhoannes aveva delle paranoie”. Holmes, con la fronte corrugata e le dita congiunte, chiese: “Non sa niente altro?” chiese Holmes, le dita congiunte. “So che ha avuto una relazione con la sua cameriera ultimamente. Ma oltre a questo non so riferirvi più nulla perché vede, io e Jhoannes non ci impicciavamo delle nostre vite “.

“Va bene. A che ora avete saputo la notizia e da chi?”. “Circa alle otto e trenta di stamane, dalla cameriera di Jhoannes” rispose l’uomo.

“Da chi è stato scoperto il corpo e a che ora?”

“Da lei alle diciannove di ieri. Quest’ultima ha una casetta attigua a quella di mio fratello. Stava portandogli la cena a letto, com’era preferito da Jhoannes, entrando con una copia delle chiavi di casa “, rispose il signor Melloy.

“La donna ha chiamato la polizia?, interrogò il mio compagno.

“No, era troppo sconvolta e disgustata per non averci pensato e si è scusata immensamente per la sua inettitudine nel telegramma che mi ha spedito stamattina da Liverpool. Sa una vacanza per calmare i nervi“.

Holmes inarcò le sopracciglia, segno che quell’informazione aveva provocato in lui il barlume di un’idea. “E lei l’ha chiamata? La polizia è già sul posto?” domandò, infine, mentre si alzava e indossava cappotto e cappello.

“No. Ho pensato sarebbe stato meglio rivolgermi a voi, data la vostra grande fama.” rispose Melloy.

“Oh per favore”, disse Holmes con un segno di noncuranza della mano, ma dal suo colorito più acceso sulle pallide e scarne guance, intuii che gli aveva fatto piacere. E rivolto a me, domandò: ” Watson, volete venire? Mi sareste d’aiuto”.

“È sempre un piacere seguirvi, amico mio” risposi contento e ci avviammo verso il luogo del delitto. Arrivati lì, trovammo una casa non curata e con il vialetto d’ingresso leggermente malandato in mezzo al giardino quasi morente. Sherlock Holmes trasse dalla tasca un metro e la sua inseparabile lente di ingrandimento, con cui dapprima fece il giro dell’abitazione, osservando attento sia in terra, in cerca di tracce, sia i muri per verificare che non ci fossero segni di scalata verso la finestra della stanza di Jhoannes. Dopo si diresse verso la porta di ingresso che non presentava, anch’essa, segni di effrazione.

“Immagino che l’assassino sia entrato anche lui con una copia delle chiavi di casa, oppure il signor Herborn ha aperto al suo assassino. Opterei per la prima. Ora entriamo” mormorò il mio amico, rivolgendosi più a lui che a noi. Entrati nella casa, coperta da un leggerissimo strato di polvere, Holmes chiese a me di seguirlo e al signor Melloy di aspettare nell’atrio. Subito, all’occhio attento del mio compagno saltarono le impronte di due o più individui, che a me parevano invisibili.

“Guardi, Watson. Vede quelle impronte?” mi domandò, indicando i gradini che portavano al piano di sopra, dove si trovava lo studio.

“Quali impronte? Non ne vedo”. Allora ci avvicinammo e porgendomi la lente, mi disse di dare un’ occhiata. In effetti c’erano delle impronte, che finalmente vidi nitide, mentre il mio amico me le indicava: alcune erano più piccole e, come mi fece notare in seguito il mio amico, giravano per tutta la casa. Le seconde, dalla tipica punta squadrata dei mocassini, appartenevano indubbiamente al padrone di casa e anch’esse si trovavano dappertutto. Le terze dalla punta quadrata salivano solo le scale, mentre le restanti dalla punta arrotondata seguivano il tragitto di Jhoannes nella sala da pranzo.

“Ora, ditemi Watson, cosa se ne può dedurre?” ripeté Holmes.

“Non ne ho la più pallida idea. Immagino solo che le prime appartengano ad una donna e le restanti a tre uomini tra cui Jhoannes. Per il resto nulla. Illustratemi voi, dunque” risposi.

“Avete ragione, Watson. Le prime appartengono alla sola donna che possa transitare qui e cioè la cameriera, le seconde alla vittima, le terze al signor Victor e le restanti al postino, che ha consegnato le lettere che si trovano sul tavolo della sala da pranzo e a cui l’ucciso ha offerto un bicchierino di Brandy. Ma saliamo al piano di sopra” disse. Lì, il mio amico, dirigendosi verso la porta dello studio, guardando il pavimento sotto la soglia, mugolò in segno di scoperta: “Osservi, dottore, cosa vede?” e io come sempre risposi: “Niente, Holmes, niente”, e invece della solita contraddizione mi sentii rispondere: “Bravo, Watson! Proprio niente, a parte qualche goccia secca di vino rosso”.

“E questo significherebbe…?” domandai in tono pacato. “Ma come?! Persino Lestrade potrebbe dedurlo. Ma siccome non vi decidete ancora ad applicare i miei metodi, vi illustrerò ancora una volta: se trovaste un morto, all’improvviso, in questo stato, cosa vi succederebbe?” mi interrogò. “Bhe, penso che mi spaventerei, così, su due piedi”; il cadavere dell’uomo corpulento, era conciato davvero male, a parte i vestiti, che non presentavano nulla di anomalo : aveva la faccia pallida, la lingua gonfia, gli occhi sporgenti.

“Ora, una qualsiasi donna non abituata a vedere cadaveri in condizioni normali, cosa pensate che farebbe, vedendone uno in questo stato? Avrebbe una reazione peggiore del solo spavento. Come vi spiegate, allora, la totale assenza della chiazza che si sarebbe dovuta formare dopo il versamento in terra della cena, in seguito al forte spavento della cameriera?”, domandò incalzante Holmes. “Non so, l’avrà pulito oppure l’avrà appoggiato da qualche parte” risposi.

“Impossibile. Voi vedete mobili su cui si possa appoggiare qualcosa, in questo corridoio? In più non ho rinvenuto nessun vassoio e, ancora, visto che la donna ha detto di essere troppo disgustata e turbata avrà lasciato subito la casa. Ma ritornando alla chiazza inesistente dico che la donna non abbia provato alcun sentimento e che abbia mentito riguardo al suo sconcerto. Comunque, quelle gocce sono state fatte cadere di proposito, pensando di far credere che lei abbia effettivamente portato la cena. Questo significa che la cameriera non era una vera cameriera e che l’omicidio è stato commesso prima della sera. Ora precipitiamoci subito al casolare della ragazza. Spero che non sia troppo tardi!” esclamò, correndo giù per le scale, eccitato ma al contempo preoccupato, con al suo seguito me e il signor Melloy. Arrivati là, abbattemmo la porta chiusa a chiave. All’interno era presente un letto, un tavolino e una sedia e la esigua stanza da bagno. Constatammo che la finestra era sbarrata. Sherlock Holmes guardò le assi del pavimento, chinandosi per aprirne una che era malferma.

Trovammo il corpo di una donna senza vita, legato per mani e piedi e imbavagliato. “Che significa?” chiesi preoccupato al mio amico.

“Significa che l’assassino della ragazza è lo stesso di Jhoannes, la finta cameriera” rispose in tono grave il mio compagno. Sherlock Holmes mi rivelò che anche l’assassino era una donna. Il mio amico volle tornare in casa della prima vittima, per esaminarne il corpo. Si stese sul pavimento, in posizione prona, con il mento sopra le braccia conserte. Ad un certo punto, si alzò, sbottonò la camicia al cadavere e gli guardò la schiena. E proprio nel mezzo delle scapole, c’era un punto nero. “Guardate, Watson! Cosa le pare?” mi chiese Holmes. “Una puntura, indubbiamente”.

“Esatto. L’arma dell’ omicidio, dunque, deve essere stato un ago, a mio parere avvelenato. Come dico sempre, non c’è niente di nuovo sotto il sole. La ruota gira. Qui non c’è più niente da vedere, quindi trovo più utile rincasare”. Nel frattempo era arrivata la polizia di Scotland Yard, guidata da Athelney Jones.

“Gli hanno affidato questo caso, perché era disperato”, mi sussurrò il mio amico, mentre andavamo incontro all’investigatore. “Detective Jones! Che piacere rivedervi! “, esclamò il mio amico affabile, rivolgendosi all’investigatore, “Immagino che abbiate avuto molto da fare in questi ultimi tempi” aggiunse, con una punta di sarcasmo. E mentre ce ne andavamo,aggiunse ancora con sottile ironia: “Per evitare che facciate molta fatica, le suggerisco che la persona da cercare è una donna, mora e riccia, unghia corte tranne che per il mignolo destro a cui manca la punta, e alta quanto la seconda vittima”. Il detective grugnì irritato.

In carrozza, il mio compagno, con lo sguardo pensieroso verso le strade che scivolavano velocemente, mi disse: “L’ago era molto, molto sottile, per questo la prima vittima non lo ha sentito, invece la seconda ha intrattenuto una breve lotta con l’assassina”. Tornati a casa, ci accomodammo davanti al fuoco, e un po’ confuso chiesi: “Come avete capito le fattezze dell’uccisore?”. “Il colore e il tipo dei capelli l’ho capito da alcuni di essi che erano rimasti attaccati alla veste dell’uccisa dopo la lotta. Erano ricci, non potevano appartenere alla ragazza morta perché dalla cuffietta smossa fuoriuscivano i suoi capelli, castano chiarissimo, quasi biondi, leggermente mossi. Le unghia sono corte, poiché sul viso della ragazza sono presenti dei graffi molto superficiali. Si vede che manca l’estremità del mignolo destro, perché con la mano destra l’assassina ha dato uno schiaffo molto forte alla donna, per stordirla un attimo affinché potesse afferrarla e imbavagliarla con un panno impregnato di arsenico. Lo schiaffo è stato così forte che anche dopo la morte, sul candido viso dell’uccisa, è rimasta traccia della violenza. E si nota che il mignolo è più piccolo di quello di una qualsiasi donna minuta,forse a causa di un taglio leggermente obliquo visibile solo ad un occhio attento e allenato come il mio. Sicuramente l’assassina teneva il viso in ombra per non farsi riconoscere. In quanto all’altezza è ovvio che l’assassina sia alta quanto la vittima, sennò il signor Herborn si sarebbe accorto dello scambio. Le circostanze di questo non mi sono ancora del tutto chiare.”, rispose velocemente Sherlock Holmes, guardando fisso il pavimento, ancora pensieroso. “Straordinario”, esclamai dopo quell’ennesimo ragguaglio. Rimanevano ancora dei punti irrisolti: quando era avvenuto lo scambio delle cameriere? Come mai l’assassino aveva ucciso il signor Jhoannes e la povera servitù? Come era possibile che il primo delitto fosse stato commesso in giornata, mentre durante quella, fino a sera la prima vittima era viva e vegeta? Questi pensieri mi assillarono fino al primo pomeriggio, quando, tornato da una passeggiata per rischiarare le idee, trovai il signor Sherlock Holmes seduto nel bel mezzo del salotto con le gambe incrociate e con accanto la siringa della cocaina. Ad un certo punto, dopo averlo richiamato più volte gridandogli la sua scelleratezza a usare quella roba, mentre me ne stavo a guardarlo annoiato seduto sulla mia poltrona, aprì gli occhi all’improvviso. “Watson, lo scambio. L’ho capito.”, disse con euforia, “scrivete un telegramma al signor Melloy comunicandogli di venire qui adesso”. E mi precipitai al più vicino ufficio postale. Alla presenza del signor Melloy, in abiti più rispettabili e fremente di sapere, il mio amico incominciò ad esporre la sua spiegazione: ” La cameriera non è stata la seconda vittima, ma la prima e ora vi spiegherò in che modo. Partendo dal presupposto che l’omicidio di Jhoannes sia stato commesso in mattinata, allora l’assassino doveva essere già “dentro”. Quindi la finta cameriera doveva aver preso la copia delle chiavi delle abitazioni prima. Questa ipotesi dà ragione alla mia prima supposizione di fronte alla porta di vostro fratello. Ora, quando è possibile rubare le chiavi senza che nessuno se ne accorga? La mattina presto, in questo caso. L’omicida è entrata di nascosto nel rifugio della ragazza con l’intenzione di avvelenarla ma quando la giovane stava per uscire e portare la colazione al suo padrone, vide l’estranea con le braccia protese in avanti per legarle il fazzoletto velenoso sull naso. E incominciò, allora, la breve colluttazione da cui uscì vincitrice l’assassina. Per far sì che che la povera donna non attirasse l’attenzione del vicinato facendo rumore, dopo averla legata e imbavagliata, la depose all’interno dell’asse che aveva smosso. La vera cameriera è stata uccisa sia perché era una testimone, sia perché l’assassina serbava rancore contro di lei, visto che la ragazza era la nuova compagna di Jhoannes, come ho potuto vedere da alcuni biglietti sdolcinati all’interno del cassetto del tavolino. Poi per non destare sospetti nell’uomo, la donna gli portò la colazione e dopo averlo fatto alzare per sistemare il letto, quatta quatta prese il sottilissimo ago e lo conficcò nella schiena del signor Herborn, che ovviamente non percepì nulla e la donna tornò veloce a rifare le lenzuola. Inoltre, signor Victor, non si è chiesto perché la cameriera non avesse chiamato la polizia? Non è una buona ragione essere sconcertati per non farlo”. “Ma come spiega che sia morto la sera? obbiettai. “All’inizio ero perplesso anch’io su questo punto, ma oggi pomeriggio, prima che il dottore tornasse trovandomi seduto in terra, sono andato a prelevare una piccola quantità di sangue dal corpo della vittima che si trova all’obitorio. Analizzandolo ho verificato che ci fossero traccie di veleno. Quindi dico che ad uccidere il signor Herborn sia stato un veleno ad insolita azione ritardata, che non conosco.” Il signor Victor era stato nuovamente stupefatto dal genio del mio amico, rimanendo ancora una volta a bocca aperta. “E comunque il movente dell’assassino mi è stato chiaro fin dall’inizio. L’omicida è una delle tante ragazze dal cuore spezzato lasciate dal vostro fratello donnaiolo”. “Donnaiolo?” chiese con un po’ di indignazione il signor Melloy. “Certo. Mai notate le varie candele rosa profumate e i mazzi di fiori secchi con ancora attaccati i bigliettini?” rispose il mio amico e riprese: “Comunque la donna non ha lasciato Londra, è solo nascosta. Ed è per questo che stasera stessa, per le venti, io e il dottore andremo a trovarla. Sempre se lo desiderate,Watson? “E me lo chiedete? Certo che si”, risposi, ma nel mentre mi stavo chiedendo come Holmes facesse a sapere il luogo del rifugio. “Bene. Signor Melloy, potete venire anche voi se volete. L’ assassina non vi conosce, immagino”. Arrivata l’ora di andare, ci avviammo verso la porta d’ingresso per uscire in una delle solite sere annuvolate e nebbiose tipiche di Londra, attesi da una carrozza trainata da un fiero cavallo nero con una striscia pallida che andava dalla fronte al muso. Sherlock Holmes sussurrò qualcosa all’orecchio del vetturino, sicuramente il posto in cui doveva condurci. E così fu. Il mio amico stava portandoci in uno dei quartieri più squallidi della città, triste ma allo stesso tempo inquietante immerso com’era nelle tenebre. Durante il tragitto ruppi il silenzio facendo ad Holmes la mia domanda riguardo il nascondiglio, non avendolo io visto uscire di casa. Lui mi rispose con garbo: “Amico mio, mi scuso per non avervi avvertito o chiesto il vostro aiuto, ma avevo fretta. Come avete constatato voi stesso, durante una delle mie riflessioni su questo particolare mi è venuta un’illuminazione. Così sono uscito subito dopo di voi questo pomeriggio per andare a verificare la mia teoria e, come detto precedentemente, a prelevare il sangue. Poi sono rientrato per meditare sullo scambio, e qualche minuto dopo il mio rientro, voi siete tornato pensando che mi fossi iniettato ancora della cocaina vedendo la siringa accanto a me. L’ho fatto prima di uscire, ma per la fretta come vi ho detto, non ho riordinato”. Arrivati sul posto , scendemmo dalla vettura dirigendoci, preceduti dal mio amico, verso l’ entrata di quello che doveva essere il nascondiglio. Vedendo lo stato di abbandono in cui versava l’ingresso pensai che l’interno fosse proprio messo male. E invece con stupore mio e del signor Melloy, entrando trovammo sì una vecchia casa ma ordinata e quasi pulita con all’ingresso un grande tappeto rosso impolverato, ai lati del quale c’erano due porte socchiuse. Guardando a terra, Sherlock Holmes, che ci precedeva ancora, optò per la porta a sinistra sussurrandoci di avanzare silenziosi. Arrivammo in una stanza, che doveva essere la sala da pranzo. Al centro c’era un tavolo tondo a cui era seduta una fragile e giovane donna che consumava un misero pasto. Non appena ci vide accennò un debole sorriso e disse: “Signor Holmes, mi aspettavo di vedervi” e con un sottile gesto della mano ci invitò a sederci. Holmes, sedutosi al tavolo, congiunse le dita tranquillo e con una morbida voce chiese: “Perché, signorina Smith?” e sempre col sorrisetto e lo sguardo stanchi fisso su un punto imprecisato della stanza la ragazza, con una altrettanto debole voce, iniziò: “Volevo giustizia. Tradimento continuo e picchiata, alla fine, da quell’alcolizzato. Mi tradiva quasi ogni mese con una donna diversa, poi mi supplicava di perdonarlo e così facevo, dandogli sempre un’altra possibilità. Ma lui continuava imperterrito e alla fine mi sono arrabbiata davvero e abbiamo cominciato a litigare. Lui era un po’ brillo quella sera e sbraitava che io non valevo niente e così, dopo un po’, ha anche cominciato a picchiarmi, mentre disperata mi riparavo il viso. E non ancora contento ha cercato di sfregiarmi con un coltello e voi potete ben vedere come è andata a finire”e, a quelle parole, mostrò i bracci scoperti pieni di lividi e facendo scorrere lo sguardo sino alle mani, quella destra presentava la punta di un mignolo mutilato”. “Dopo qualche giorno passato in ospedale,tornando a casa, lo vidi passeggiare insieme ad un’altra ragazza che rideva con lui. Informandomi ho saputo che quella era la sua nuova ragazza così ho perso il controllo. Con l’aiuto di qualcuno ho organizzato un delitto inespugnabile. Un veleno ad azione ritardata! Un delitto inespugnabile, o almeno finché non mi sono lasciata trasportare dalla rabbia e ho ucciso la cameriera che ho riconosciuto come la nuova fiamma di Jhoannes, ma ho avuto speranza e mi sono limitata a nasconderla nell’asse del pavimento del suo lurido casolare. Così dopo aver controllato la sera che il verme fosse morto, ho finto il mio disgusto lasciandolo marcire nella sua stanza e filandomela”. Durante il racconto Victor sudava sempre di più con gli occhi sgranati. “Un delitto inespugnabile nonostante la donna. Mi sono sbagliata e così mi sono rassegnata al fatto che potevo essere scoperta. Non dalla polizia, è ovvio, e da chi se non dall’abile Sherlock Holmes? Così eccovi qui” . Il mio amico le chiese: “Chi era quel “qualcuno”? e la donna mormorò, come intimorita: “Un individuo di nome M…Moriarty”. Sherlock Holmes, induritosi di colpo, fece un cenno di assenso alla donna, si alzò, uscì dalla stanza seguito dal signor Victor e da me. Saliti di nuovo sulla carrozza ci dirigemmo verso Baker Street. Durante lo stesso tragitto per il ritorno il signor Melloy balbettò: “I..Io non c..credevo che Jhoannes fosse capace di tanta incosciente cattiveria” e arrabbiato rivolto al mio amico aggiunse: “Perché l’abbiamo lasciata, dovevamo portarla alla polizia!”. E Holmes rispose con voce dura: “Signor Melloy lei crede davvero che l’arresto di quella povera ragazza possa riparare la meritata morte di suo fratello? E comunque ho ben altre cose a cui pensare. Devo pensare a <>”, disse guardandomi serio. Sapevo cosa intendeva. Quella fredda notte si concluse con un detective Jones arrabbiato senza soluzioni e un problema lasciato in sospeso, tornato in ballo.

Il veleno ritardatario – By Vittorio Giammona