Al mio Maestro

E provai una malinconica sensazione di dolce tristezza.

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Fummo come investiti dalla luce.

Non capii subito la realtà. Pensavo che stessi sognando, anche se, non saprei descrivere cosa si provi.

Eppure mi sembrava che tutto fosse surreale come in questo momento. Scrivo ma non so se stia davvero camminando nei minuti del tempo e ora, non vi è che un’unica domanda a tormentarmi l’animo: “Si può parlare di un’emblematica piuma che plana e passa?”.

Forse è un’amletica domanda. Una di quelle in cui il cuore dovrebbe essere messo in rassegnazione dinnanzi ad una scontata conclusione. Eppure non mi tranquillizzava allora e non mi tranquillizza ancora adesso, questa fine. Lasciar scorrere un’astrattezza così innocente, faceva e fa tutt’ora sorgere, in me, ancor più domande.

Fu solo la vista del mio Maestro che mi rasserenò.

Fu come un bagliore nel mezzo di una consuetudinaria mia tempesta interiore.

E fui felice.

Si, proprio così. Perchè sapevo che lui era lì, accanto a me.

E sapevo che nel suo sguardo avrei potuto ritrovare, sempre, il mio senso di stabilità.

Quando questi miei pensieri furono sfrecciati dentro me e visibili, oramai, solo in un paesaggio orizzontale, concentrai tutta la mia attenzione su ciò che mi circondava.

E la cosa che mi stupì maggiormente, fù il silenzio che inizialmente non riuscì, davvero, a cogliere.

Non un suono.

Neanche quello di un’anziana marcia. Eppure nella neve, le impronte, erano una moltitudine di passi.

E ciò mi fece fermare.

Fermare a riflettere. A sentire.

Era così.

Calmo, il tutto.

E quando udì, dal mio Maestro, la spiegazione di tale situazione, rimasi, ancor più, perso.

Ci trovavamo nel girone dei suicidi. Quello che di sette, vi è la coda.

Quello delle anime, in cui il grido interiore, aveva sbranato l’intero terreno e aveva condotto ad un’attraente e unica, via d’uscita.

E provai una malinconica sensazione di dolce tristezza.

Quella in cui vorresti solo essere circondato da due braccia e sprofondare nel loro calore. E forse il mio sguardo, quello che rivolsi a colui che, il cuore, me lo aveva davvero curato, cercava solo quello.

Parlare di ciò che mi attorniava, mi pare inutile, talmente tale era la perfezione che lo componeva. Eppure voglio provare lo stesso a raccontare quello che più di tutto, mi alienò.

C’era bianco.

Questo bianco immenso.

Infinito.

Bianco come il riflesso della luce su un paesaggio invernale.

Bianco come la purezza che sempre ho creduto non mancare, a chi decide di abbandonare quel bosco umano, senza un valido destino e senza un minimo rumore.

E quello che non mi stupì, fu l’assegnazione di un tale paesaggio a quelle anime.

Non rimasi colpito. Per il semplice fatto che sentivo appartenere a loro, quel vuoto.

E posso dire con del certo, tale mia considerazione: avevo forse anche io provato quella analoga sensazione e probabilmente, se mi potevo considerare uscito, se potessi davvero dire di esserlo, l’ammirazione non doveva essere ricolta solo verso me, ma a qualcuno di Più.

Quando ci inoltrammo per quel vuoto così innaturalmente stabile, mi fù impedito anche solo di scorgere una mia assente anima.

Un mio quasi riflesso.

E questo, non per la loro assenza ma per la mia incapacità di attenzione. È sempre stata la mia più grande amica paura: non riuscire ad accorgermi in tempo, del malessere, di coloro che, il cuore, me lo avevano risistemato e ora, vi appartenevano.

Ma quando il mio Maestro, vista la mia caduta abissale, mi cinse la mano per non permettere al mio io, di sprofondare, riuscii a scrollarmi di dosso, quei dubbi macigni così visibilmente notabili.

E solo allora la calma, che in parte mi trasmise, mi consentì di procedere con un altro passo.

Iniziai a scorgere una folla di ombre. Non so se fossero idealmente così o se il loro essere uniti vi sottolineava l’intensità. So di certo che quel colore cenere, vi aderiva più del semplice pensarlo.

E li guardai.

Guardai i loro spostamenti. Qualcosa di così lentamente forzato, da riuscir ad emanare triste pesantezza. Ad emanarla con un tale divampamento, da risultare incredibilmente associabile.

E rimasi così.

Fermo.

Come se dinnanzi a me, un’opera d’arte stesse lentamente venendo a scoperta delle mie due uniche veritiere realtà.

E più cercavo di scostarmi da quel tutto, e più quel nulla mi attirava.

Elle, erano in così perfetta armoniosa antitesi che, vi era impossibile distogliere la contemplazione. E mi venne spiegata, quella immensa pesantezza.

Il candore che li circondava era già opposizione in sé. Perché l’insieme di quella concentrazione di colori, rifletteva vuoto. E questo erano quello a cui, quel così confusionale miscuglio di colori, dal nero risultato, aveva inevitabilmente scelto di andare incontro.

Io la colpa, non riuscì mai a darla a quelle anime.

Forse perché da allora, pensai, che quello sarebbe stato l’unico luogo conclusivo per me.

E perché quel vuoto, a cui erano costrette a convivere, mi pareva la pena più dilaniante.