Mugen Kaidan. Giardini senza fine

Il genere letterario è il Kwaidan (Kaidan) giapponese attualizzato in occidente. Lo yokai (spirito del folclore) di cui si parla è il Mugen Kaidan. Il tema trattato nel racconto è l'omofobia ed il rispetto per la dignità della vita.

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Mugen Kaidan

(gradini senza fine)

un Kaidan di Nichiran-Ichiro

Era una tiepida sera di fine novembre, tiepida ma non fredda, l’inverno iniziava ad arrivare abbassando le temperature ma, per il periodo, esse erano   decisamente anomale. Era una sera tranquilla, la luna splendeva nel cielo e le nuvole ne celavano alla vista la falce crescente. Due ragazzi uscivano da un caseggiato illuminato dalle fioche e giallognole luci dei lampioni; chiacchieravano amichevolmente, Il caseggiato era basso, di due piani, sembrava una moderna villetta circondata da un’alta recinzione metallica che oscurava alla vista il cortile interno, ad ogni angolo vi erano telecamere che sorvegliavano il perimetro e minacciosi cartelli su sfondo giallo intimavano sia il LIMITE INVALICABILE quanto il farsi riconoscere. I due giovanotti, ben vestiti e sulla trentina, smontavano dal loro turno di lavoro. 

Durante quel tranquillo turno di lavoro, fecero i soliti giri di ronda con la volante fermando alcune autovetture per dei controlli di routine. Ad uno sbadato automobilista elevarono una contravvenzione, quella che stava per finire poteva dirsi una giornata tranquilla.

Mentre si incamminavano verso le rispettive autovetture continuavano i loro discorsi. Erano giovanotti ben curati e vestiti come in uso a due trentenni alle porte del primo ventennio degli anni duemila. Roberto, uno dei due, portava una barba curata e qualche bracciale al braccio sinistro che però non portava quando era in servizio a cui va aggiunto un corpo saggiamente tatuato che lo rendeva una “preda molto ambita” ma sfuggente. Questo giovanotto, ancora stava pensando fra sé e sé all’ultima autovettura che lui ed il suo collega avevano fermato quella sera; un simpatico gruppetto di ragazzi loro coetanei che ritornavano dal Varesotto. Quella lì fu una serata “proficua” per lui. Il caso volle farlo incrociare con quella comitiva di ragazzi nella quale ebbe modo di notare un giovane, anch’esso poco più che trentenne (trentaduenne, avrebbe precisato quel giovane, se fosse stato interpellato), dai lineamenti orientaleggianti e la pelle moderatamente olivastra, seduto al lato passeggero che lo aveva incuriosito. Non tanto per i baffi incerati come Hercule Poirot od il sottile pizzetto, ma piuttosto per un non so che nello sguardo, quegli occhi brillavano di una luce particolare.

Fu questione di un attimo, i due sguardi s’incrociarono e Roberto scorse in quegli occhi qualcosa che lo catturò ma che non sapeva definire. Quegli occhi vispi, gentili e magnetici mostravano una luce inusuale. Come se giacesse accesa, in quel piccolo ragazzo dal grande cuore, una fiamma particolare che se non fosse per la giovane età del ragazzo, pareva di leggervisi il peso dei secoli vissuti. 

Mentre gli occhi di Roberto coglievano tutti questi dettagli, egli si attardava a fare qualche domanda al ragazzo e ai suoi amici. Quell’incontro fortuito, così proficuo, spinse il nostro Benemerito Cavaliere, una volta presi i documenti di identità dei quattro ragazzi, ad inserire all’interno della carta di identità del nostro baffuto ragazzo dai tratti orientali un bigliettino con scritto il suo numero di cellulare e l’appunto; “Bei baffi, fatti sentire, Roby”. 

Quella non fu la prima volta che i due giovani agenti si lanciavano in simili azioni di “rimorchio”, anche solo per rendere meno noioso e formale il loro lavoro, che comunque svolgevano con rigore e serietà. Questa volta a Roberto fece un effetto diverso, colse nell’essenza del giovane Jacopo, così si chiamava il giovane, qualcosa che gli procurò un piacevole brivido lungo la spina dorsale.

Il collega di Roberto, pensandola esattamente all’opposto, ebbe modo di prenderlo in giro per il gesto.

«Aah! Buongustaio, vuoi divertirti con quel frocetto baffuto? Credi non lo abbia capito che a quello piace il manganello? Ho visto come ti squadrava! Sai quanti me ne sono fatti di quelli lì?» disse il collega a Roberto. aggiungendo «Secondo me ci sa anche fare con certi lavoretti!».

«So quanti “frocetti” ti sei fatto, non sono comunque cazzi tuoi questi!» gli rispose Roberto per le rime.

«eeh! Mamma mia, non si può neanche scherzare Roby!! divertiti pure con chi desideri! sai che me frega!» rispose il collega.

Terminato questo piccolo screzio, Roberto andò a riconsegnare i documenti ai ragazzi e li lasciò proseguire verso casa non prima di avergli fatto le solite raccomandazioni e per avere modo di riguardare ancora una volta gli occhi di quel ragazzo dai tratti orientali. Il proseguo del turno per i nostri due agenti fu come se nulla fosse successo, fra amici e colleghi capitano episodi simili anche se a Roberto dissentiva sul modo di fare e di vivere del suo collega.

Salutatisi, Roberto ed il collega, si diedero appuntamento al giorno successivo, ognuno dirigendosi verso la propria autovettura. Il collega di Roberto aveva anch’esso i suoi pensieri. Infatti anche per lui era una serata proficua, non aveva abbordato nessuno ma fra poco si sarebbe incontrato con il “SUO” frocetto, sarebbe andato a casa di un ragazzo che vedeva spesso dopo il turno ed al quale gli dava l’onore di provare il suo manganello. Si sentiva così forte e maschio all’idea di usare e quasi abusare di questo ragazzo, e a dirla tutta quel ragazzo non era il solo che finiva fra le tacche sulla sua cintura.

Ovviamente, come spesso accade in situazioni simili, dopo essersi divertito, si sarebbe rivestito e sarebbe tornato a casa propria e dalla propria moglie.

Quella era una sera come tante altre, salì in macchina mettendosi diligentemente la cintura e prima di avviarsi, prese in mano lo smartphone ed iniziò a digitare un messaggio diretto al suo “amante”.

«Ho staccato ora. Una ventina di minuti e sono lì» scrisse.

Il ragazzo rispose con un pollice all’insù in segno d’approvazione.

Depose così il cellulare e si mise alla guida verso casa del ragazzo. Già sentiva gli ormoni che si preparavano all’idea di gustare quella carne e di poterne fare, come ogni sacrosanta, volta un oggetto del proprio desiderio sessuale, di dominarlo al suo solo ed unico piacere e di appagarsi totalmente nell’atto di possederlo ed in qualche modo poterlo considerare una sua proprietà esclusiva. Quella sera il traffico lungo la strada era pressoché assente perciò arrivò velocemente a casa del ragazzo. Trovò parcheggio a breve distanza dal portone del palazzo in cui abitava e scese. Dirigendosi verso il portone trovò anche il tempo di sistemarsi la strumentazione che nel frattempo si stava preparando alla battaglia che sarebbe seguita a breve. Suonò il citofono e il ragazzo gli aprì. Entrò nell’androne e s’incamminò a passo svelto e deciso verso le scale. Il ragazzo abitava al quarto piano ma, nonostante vi fosse un ascensore decise di prendere le scale cosi si sarebbe mantenuto in allenamento, come era suo solito. Mantenersi in perfette condizioni fisiche al fine di dimostrare che uomo virile fosse, questo era il suo pensiero.

Il palazzo nel quale abitava il giovane, forse sventurato, amante era di recente costruzione aveva superato da poco il decennio e sorgeva sul luogo nel quale per molti anni vi era stata una vecchia fabbrica. La zona rimasta abbandonata per molti anni venne poi edificata con un complesso residenziale dove, sul lato sinistro del grosso complesso, ai piani terreni, vi trovavano posto due supermercati ed altri esercizi commerciali, mentre il lato destro era occupato dalla maggior parte del caseggiato abitato. Entrati nell’androne del palazzo, sulla sinistra si potevano notare le caselle della posta e sulla destra un vascone riempito di argilla con piante sempreverdi al suo interno. 

Fatti tre scalini vi era il pianerottolo con i primi due appartamenti del pian terreno e al centro la tromba dell’ascensore attorno al quale si avvolgevano le rampe di scale. Per andare verso i piani superiori si prendeva la rampa di destra, mentre a sinistra le scale scendevano nel vano cantine. La cosa buffa era che percorrendo le scale dai piani alti verso il piano terra, man mano che si scende non si ha modo di vedere dove si sta andando un po’ come nelle scale a chiocciola dei castelli dove al centro vi è il muro che ti ostruisce la vista della parte bassa della scala e ti sembra di fare un’infinita discesa di gradini chiedendoti quando finisca e dove non hai modo neanche di vedere se qualcuno dal basso sta salendo. Quello stabile aveva una costruzione simile. La tromba dell’ascensore, oscurando la vista lungo il percorso, ti dava l’impressione di una infinita salita (o discesa) dove il paesaggio sembrava tutto eternamente uguale ed a volte veniva da chiedersi quando finisse tanto che spesso anche i condomini più esperti, presi dalla monotonia dello scendere si ritrovassero sovrappensiero nel vano cantine mentre invece dovevano solo uscire al pian terreno.

In poche falcate arrivò alle scale di destra ed iniziò a salire le rampe di scale, ogni volta che saliva e scendeva non poteva fare a meno di notare anche lui la particolarità di quella costruzione architettonica e spesso pure lui perdendo la cognizione di dove si trovasse si ritrovava o al piano inferiore o a quello superiore a quello dove abitava il ragazzo e, dandosi dello stupido aggiungendo qualche maledizione per l’architetto era costretto a scendere o salire di un piano.

In pochi minuti giunse al piano. Non appena arrivato davanti alla porta, il ragazzo l’aprì ed entrò. Nonostante cercasse di sembrare gentile ed amorevole, gli restava addosso quell’olezzo di arroganza e spocchiosità tipica degli arroganti egocentrici pieni di sé della cui categoria lui era un degno rappresentante. Le sue gentilezze, discretamente mascherate, però si frantumavano come castelli di carte una volta coinvolto nell’atto sessuale e denudato dei freni inibitori, lì la sua vera natura veniva a galla.

Il ragazzo, gentilmente, come era sua abitudine di ragazzo educato gli chiese come stava e come fosse andata al lavoro.

«Oh, bene, un turno tranquillo mio caro» gli rispose sorridendogli e guardandolo dritto negli occhi.

«Ottimo, meno male» rispose il ragazzo. «vuoi un po’ d’acqua?»  aggiunse.

«Si grazie» rispose lui.

Mentre beveva, seduto sulla sedia, il ragazzo dandogli una rapida occhiata notò che lui aveva già gli umori pronti all’azione. Finito di bere il prestante agente si alzò toccandosi mascolinamente la dotazione e guardando il ragazzo gli si rivolse a dicendo:

«ti piace vero?» pronunciate queste parole si diresse verso il ragazzo, lo strinse a sé abbracciandolo e lo baciò.

Si diressero a consumare la loro passione in camera da letto del ragazzo. Terminato l’amplesso e abbandonatosi esausto sul letto dopo l’ennesima dimostrazione di ostentata virilità, si alzò andando in bagno per lavarsi. Uscendo dal bagno notò che il ragazzo lo stava guardando. Vedere quel ragazzo che lo ammirava fece gonfiare il suo ego ancora più di quanto non lo fosse già. Aveva un’idea molto chiara di cosa passava per la testa del ragazzo. Lo conosceva molto bene, era ormai più di un anno che ci andava a letto. Poteva intuire che nei pensieri del giovane ragazzo, vi fosse la voglia di averlo tutto per se e magari concretizzare la loro conoscenza in qualcosa di più del semplice sesso, ma come sapeva benissimo anche il ragazzo, lui essendo sposato, quello fra loro era solo sesso. Inoltre, Mica era frocio lui, era un “uomo Vero”; teneva “le palle e la pistola” e quel ragazzo era solo il suo giocattolo sessuale. Lo stava usando solamente per svuotarsi e rilassarsi finito il turno. Certo un pochino gli dispiaceva ma la vita era così e quel ragazzo era meglio che capisse che nella vita non bisogna illudersi ed essere realisti, la vita è una giungla dove vince il più forte. E lui si sentiva il migliore.

Sempre con il suo finto fare gentile si rivolse al ragazzo dicendo che doveva scappare da sua moglie e che, come sapeva, non poteva trattenersi. La tentazione di restare, per dargli il bis era forte ma era costretto ad andare. Iniziò così a rivestirsi. Nel frattempo il ragazzo, andò a lavarsi in bagno uscendone in pigiama, l’aitante agente, nel frattempo, aveva finito di rivestirsi e lo stava aspettando. Mentre si dirigevano verso la porta, l’agente in uno strano impeto di tenerezza strinse la spalla destra del ragazzo. Fu un fatto insolito dato il tipo di persona, e rivolgendosi al ragazzo disse:

«Domani sono di turno con il notturno, quindi non ci possiamo vedere, mi faccio vivo io» disse.

Il ragazzo annuì col capo e gli sorrise cortese. Dentro di lui, se solo avessimo potuto indagare, avremmo percepito i primi segnali di malinconia dovuti al suo risveglio sul fatto che quell’uomo lo stava solamente usando. Non gli sarebbe però occorso molto tempo per decidere di interrompere quel rapporto, sempre se non ci avesse pensato la legge del Karma a farlo prima.

Si salutarono sulla soglia e il giovane ragazzo richiuse dietro di se la porta dirigendosi verso la camera da letto per andare a dormire spegnendo al suo passaggio tutte le luci dietro di sé. Potendo vedere la scena era come un sipario che calando si chiudeva su una situazione, come due strade che ormai si stavano allontanando le une dalle altre, due vite ormai dirette verso destini totalmente differenti.

Ancora sulla soglia della casa dalla quale era appena uscito il collega di Roberto prese in mano il cellulare e si mise a scrivere un messaggio per sua moglie

«Vita Mia, scusa il ritardo, ho finito da poco e mi sono attardato a chiacchierare con un collega, mezz’oretta e son da te» le scrisse.

La moglie rispose con un vocale di pochi secondi che non venne ascoltato perché già intuiva fosse un semplice “ok”.

Infilò le cuffie e mise una playlist di spotify, iniziando lentamente a scendere le scale. La prima canzone che risuonò, dopo il canonico annuncio pubblicitario, fu una canzone di un artista dalla chiara inflessione romana che parlava di una sigaretta che affoga in un tombino e di sirene che fanno nino-nino. Stiracchiandosi un attimo, riprese a scendere con calma le scale. La voce calda e un po’ alitata del cantante, forse per sembrare più sexy, risuonava nelle sue orecchie. Si sentiva appagato dopo quell’incontro, gli ci voleva proprio una bella scopata a fine turno per scaricare la tensione. 

Mentre la playlist passava alla canzone successiva iniziò a pensare che avrebbe potuto proporre al suo “amichetto” una cosa a tre; l’idea che lui ed un suo collega si divertissero con quell’ingenuo frocetto poteva rivelarsi interessante per lui e sicuramente poteva allettare quel ragazzo che avrebbe avuto la fortuna di stare contemporaneamente con due “Veri Uomini”. Il suo ego di maschio Alpha, come si riteneva, avrebbe fatto certamente la ola. Scrollando la testa, sul suo viso si stampò un sorriso che manifestava appieno la natura malvagia che giacente in lui.

Aveva percorso due rampe di scale e relativi pianerottoli dall’ inizio delle sue fantasticherie quando, giunto al piano, la luce ebbe un tremolio e si spense per poi non riaccendersi più. Alzò lo sguardo verso la plafoniera avvolta nel buio, i pulsanti degli interruttori della luce segnalavano la loro posizione con una lucina fioca rossa. Il pianerottolo era avvolto nell’oscurità e dalla rampa di scale s’intravedeva il bagliore della luce del piano sottostante. Pensò fra sé e sé che, semmai fosse inciampato, rotolando dalle scale, magari rompendosi qualche osso, avrebbe fatto causa al condominio e li avrebbe spellati vivi. Con cautela appoggiò il piede sul gradino ed avanzò con cautela. Il primo gradino fu superato. Sempre con la medesima cautela, ma con passo un pochino più sicuro, iniziò a scendere i restanti gradini quando improvvisamente anche la luce dal piano di sotto venne a mancare lasciandolo nel buio più totale.

«Ma porc…..!» gli sfuggì un’imprecazione che decise di troncare.

Decise di continuare a scendere, ormai mancava poco al piano terra e non voleva prendere l’ascensore. Prese il cellulare ed accese la torcia per farsi luce. Quella lucina a led illuminava la sua discesa similmente alla pila sul caschetto di uno speleologo che discende nelle profondità della terra. Arrivato al pianerottolo la luce si riaccese, e lui spense la torcia. Affrettando un attimo il passo, si accorse che spotify si era stoppato, non se ne accorse subito in quanto, distratto dagli ultimi eventi; ora però notava che gli mancava il sottofondo musicale. Estrasse così il cellulare per chiudere la app, tanto fra poco si sarebbe messo alla guida e non gli serviva ma, non appena sbloccato lo smatphone con il sensore d’impronta digitale, s’accorse che sullo schermo compariva la scritta nessun servizio.

«MERDA!» esclamò! In quel punto il suo cellulare non aveva campo.

Rimisosi in tasca il cellulare, riprese a scendere le scale con passo accelerato. Voleva tornare al più presto a casa. I suoi passi veloci divoravano gli scalini e ben presto altri due pianerottoli scorsero alle sue spalle. Con la mente andò sovrappensiero a quello che avrebbe fatto dopo con sua moglie, magari ci scappava la seconda scopata della giornata. I suoi piedi divorarono altri scalini ed ulteriori due pianerottoli furono scesi. Sotto i piedi dell’aitante agente scorrevano inesorabili gradini ed pianerottoli. Era talmente sovrappensiero, tanto assorto nelle sue riflessioni, che ormai i piani che discese erano quasi una decina. D’improvviso si bloccò, come folgorato da un’illuminazione, o meglio come se tutto a un tratto si fosse reso conto che qualcosa non quadrava, o qualquadra non cosa (gioco di parole ironico, nda). 

Si guardò attorno spaesato. Attorno a lui vi erano quei pianerottoli anonimi identici a come li aveva sempre visti, nulla di strano. Soffermandosi a pensare, si rese conto che ormai sarebbe già dovuto essere arrivato al piano terra. Con le dita conteggiò i pianerottoli, partendo da quello da cui era partito, e convenne che, ormai, doveva essere arrivato abbondantemente al piano terreno. Sapeva che il palazzo contava otto piani e il suo “amichetto frocetto” abitava al quarto. Dai calcoli che fece, doveva aver sorpassato 12 pianerottoli, qualcosa non gli quadrava. Era decisamente confuso.

«ma che cazzo succede?» disse fra sé e se.

Girandosi verso l’ascensore, ne premette il bottone. Pensò che prendendo l’ascensore avrebbe tagliato la testa al toro, premendo il tasto zero, i giochi erano fatti. Almeno così credeva lui. La luce rossa del pulsante si accese e in poco tempo l’ascensore arrivò al piano. Le porte s’aprirono e lui entrò. Premette il pulsante del pian terreno, segnalato da una bella T, le porte dolcemente si chiusero e l’ascensore iniziò a scendere, pochi secondi dopo si arrestò la discesa, sentì un familiare tintinnio e le porte iniziarono ad aprirsi, già nella sua mente vedeva le porte a vetri dell’androne, alla sua sinistra la familiare composizione floreale e alla sua destra le caselle della posta, ma con suo grande stupore ciò che le porte scorrevoli dell’ascensore, ormai aperte, disvelarono ai suoi occhi sbalorditi non era altro che l’ennesimo pianerottolo. 

Niente composizioni floreali, niente caselle della posta, niente porte a vetri. Solamente un’anonima porta blindata, un portaombrelli, un tappetino con la scritta WELCOME a caratteri cubitali.

«noo, non ci credo, sono su scherzi a parte» disse, guardandosi in giro in cerca di telecamere nascoste.

Prima di uscire dall’ascensore per guardarsi attorno, premette nuovamente il tasto T per sicurezza, nel caso che un inquilino di un piano superiore lo avesse premuto e poi spazientito dall’attesa avesse deciso di prendere le scale. Guardando l’indicatore sul display dei comandi dell’ascensore poteva notare che esso segnava effettivamente il piano terra. Le porte si chiusero nuovamente e dopo un istante si riaprirono nuovamente, non sentì’ neanche la cabina scendere. Le porte si riaprirono come quelle volte che uno per errore schiaccia il pulsante del piano in cui già si trova e le porte si chiudono e si riaprono. Dopo un primo momento di perplessità convenne che probabilmente l’ascensore avesse un guasto e a scanso di equivoci decise di uscirne e provare nuovamente per le scale. Così facendo uscì dalla cabina dell’ascensore e pochi istanti dopo, come spesso accade in alcuni modelli, le porte dell’ascensore si richiusero da sole, la spia del pulsante lampeggiò per qualche istante e poi anche la luce della spia FUORI SERVIZIO si accese. Confermando così i sospetti del nostro aitante agente.

scuotendo la testa, un sorrisino da “che ti avevo detto? Son mica ciula io” gli comparve sul viso [ciula = pirla, scemo. Termine gergale lombardo. NdA] . Si diresse così verso la rampa discendente e con passo svelto ma gli occhi ben attenti scese la rampa di scale verso il piano inferiore, fiducioso di trovarsi finalmente al piano terreno. Purtroppo così non fu, finita la rampa a L gli si parò dinnanzi l’ennesimo pianerottolo non molto differente dal precedente.

«ooook, sarà il prossimo allora» sussurrò, con una lieve punta di incazzatura.

Imboccò nuovamente la rampa di scale, sempre con passo accelerato, parecchia incazzatura in corpo ma ancora fiducioso mancasse poco al piano terra. Ancora non riusciva a capacitarsi di quanto stesse succedendo, si sentiva preso in giro. Superò la metà della rampa e girato verso destra imboccò la seconda metà della rampa e finalmente gli ultimi gradini furono divorati e… dinnanzi a lui un altro anonimo  pianerottolo, esattamente uguale a decine di altri visti prima quella stessa sera in quello stramaledettissimo palazzo, maledetta quella volta che decise di metterci piede, questo fu il suo pensiero. Ormai doveva essere passato un po’ di tempo da quando era uscito da casa del ragazzo. Fermandosi all’ingresso del pianerottolo si sedette un momento a riflettere, estraendo nuovamente il cellulare dalla tasca poté notare che ancora non vi era campo. Non poteva neanche telefonare. La rabbia dentro di lui ormai era incontenibile, in un impeto di collera lanciò contro il muro a lui difronte lo smartphone che con l’impatto si divise in qualche decina di pezzi, segnandone così la morte. Resosi conto della cazzata fatta e di aver perso il controllo si alzò, andando così a raccogliere i cocci del suo telefono. Tanto erano suoi, come dice il proverbio. Improvvisamente un pensiero gli balenò nella mente:

«che pirla sono!» disse fra sé e se.

Decise di seguire quel lampo di genio,  avrebbe ripercorso a ritroso i pianerottoli fatti, sarebbe arrivato davanti alla casa del ragazzo, avrebbe campato su una scusa, intortando il “frocetto” magari con la scusa di una lite con la moglie. Tanto sapeva che nel profondo quel ragazzo non chiedeva altro che il barlume di speranza che lui mollasse la moglie per stare insieme a lui. È un classico. Gli avrebbe chiesto se poteva passare la notte da lui, magari avrebbe dovuto solo “dargli qualche colpetto”  ed il giorno dopo, tutto sarebbe tornato alla normalità. Avrebbe così’ archiviato questa strana serata. Girando i tacchi, fece appello a tutta la sua prestanza di maschio alpha tornando indietro sui suoi passi diretto verso il pianerottolo del ragazzo, di cui fortunatamente ricordava il nome sul campanello. I gradini scorrevano sotto i suoi piedi come i metri percorsi su un tapis roulant, la prima scala fu alle sue spalle ed approdò al pianerottolo superiore. La luce del pulsante dell’ascensore era ancora fuori servizio. In pochi passi attraversò il pianerottolo lasciandolo al suo passato. Una nuova speranza pervadeva il suo essere, un sorriso beffardo gli comparve sul volto, come a voler dire che nessuno poteva fotterlo, semmai era lui a fottere gli altri, e non solo in senso metaforico. Mentalmente riprese a contare i pianerottoli, il primo era alle sue spalle, così anche il secondo ed il terzo, il quarto ed il quinto, il sesto ed il settimo, grazie al suo allenamento non sentiva particolarmente la fatica anche se iniziava ad essere sudato e le forze non erano più quelle di quando aveva iniziato. Nel giro di pochi minuti, dati i suoi conteggi ebbe superato 15 pianerottoli ma il paesaggio non cambiava attorno a lui, arrivato all’ennesimo pianerottolo si sedette a riflettere un attimo.

«dove… cazzo… sono… finito!» fu il suo pensiero.

«cosa cazzo sta succedendo!» aggiunse fra sé e sé.

La spavalderia fallocentrica degli inizi ormai, col passare del tempo, iniziava a vacillare. Anche controllare nuovamente il cellulare risultava inutile in quanto esso, se solo fosse stato funzionante, avrebbe dato ancora NESSUN SERVIZIO. Non poteva chiamare nessuno ed era in una specie di prigione, intrappolato in una infinita discesa, o salita, di gradini, rampe di scale e pianerottoli anonimi.

«pianerottoli…» disse a sé stesso.

«che pirla sono! Dietro alle porte dei pianerottoli ci sarà qualcuno a cui chiedere aiuto» pensò, a quel punto non gli importava nulla di sembrare pazzo!.

Con un ultimo slancio si alzò e si diresse verso il portone che aveva difronte, suonò il campanello, non senza sentirsi imbarazzato e lanciando fra sé e sé qualche maledizione verso la sua attuale situazione. Attese di sentire i rumori di qualcuno che veniva ad aprire, attese la familiare voce sentiamo quando suoniamo il campanello, quella voce che chiede chi siamo, ma il più totale silenzio regnava. Senza perdersi d’animo suonò nuovamente il campanello ma anche questa volta nessuno rispose. Pensando di avere beccato un appartamento nel quale quel giorno i proprietari fossero fuori provò a quello accanto ma ricevette la medesima risposta. La sua pazienza iniziava a vacillare ma non il suo autocontrollo. Decise allora di scendere al piano inferiore e battere tutte le porte che trovava finché qualcuno non gli avesse aperto. Scese al piano inferiore e suonò il campanello della prima porta che trovò ma anche là il silenzio regnava sovrano. Stessa cosa successe alla porta accanto.  Ormai era nero di rabbia, la calma ormai l’aveva lasciata al piano superiore ed a quel piano avrebbe abbandonato anche il suo autocontrollo. Iniziarono a volare le imprecazioni. Scese al piano inferiore deciso a battere a tappeto tutte le porte che trovava. Arrivato alla porta suonò il campanello ma il silenzio regnò. La medesima cosa alla porta accanto, perso ormai l’autocontrollo iniziò a picchiare pugni sulla porta tanto da rischiare di rompersi la mano. Iniziò ad imprecare contro chiunque, secondo lui si nascondesse dietro la porta reo di fare o di essere il coglione intimandogli di sbrigarsi ad aprire se non voleva vedersi sfondare la porta e ritrovarsi i connotati stravolti.

Al silenzio che fece seguito alle sue minacce, ancora più inviperito, prese il portaombrelli in plastica, di palese provenienza cinese e lo scaraventò contro la porta blindata provocando un frastuono che rimbombò per le scale. Lo sventurato portaombrelli ricadde tutto sformato dall’altro capo del pianerottolo ed in un impeto di pura rabbia incontrollata tirò anche un pugno con la mano contro al muro con il risultato di farsi un male cane, segno che se la era rotta e lasciando uno sfregio di sangue sul muro.

«Ma porc….» si lasciò sfuggire, mentre tastandosi la mano ormai rotta, fece appello ad un barlume di autocontrollo, almeno sul dolore che provava.

Nonostante il dolore e la mano rotta decise di proseguire nel suo intento di pattugliamento fino a che non avesse ricevuto una risposta. Scese al piano inferiore ma la musica rimaneva la stessa, alle sue imprecazioni rispondeva il silenzio, ormai arrivato al piano di turno suonava e se non riceveva risposta provocava verbalmente chiunque, secondo lui, fosse all’interno degli appartamenti; prendendo a pugni le porte con la mano sana, stando però attento a non rompersi anche la seconda. Ormai i piani passavano e lui riceveva sempre la medesima risposta, ovvero il più totale silenzio. Arrivato all’ennesimo pianerottolo e per l’ennesima volta, tirando un sospiro di rassegnazione, suonò il campanello. Con suo grande stupore gli parve di sentire un rumore, anche se non ben chiaro.

«c’é nessuno in casa? Son scivolato dalle scale e mi son rotto la mano» disse all’inquilino che di lì a poco, secondo lui, gli avrebbe aperto ponendo così fine a quella tragicomica situazione.

Attese risposta, e questa volta il suono fu più chiaro ma gli parve di non aver compreso bene, gli parve di udire un rutto. Sul suo viso comparve perplessità e stupore. Il suono si faceva sempre più forte e chiaro, come se si stesse avvicinando alla porta; ma decisamente ora poteva udire chiaramente che non si trattava di un rutto. Quello che le sue orecchie sentivano era un suono gutturale, come un rantolo, prodotto dal profondo della gola e con la bocca spalancata. Un suono molto simile a quello che chi ha visto il film “the Grudge” conosce bene. Era un suono che, nel buio della notte e, nella solitudine di quel luogo ti entrava nelle ossa raggelandoti. Pensando che la persona dall’altra parte della porta stesse male chiese:

«tutto bene? Ha bisogno di aiuto?» furono le sue parole.

Il suono però non smetteva e si avvicinava fino a che non ebbe l’impressione che chi lo produceva fosse quasi dietro la porta. La maniglia si girò ed il suono della serratura scattò. La porta iniziò ad aprirsi lentamente rivelando che l’interno dell’appartamento era totalmente buio. Istintivamente lui arretrò, piano. Quando la porta fu totalmente aperta, confermando che l’intero dell’appartamento era buio e non appena i suoi occhi iniziarono a distinguere quello che vi era al suo interno, il suo viso sbiancò. La visione di quello che vi era nell’oscurità aveva reso il suo viso come quello dei cadaveri, la paura ed il terrore a quella vista erano tali che gli sembrava che la temperatura attorno a lui fosse precipitata sotto zero tanto che non riusciva a contenere i brividi. Nella più totale oscurità poteva intravedere in fondo al corridoio d’entrata, una sagoma umanoide nera, dai capelli lunghi anch’essi neri. Essa era più scura dell’oscurità che la circondava e la cosa che più lo faceva raggelare erano i suoi occhi rossi che si stagliavano nel buio. Dopo una breve pausa la creatura emise nuovamente quel verso gutturale ed iniziò lentamente ad avvicinarsi a lui, quasi stesse fluttuando nell’aria. Col viso ancora bianco cadavere e resistendo alle gambe che avrebbero voluto farlo schiantare al suolo, in uno scatto fulmineo fuggì da là imboccando le scale verso il piano inferiore e corse a perdifiato come se la sua vita dipendesse da quanto fosse in grado di correre. In poco tempo riuscì a scendere di due pianerottoli ma sentiva in lontananza la creatura emettere quel suo grido gutturale e sentiva la sua presenza che si avvicinava, che al suo passaggio creava il buio attorno a sé. Il cuore ormai gli scoppiava nel petto ma con la forza di volontà riuscì a non stramazzare al suolo e a continuare a scendere di due, tre e poi quattro piani quando il paesaggio cambiò repentinamente. Senza che potesse rendersene conto. Si ritrovò in un posto illuminato da luci più fioche, tenui e giallognole. Le pareti erano impolverate, i muri grezzi e di cemento, un forte odore di muffa e di stantio impestava l’aria, trappole per topi erano disseminate agli angoli delle pareti. Dinnanzi a lui non si apriva più un pianerottolo ma una serie di corridoi e porte di metallo, non si sa come era giunto nelle cantine. Bloccandosi di colpo stupefatto pensò a come avesse potuto non vedere di aver passato il piano terra. Improvvisamente le luci si spensero avvolgendolo nelle tenebre. Di fronte a lui poteva intravvedere la porta di una cantina segnata col numero 4. 

Il quattro è un numero particolare per alcune culture, quelle orientali in particolare. Non è un caso che negli ascensori di alcuni palazzi cinesi e giapponesi nella tabella dei pulsanti non vi sia il numero quattro, o che si racconta in alcuni palazzi il quarto piano sia abbandonato e sia impossibile accedervi. Non è neanche un caso che in giapponese il numero quattro abbia due pronunce e che sia di uso corrente usare solo una di esse. Il numero quattro infatti è difatti considerato il numero della morte o un numero sfortunato. 

Con un fragoroso rumore metallico il catenaccio di ferro battuto che chiudeva la porta della cantina n°4 si aprì e la porta di colpo si spalancò. Trattenersi dal gridare, per lui, fu impossibile. Sbiancò di colpo per la seconda volta, ad una tale velocità che tutto il sangue del suo corpo sembrava essere stato aspirato con un’idrovora. Le sue grida disumane di puro terrore risuonavano nei locali vuoti dello scantinato e del palazzo intero, la solitudine l’avvolgeva, senza scampo. Con quel poco di controllo sui suoi movimenti che gli rimanevano, indietreggiava strisciando al suolo lentamente finché non fu contro alla rampa di scale dalla quale era appena sceso. Nel buio della cantina intravedeva la creatura incontrata prima, i suoi occhi rossi lo fissavano, prima lentamente e poi aumentando la velocità essa si avvicinava inesorabilmente a lui che impietrito non poteva più muoversi, ma le sue grida, ormai ridotte ad un flebile sussurro, continuavano a risuonare nell’aria. Per l’ultima volta nelle sue orecchie risuonò quel lamento gutturale.

Mugen Kaidan. Giardini senza fine

蓮蘭 本堂 Nichiran (Orchidea-Sole)