Ninetta

Piccoli come due pulci i suoi occhietti neri continuavano a puntare quello stretto viale costeggiato di siepi senza foglie e rami secchi senza vita ...

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Ninetta stava lì, seduta su quella gelida panchina di pietra, con il suo magone dentro che dava adito a tutti i suoi fantasmi.

I soffi violenti del vento, sembrava, volessero sradicare gli alberi e il suo cuore. Ai suoi lati si ergevano alberi di fico, nespole, caki e davanti a lei si stagliavano pini enormi. Quelle ombre giganterrime, in eterno movimento, oscillavano alla stregua di enormi pendoli aumentando la sua inquietudine. Con le mani sotto le sue minute cosce di bambina dondolava le sue esili gambe, mostrando alternativamente una scarpa sana e una bucata. Con quelle maledette ombre faceva i conti ogni benedetta sera, quando alle 19:00 aspettava che sua madre venisse a prenderla da quell’istituto di suore. Un casermone, dove si respirava il grigiume della mancanza della mamma, e la severità di quelle donne votate a Dio ma per niente ai bambini.

Piccoli come due pulci i suoi occhietti neri continuavano a puntare quello stretto viale costeggiato di siepi senza foglie e rami secchi senza vita, in attesa di veder spuntare quella gonna lunga di panno nera e quella testa brizzolata di capelli raccolti in uno chignon d’altri tempi.

Sua madre era una donna tutta d’un pezzo e di una serietà che si portava dietro come un distintivo, una medaglia al petto o forse era uno scudo per dare autorità al suo ruolo di vedova. Il suo volto a quarant’anni era lo stesso a quello di vent’anni. Gli stessi capelli raccolti, lo stesso sguardo greve, la stessa freddezza. Forse il motivo della vedovanza era solo una scusa, in fondo era stata sempre così, poco avezza ai sorrisi e alla leggerezza.

Ninetta pur tenendo i suoi lucidi occhietti appiccicati sul quel viale sdrucciolato, quasi li avesse tolto dal suo visino sfilato e poggiati lì, su quel muretto, come due obiettivi che avrebbero catturato e fotografato la prima sagoma di sua madre, non riusciva a captare ancora nulla.

Era sempre seduta nella stessa posizione di prima e senza più occhi in volto incominciò a osservare con quelli del cuore. Immaginava come sarebbe stata la sua vita se anche lei avesse avuto un padre. Forse non avrebbe mai dovuto combattere con quella asfissiante angoscia che gli incutevano, quotidianamente, quelle figure mostruose. Quel casermone grigio, forse, non l’avrebbe mai conosciuto e le scarpe sarebbero entrambe nuove e magari più comode.

Se avesse avuto un padre non avrebbe perso i sensi per la strada come spesso succedeva, quando per mangiare due fili di pasta incollata doveva aspettare che sua mamma rientrasse la sera con il pacchetto degli avanzi della famiglia benestante dove quella lavorava come cameriera. Se avesse avuto un padre non sarebbe stata oggetto di scherno di molti bambini e anche adulti. Nessuno le aveva mai detto che era bella. Aveva fondato la sua vita su quella orribile frase uscita, un giorno, dalla bocca di una vecchia con la faccia a pesce palla. Parole rovesciatele addosso come acqua bollente che le sfigurarono il volto e il futuro. “Chi è questa bambina così brutta e con il naso così lungo?” Aveva vomitato la vecchia…

Mai nessuno a farle un complimento…Forse suo padre glielo avrebbe detto che era la bambina più bella del mondo e che nessuno doveva permettersi di contrariarlo. Se suo padre fosse stato lì con lei, seduto su quella panchina, forse non gli avrebbero fatto così impressione quei pini oscillanti che, dopotutto, possedevano la robustezza di un padre. Ma lei il padre non ce l’aveva. Lo aveva perso quando aveva solo due anni. E l’unico ricordo sbiadito che serbava di lui era quello di un braccio forte e vigoroso che la spingeva per raccogliere una pera da un albero. Del resto non ricordava più nulla.

Fu destata da questo tenero ricordo dalla stridula voce di sua madre: “Ninna, ammuninni n’ casa!”

I suoi occhi che, poco prima, aveva lasciato sul muretto scorticato gli ritornarono in volto e con essi apparve anche un timido sorriso. Ma lei, sua madre, era fredda e seria come la morte.

Ninetta strinse la sua mano callosa e fece una pernacchia a quell’ ammasso di foglie e malleabili rami che ci provavano ogni sera a farla piangere, e con il profumo e la serietà di sua madre scomparvero dietro il muretto.

In lontanza solo l’eco di poche parole sbiascicate:

“Ninna, hai fame? Ti ho portato la pasta!”

“Sì ma’, appena arriviamo a casa la mangio”.

Ma Ninetta sapeva bene che una volta giunta a casa si sarebbe beatamente addormentata sulle gambe di sua madre senza finire la frugale cena.

Il sapore più bello lo tenevano i baci di sua madre, solo quello le bastava per campare!

Santi Sfragano