Eccomi qua, sono un’Assistente Sociale giunta in prossimità della pensione e voglio raccontarvi un po’ di me, del mio lavoro e del mio viverlo nella pienezza di un ‘dare’ che non ha mai preteso di ‘riavere’ in cambio qualcosa, se non la soddisfazione dei buoni risultati e l’orgoglio di averli raggiunti.

Nel lontano 1972 mi diplomai come Insegnante Elementare al vecchio Istituto Magistrale.

Ero molto brava; ne sapevo di latino e matematica, fisica e scienze, psicologia e filosofia.

Quando fu il momento di scegliere la strada per il mio futuro seguii il consiglio di mio cognato, Psichiatra di una Struttura Manicomiale della nostra Provincia.

Erano gli anni in cui la Legge Basaglia stava preparando il terreno per la chiusura dei Manicomi tra l’entusiasmo di molti, la rassegnazione di alcuni e la contestazione di altri.

Mi ritrovai dunque a frequentare la Scuola per Assistenti Sociali, con specializzazione triennale.

La laurea nacque solo nel 2001 a Trieste, presso la Facoltà di Scienze della Formazione, ed io la conseguii.

Avevo al tempo 47 anni, ricordo che lavoravo in Ospedale di giorno e studiavo e viaggiavo di notte, percorrendo con il treno un tragitto di circa 300 chilometri.

Lo sforzo che dovetti compiere fu immane.

Ricordo la fatica di rimettermi sopra i libri, dare gli esami scritti ed orali, eseguire i tests, prendere gli appunti, registrare la mia voce che narrava il sunto di tomi da 400/500 pagine.

Fui però ampiamente ripagata poichè la preparazione, della quale non ero sicuramente carente sino a quel momento, si arricchì di nuovi contenuti e conoscenze dettagliate sulle problematiche emergenti di una modernità sempre più complessa, che da lì a pochi anni sarei andata ad affrontare.

Primo fra tutti il fenomeno dell’immigrazione.

Da quell’osservatorio privilegiato che è il Servizio Sociale sempre attento i bisogni, alle richieste di aiuto e sostegno provenienti da ogni lato, con implicazioni più o meno gravi delle capacità degli utenti di far fronte alle problematiche, come ero abituata a vedere da qualche decennio, mi accingevo così a compiere l’ultimo tratto del percorso lavorativo che trascorsi ben 40 anni oggi mi porta ad un passo dalla pensione.

Ed è sempre stupore, incanto, meraviglia constatare che questo pullulare di persone in difficoltà mi ruota intorno come una galassia piena di stelle; alcune si accendono, altre si spengono, nascono nuovi mondi…ed il florilegio della vita continua.

Mi scopro a fare un bilancio di ciò che è stata la mia esistenza sotto il segno di questa professione: una miriade di problemi, tanta fatica, innumerevoli sforzi e qualche delusione.

La motivazione però non mi è mai mancata, mi alzo ancor oggi contenta e preparatissima a ciò che dovrò affrontare, piena di entusiasmo e sempre curiosa, disponibile verso chi e cosa mi troverò di fronte, chiunque esso/a sia.

Si è fortunati quando ciò avviene perché è difficile che arrivi lo scoramento, o che ci si ammali di burn-out; tutto viene accolto come un gradito ‘dovere’ ed a volte mi viene anche un po’ da sorridere.

Nei mesi di ottobre-novembre ci puoi giurare che la U.O di Ortopedia si riempia di allegri vecchietti con le ossa rotte perché caduti dopo essersi arrampicati sugli alberi nello sforzo di cogliere le olive.

Lo fanno come fossero giovinetti, convinti di essere ancora arzilli e prestanti, del tutto ignari del rischio cui vanno incontro, quando oramai gli anni passano ed il corpo non è più in grado di soddisfare le loro aspettative.

Sono anni ed anni che tutto questo si ripete in maniera matematica.

A volte mi è persino venuto in mente che ci vorrebbe un ‘Educatore Agricolo’ dedicato a questo problema, qualcuno che vada in giro a ‘predicare le buone norme’ di prevenzione degli infortuni sul ‘campo’.

Da me capita un po’ di tutto, e non è la prima volta che un soggetto depresso in cura con gli psicofarmaci, si accorga all’improvviso che il suo stato è tale anche perché come prima privazione si è tolto il caffè del mattino.

Confesso che mi è accaduto spesso di offrirgliene io, assistendo dopo una lunga chiacchierata ed il necessario approfondimento ad un passaggio dallo stato puramente depresso ad un sentimento di completa ‘nonchalance’ ovvero sia ‘tutto sommato c’è di peggio, ma chi me lo fa fare di stare male?’.

Per non parlare della figura del ‘picchiatore duro’, da me sopranominato anche adoratore fondamentalista delle percosse agite in ambito familiare, perché tanto moglie e figli sono un suo possesso e può farne ciò che vuole.

E’ la violenza come ideologia, il sopruso come legge, l’ignoranza dei sentimenti e il rifiuto al ragionamento.

Ne provo gran pena quando ciò accade a scapito di una moglie incinta, oppure di una ragazzina di appena 13 anni che indossa la maglietta ‘sbagliata’ che scopre l’ombelico.

La trovi in Pediatria perché il padre l’ha presa a calci e pugni, magari le ha spento la cicca di una sigaretta all’interno del braccio.

Dove vuoi che una ragazzina trovi una maglietta di questi tempi che non sia una XS?

La moda è diventata ‘infinitesimale’: taglie ridotte, lembi di stoffa sempre più piccoli, voglio dire non è colpa loro… è un dato di fatto del quale bisogna prendere atto.

Ancora stupore e mancata rassegnazione mi colgono quando la mamma ‘disconosce’ il figlio neonato, casi molto rari per fortuna.

Sono situazioni in cui c’è tanto da lavorare e nelle quali percepisci tutto il valore ed il potere che ha la professione che svolgi.

La guardi negli occhi e ti accorgi che sono fissi e spenti, ascolti le motivazioni e dentro di te inorridisci per l’apparente inflessibilità della voce, la lentezza dei gesti, la determinazione apparente, nascosta dietro una malcelata ostinazione.

Avochi a te tutte le forze e capisci quanto importante sia coniugare il ‘sapere’, il ‘saper fare’ ed il ‘saper essere’.

Sono questi infatti, unitamente al senso di ‘empatia’, i pilastri della nostra formazione, ma quanto a quest’ultima vedo che sta diventando sempre meno di ‘moda’.

Sento parlare molto diffusamente di un pericoloso ‘distacco’ dall’utente, di colleghi/e che staccano il telefono perché stanno svolgendo un colloquio, di clienti costretti a viaggi di andata e ritorno nella ricerca affannosa dell’Operatore/trice disponibile e capisco che forse, senza accorgermene, sono passata di moda anch’io…

Provo un senso di forte ribellione, perché non sono queste le cose che mi hanno insegnato sia l’esperienza che gli studi.

Se svolgo un colloquio mi sembra naturale rispondere al telefono e dire: ‘Per cortesia mi lasci il suo numero, la richiamo appena possibile; ora sono occupata con un’altra persona e non potrei fornirle l’aiuto di cui ha bisogno”.

Cosa sarà mai poi questo ‘distacco dall’utente’? Ho quasi l’impressione che venga scambiato per una sorta di ‘untore’ che rischia di contagiarci!

Suona così arido e squallido, pone una barriera tra l’Operatore e la persona e più si allungano le distanze più si percepisce che la sensibilità ne risulta affievolita, a discapito del soggetto che necessita di vicinanza e solidarietà, immerso com’è in un mare di problemi che non sono la risultanza di una mera somma algebrica, ma l’intersecarsi di diversi fattori di svantaggio sociale, culturale, economico, fisico e psicologico.

Resta il fatto, a mio parere, che l’empatia consente comunque di osservare con oggettività i fatti, le persone e le situazioni e non è affatto implicito che il suo utilizzo faccia necessariamente perdere la lucidità nelle fasi di programmazione, attuazione e verifica dell’intervento.

Ci sono voluti degli anni, lunghissimi anni perché io arrivassi ad avere queste certezze, ed inoltre tanta esperienza sulle spalle, un solido bagaglio di nozioni, formazione, aggiornamento, uniti ad un pizzico di fantasia e creatività.

Ci ho messo molto del ‘mio’ ed oggi vivo serenamente.

Seppur consapevole che tutti siamo utili e nessuno indispensabile sono cosciente di quanto ho dedicato della mia vita a questo lavoro.

La mia domanda a volte è: “Come farò al mattino quando, alzandomi sicuramente ancora presto (tanta sarà l’abitudine), non dovrò recarmi in ufficio?

Me lo chiedo spesso e mi rispondo che se sarà di lunedì mi mancheranno le segnalazioni dell’Ortopedia e della Chirurgia, perché è un ‘classico’ che dopo il fine settimana qualcuno si è ubriacato, ha avuto un incidente con la macchina, ha fatto a botte per una rissa o a coltellate.

Non da meno sarà per gli altri giorni; nessuno mi domanderà più un ‘tetto’ per lo straniero senza permesso di soggiorno, senza assistenza medica, senza fissa dimora, caduto/incidentato nei pressi di una stazione ferroviaria o dei giardini pubblici dove dormiva.

E tutto questo in estate, poiché d’inverno la cosa si complica assai in quanto le Strutture di Accoglienza sono strapiene.

Si trascorre un’intera mattinata nella ricerca affannosa di un posto letto rischiando di chiamare tutta la Regione e anche fuori.

Nel frattempo ti cercano i vari Reparti, (Pronto Soccorso per primo) e devi ‘tamponare’, rispondere, esaudire, pianificare, coordinare la rete, ricercare i parenti, ecc…

Di tutto di più.

Conclusione della fiera: tutte le mattine andrò in piscina!

Mi vedo sguazzare tra azzurre acque in su e in giù per la corsia di nuoto, con un corpo finalmente non costretto a quelle lunghe sedute dietro la scrivania che mi hanno quasi rovinato le ginocchia.

Per non parlare del computer cui debbo, infinitamente riconoscente, inchinarmi altrimenti non so cosa avrei fatto, ma al quale addosso tutta la responsabilità dell’intervento chirurgico al gomito, nonché della mancata sensibilità a due dita della mano destra.

Alla fine di ogni epoca saliente della propria esistenza si è soliti fare un bilancio e si usa porre questa domanda: “Cosa lasci e cosa invece porti via con te?”

Sicuramente lascio i problemi perché sento di avere già ‘dato’.

Non vi è stata situazione in cui non mi sia spesa fino in fondo, spremuta le meningi per trovare soluzioni, o abbia utilizzato le energie girando come la bobina del registratore sino ad esaurimento pile…

Porto invece con me un aspetto che farebbe sorridere se non fosse tragico:

IL MORTO IN CELLA FRIGORIFERA

Dovete sapere che ogni estate puntualmente ( e sinceramente ancora mi chiedo il perché) si verifica il caso del decesso di un soggetto cui nessuno vuole fare il funerale.

Le ragioni sono diverse, ma le più ricorrenti si basano su un comportamento della persona in vita piuttosto sregolato, che ha lasciato l’amaro in bocca ai suoi familiari.

Persone dedite all’alcool, violente, che magari si sono indebitate sino al collo, dure di cuore, sorde agli affetti.

Purtroppo per loro nessuna pietà neanche nel momento della dipartita, viene cancellata ogni dignità, non resta alcuna forma di rispetto.

Il Comune da parte sua, quando non è in lite coi parenti, rifiuta di accollarsi le spese della tumulazione e nasce una diatriba feroce, i tempi si allungano, il cadavere deve essere collocato in cella frigorifera ove rimane fintanto che tutti si mettano d’accordo.

Il problema è che i posti sono solo 4 e se vengono tutti occupati, essendo necessari anche per le autopsie, rischiamo di non avere più celle disponibili in concomitanza con una stagione dal caldo opprimente.

Convoca i parenti, contatta il Comune, invia mail e lettere raccomandate, fai cento telefonate a destra e sinistra e tutto di fretta perché c’è poco tempo.

Ascolta le male risposte di ognuno, le avvelenate ragioni, lascia che ti mandino a ‘quel paese’ tranquillamente perché hanno bisogno di sfogarsi …insomma è dura!

Come non lasciare dunque la mia amatissima e stimata Dirigente se non assicurandole che, anche dopo la pensione, se si troverà in difficoltà potrà chiamarmi i ogni momento e contare sul mio aiuto?

E’ d’obbligo!

Provo troppa compassione, perché se poi le cose vanno male il defunto si trova sepolto in una fossa comune e nessuno potrà portare neanche un fiore sulla sua tomba.

Ebbene si, questo ho deciso di ‘portarlo con me’, nella speranza che sia una sorta di ‘scongiuro’.

Penso spesso, invece, di scrivere un romanzo di questa mia vita; quante storie, quante vicissitudini, mi è capitato anche di subire delle minacce, degli insulti e degli affronti.

In realtà nel mio piccolo credo di aver fatto abbastanza.

Ho scritto un testo di preparazione agli esami di Stato per l’Abilitazione all’esercizio della professione di Assistente Sociale post-laurea specialistica.

E’ andato a ruba, ed in cuor mio cullo l’idea che tanti/e futuri/e colleghi/e se ne avvantaggeranno trovandolo un utile manuale da adottare.

Se li incontrerò ci faremo anche delle sane risate e questo farà sicuramente bene.

Lo dico sempre che ‘l’ironia salva il mondo!’.

Con l’ironia ci si aiuta e ci si salva anche nei momenti più difficili, come quello della provocazione, dell’offesa, della delusione e dello scoraggiamento.

Quando qualcuno vuole tarparti le ali, mozzarti il fiato, ferirti l’anima non devi cedere all’istinto di rendere ‘pan per focaccia’ ma essere massimamente ‘cedevole’.

E’ questa la tua forza, lasciare che le cose accadano.

Non opporti indirizzando le tue energie per andare contro corrente, lo fanno i salmoni e finiscono per essere facile preda degli orsi.

Infine, per quanto mi riguarda, spero di trovarmi a godere un meritato riposo, vedermi un film sul grande schermo, godermi uno spettacolo al Teatro e fare tardi la sera, perché non ci sarà più un cartellino da timbrare e tanta, tantissima gente mi saluterà, come se mi conoscesse da sempre…


Il fiume scorre lento e i salmoni non saltano – Marinella Cimarelli