I RACCONTI DI EDGARD

di Marinella Cimarelli

CAPITOLO I°

AI PIEDI DEL MONTE CIMONE

Osservava la vetta innevata del Monte Cimone e respirava aria pura a pieni polmoni.

L’abetaia, vecchia di secoli, sfoggiava le fronde verdi e si chinava alle sferzate di vento che impietoso soffiava dal versante di nord-ovest.

Edgard era nuovo a tutto questo e non poteva credere ancora di essere lì, lontano da tutto e da tutti, a più di 200 chilometri da casa sua.

A volte si allontanava dalla Villa per uscire dai cancelli e fumarsi in pace la sua sigaretta, i due cani da guardia lo seguivano nella speranza di ottenere qualche tozzo di pane…

L’Appennino Tosco-Emiliano era tutto soleggiato sulle sommità, mentre in ombra restavano i boschi e le fiancate dei monti.

Intorno regnava il silenzio caratteristico delle montagne.

I raggi del sole erano cocenti, Edgard pensò di salire sulle terrazze, al quarto piano, da dove la vista dei monti era splendida.

Le terrazze erano ampie, ed oltre alle comuni sedie di plastica da giardino vi erano alcune sdraio di ferro pesantissime.

Edgard pensò che risalissero al tempo in cui ivi sorgeva un vecchio Sanatorio per malati di TBC.

Egli si sdraiò al sole ma stava scomodo, il ferro durissimo si componeva di tanti quadrati ed occorreva avere sotto qualcosa di morbido.

Andò in camera e prese la prima cosa che gli capitò a tiro, il suo accappatoio, lo appoggiò e vi si adagiò sopra soddisfatto.

Ecco, ora era tutto perfetto tranne un pensiero, quante persone prima di lui si erano sdraiate lì, in quella posizione di fronte ai monti, per lasciarsi accarezzare la pelle dal sole …

Gli vennero in mente le storie più strane, quante vite malate, quanti guariti, quanti che si curavano con pazienza come stava facendo lui, non si sarebbe potuto contarli.

Il sole diventava insopportabile poiché erano le due del pomeriggio e, seppure si fosse nei primi giorni di aprile, comunque era caldo.

Quell’inverno stava trascorrendo senza lasciare traccia di neve né di aria gelida, com’era solitamente da quelle parti, il tempo tutto sommato era stato clemente.

Si alzò, si affacciò dalla balaustra della terrazza, lo spettacolo davanti ai suoi occhi era impressionante, l’altezza notevole, e si notavano omini e donnine piccoli piccoli in tuta da ginnastica camminare ad andatura sostenuta lungo il percorso che conduce dalla Villa al boschetto.

Pensò che poteva raggiungerli percorrendo la scala di ferro esterna ma una scritta a caratteri cubitali interdiva il passaggio dicendo che si sarebbe dovuta percorrere solo in caso di incendio.

Si accese la terza sigaretta ed osservò la sagoma del Castello di Montecuccolo con le sue torri merlate, svettanti verso il cielo limpido.

Tutto sommato, pensò di essere un uomo fortunato.

CAPITOLO II°

L’INCONTRO CON SOPHIE

La sera iniziò a spirare un vento freddo che arrivava alle ossa, era ora di ritirarsi.

In camera avevano già servito la merenda, Edgard gradiva solo del thè con due biscotti e si mise a sorseggiare con piacere quella bevanda calda.

Avrebbe voluto approfondire la conoscenza della sua dirimpettaia di stanza, la bionda Sophie, rivestita di un alone di mistero sin dal giorno in cui si era presentata alla Casa di Cura.

Non era semplice per lui, poco abituato ad attaccare discorso con gli estranei, ma il destino gli andò incontro, ecco che la bella Sophie, sbucando da dietro l’angolo del corridoio, gli andò a sbattere contro.

Mai uno ‘scontro’ fu piacevole per Edgard quanto quello!

Improvvisamente gli si parò davanti la più bella bocca che avesse mai visto, color rosso ciliegia, con una scoperta di denti bianchissimi da fare invidia a tutte le donne della sua età.

Già l’età…chissà quanti anni avrà avuto, si chiese Edgard.

Sophie, dopo avergli chiesto garbatamente scusa, scoppiò in una fragorosa risata e gli domandò:”Ti ho fatto male?”.

Lui le rispose sorridendo di no, in realtà aveva ancora la sensazione di un pugno piantato in mezzo allo stomaco ma non voleva darlo a capire, pensò che sarebbe stato un gesto maleducato verso una rappresentante del gentil sesso.

Ci volle poco perchè Edgard intuisse che la sua amica aveva voglia di parlare e si sarebbe trattenuta volentieri a discorrere con lui.

Si sedettero alle poltrone dell’ampia Sala Ospiti.

Quando si accorsero che la distanza fra loro era scarsa per non provare una certa intimità, si misero curiosamente entrambi con le braccia conserte come a ricomporsi, e si diedero un tono da ‘discussione’ seria ed impegnata.

“Che lavoro fai?” le chiese Edgard, lei rispose che era una Psicologa.

“Dev’essere un lavoro impegnativo” ribadì Edgard, “ma ho sempre pensato affascinante”.

“Si, ‘disse Sophie, ‘a me piace, seppure a volte non ti nascondo che mi affatica molto”.

Da quando Sophie gli aveva confessato quale fosse la sua professione ad Edgard iniziarono a frullare in testa mille pensieri.

Primo fra tutti avrebbe approfittato sicuramente per chiederle che significato avesse l’essersi perso in tante storie nella sua vita, tante da averne perso il conto.

In realtà egli sapeva bene che il conto l’aveva perso perché per lui quelle storie erano state quasi tutte insignificanti, di scarso valore, sebbene in esse ci avesse rimesso a volte persino la salute e l’equilibrio mentale.

Sophie gli suggerì che per quanto egli ritenesse insignificanti le sue storie, forse un motivo profondo era comunque alla base di quelle ‘scelte’ … ma quando lei aveva pronunciato quella parola Edgard era saltato sulla poltrona scattando come una molla: “Scelte la mie? Ma dove, ma quando? Io non ho mai scelto nulla, sono state loro a volermi, le donne che mi hanno sempre ‘preso’ ed io mi sono limitato il più delle volte ad accontentarle!”

Sophie guardò Edgard con occhi curiosi, non era difficile ritrovare sul suo volto una trascorsa bellezza del ragazzo con i capelli biondi e riccioluti che era stato a trent’anni.

“Chissà quante ne avrà conquistate’ pensò Sophie ‘ eppure lui si sentiva una vittima.

Sophie intuì a quel punto che Edgard l’avrebbe compresa, e non si trattenne: “Mio caro, non sai quanto la mia vita somigli alla tua, spesso scelta da altri per il loro piacere, non ho avuto il tempo di soffermarmi a pensare se la storia fosse più o meno giusta, l’ho subita ed anche se oggi mi pento so bene che questo sentimento oramai non serve più a niente.

La mia vita se n’è bella che andata, oggi ho 60 anni compiuti ed ho solo una certezza, nessuno farà più di me ciò che io non voglio, non permetterò più a nessuno di farmi del male.”

“Brava Sophie” intercalò Edgard, “è così che si ragiona, ed anche per quanto mi riguarda vale la stessa regola, voglio vivere pienamente questa vita che mi rimane da vivere e voglio godermela in pace …”

“Ah …la pace…si, la pace …ecco, ora hai detto la parola giusta!” rincalzò Sophie.

Rimasero così in silenzio per alcuni lunghissimi minuti, per nulla imbarazzati dal clima di confidenzialità che si era creato tra loro in così poco tempo…

Poi Edgard si alzò e disse a Sophie: “C’è un bellissimo tramonto, vieni a vederlo con me?”

Sophie si voltò a guardare oltre la finestra, un orizzonte ricco di striature rosa-viola faceva impazzire il cielo … gli uccelli tornavano ai loro nidi nei rami più alti degli alberi, ed il vento si era finalmente quietato.

Vicini osservarono quello spettacolo e, seppure nell’arco delle loro vite avevano assistito a migliaia di tramonti, avrebbero giurato entrambi che mai una scena così era apparsa davanti ai loro occhi prima di quella magica sera di aprile.

CAPITOLO III°

L’INCONTRO CON IL PROFESSORE

La notte fu disturbata, il mattino dopo Edgard si svegliò di soprassalto mentre l’infermiera si introduceva in camera per somministrargli la terapia.

Fece colazione al suo tavolino ma ci stava stretto, non era abituato a quelle dimensioni, poiché a casa sua tutto era molto più ampio.

Seguì una doccia calda, si asciugò bene e con indosso il suo accappatoio bleu andò alla terrazza per scrutare il tempo che si profilava bellissimo.

Una giornata chiara e limpida, il cielo azzurro ed il primo sole che già alle sette e trenta del mattino riscaldava l’aria.

Appena svoltato l’angolo s’imbattè nel professor Jacob, una delle figure più caratteristiche di tutta la Villa.

Jacob non era uno spirito compagnone, rimaneva anzi un tipo piuttosto schivo, riservato, ma se iniziava a fare amicizia raccontava tutto di sé con piacere, perdendosi nei minimi i particolari.

Era particolarmente attento ad osservare gli altri e non risparmiava, quando ciò occorreva secondo lui, di emettere giudizi di merito su questo o quell’altro ospite della Casa di Cura o del personale.

Figlio di medici, terzo di sei fratelli, era cresciuto in mezzo ai libri ed alla cultura, e si avvertiva dal linguaggio che usava, che era in possesso di numerose conoscenze un po’ in tutti i campi.

Insegnante di Storia era anche un validissimo poeta e vantava numerosi premi e pubblicazioni.

Edgard non si fece sfuggire certo la sua amicizia, anzi, apprezzava molto che il Professore gli recitasse ogni tanto i suoi versi intrisi di sentimento e di passione.

Per la maggior parte erano poesie d’amore, emozioni vissute, sensazioni profonde, trattenute a lungo nel cuore per essere poi liberate in spirali di parole avviluppate come il fumo grigio delle numerose sigarette che Jacob amava gustarsi negli angoli più nascosti della Villa, laddove gli occhi indiscreti delle telecamere non potevano riprenderlo.

CAPITOLO IV°

MERY ED HELLEN

Il tempo trascorreva lento a Villa Pineta, sebbene la mattina fosse abbastanza movimentata.

Si iniziava con gli esercizi di cyclette, pedana, tapis roulant, per proseguire con il circuito e terminare con la camminata del pomeriggio.

Tutto ciò non richiedeva un grande sforzo ma gli ospiti non erano molto abituati a muoversi, perciò ogni tanto si udiva un respiro di affanno provenire da qualche parte, uno sbuffo simile ad un lontano, flebile lamento.

Poi, intorno alle sedici e trenta circa improvvisamente tutto si fermava, e gli ospiti si disperdevano per il parco.

Alcuni desideravano continuare a camminare, ma la maggioranza di loro preferiva sedere sotto al pergolato a prendere l’ultimo sole del versante sud.

Quella era l’ora in cui Hellen, la più giovane delle ospiti, appena trentatre anni, usciva dalla camera per andare alla terrazza e spandere il suo bucato fresco, dal buon profumo di ammorbidente all’odore di muschio.

Hellen aveva un viso grazioso e l’espressione dolcissima, un nasino ed una bocca segnati da tratti ancora infantili, ed era un tipo giocoso.

Aveva fatto subito amicizia con la sua compagna di camera Mery, con la quale ogni tanto si scambiavano simpatiche battute di scherno d’impronta decisamente goliardica.

Mery era arrivata appena da una settimana, aveva sessantuno anni, era una tipa curiosa, bionda e bella in carne, sembrava voler prendere ogni cosa alla leggera e spesso era Hellen a doverle ricordare di prendere la compressa di ferro, oppure redarguirla bonariamente se andava in giro in vestaglia trasparente per i corridoi della Clinica, davanti agli sguardi curiosi degli ospiti.

Mery non ci faceva caso, lei era fatta così, uno spirito libero, una scrittrice, un personaggio estroverso, dotato di quel pizzico di follia che caratterizza spesso gli artisti.

Ogni fine settimana qualche ospite tornava a casa poichè aveva completato il suo ciclo di cura e qualcun altro arrivava prendendone il posto.

Edgard si trovava bene in mezzo a loro, si sentiva in compagnia, mentre a casa sua era completamente solo.

Una sera sentì provenire dal quarto piano l’eco di una voce angelica, incuriosito salì a vedere ed assistette ad uno dei più bei spettacoli lirici della sua esistenza.

Scoprì che un ospite, di nome Charlotte, aveva una magnifica voce da soprano mentre intorno si era creato un gruppo di fans che alla fine di ogni sua canzone applaudiva fragorosamente.

Ma era tardi, saranno state circa le ventuno e trenta ed il Medico di guardia della notte intimò a tutti di fare silenzio.

Pazienza si dissero gli ospiti, e si trasferirono tutti all’ampio salone sito al piano terreno per continuare lo spettacolo.

Dopo circa un’ora iniziarono gli sbadigli che, come ben si sa, sono contagiosi.

Fu così che decisero tutti di ritirarsi nelle loro camere non senza rimpianto, certi che sarebbero seguite serate altrettanto belle ed incantevoli.

Hellen, con indosso la sua vestaglia di raso rosso, andò a letto pensando che quella color viola ciclamino di Mery le sarebbe stata molto meglio, perché adorava quel colore…. e sperò in cuor suo che ella mantenesse la promessa di regalargliela alla fine del periodo di ricovero.

Mery poteva giusto tollerare di avere addosso una canotta e le sue mutandine di pizzo, era una tipa calorosa.

Edgard, che aveva sempre freddo, si fece portare un’altra coperta.

Gli altri? Bèh, ancora non si poteva sapere, non si erano conosciuti a fondo e non vi era stato modo di tenere ‘convegno’ gli uni nelle camere degli altri fino a tarda notte per ridere e scherzare come finisce sempre in queste circostanze.

La notte si profilava quieta e la luna, pallido quarto di falce, spuntava da est.

CAPITOLO V°

LEZIONE DI PSICOLOGIA

Anche la giornata di giovedì era passata, stavano tutti aspettando la cena nel grande salone.

Gruppi di persone giocavano a carte: briscola, burraco, ramino e poker …e ci mettevano così tanta passione neanche ci fosse stato alla fine un qualche premio da vincere.

Nei posti davanti alcuni seguivano la televisione, se non altro, lontani da casa tutto quel tempo, non sarebbero rimasti disinformati su come stavano andando le cose nel mondo.

In molti concordarono che la lezione del pomeriggio sulle emozioni era stata davvero interessantissima.

Ogni volta imparavano qualcosa di più sul loro vissuto interiore, sulle loro reazioni, sui loro sentimenti e atteggiamenti, soprattutto nei confronti del cibo e dello stress.

La Psicologa, una giovane e bella donna, scura di pelle che sembrava sempre abbronzata, si muoveva avanti e indietro al di qua della cattedra, di fronte ai suoi interlocutori stimolandone la partecipazione.

Parlavano tutti, nessuno escluso, dato che per essere arrivati fino a Villa Pineta erano sufficientemente motivati.

La Psicologa aveva mostrato agli astanti questo collegamento: EVENTO-INTERPRETAZIONE DELL’EVENTO-EMOZIONI ed aveva chiesto a tutti di svolgere questo compito.

Riflettere su un proprio accadimento, piacevole o spiacevole che fosse stato e trovare dapprima la sua interpretazione per passare poi a comprendere quali emozioni aveva scatenato in ognuno.

Il pensiero di Mery andò subito alla mattinata del lunedì precedente, quando la dietologa le aveva dato la bellissima notizia che era dimagrita due chili e duecento.

Lei era consapevole che i primi che si perdono sono solo liquidi, per questo è facile sbarazzarsene.

Per i grassi la questione diventa più complessa, ma era felice egualmente, al settimo cielo, gasata, esaltata, pimpante…

Certo l’avrebbe raccontato alla sua Psicologa Alexa, non vedeva l’ora!

Le avrebbe descritto quali sentimenti l’avevano pervasa dopo aver percepito ed interpretato il fatto in maniera quasi confusa, tanto non le era sembrato vero.

Si domandava: “Ma davvero è successo a me? Cioè ho perso due chili in una settimana? Non è possibile…ditemi che è vero…pizzicatemi un braccio, ancora non ci credo!”

Era poi sopraggiunta la valanga di emozioni, un tremolio per tutto il corpo, delle vibrazioni difficili da tenere a freno, una gioia pervadente l’intero corpo e fuoriuscente da tutti i pori della pelle.

Balbettava fra se e se, non trovava parole adeguate da dire, parlava addirittura da sola, in quell’istante adorò il sole che le stava quasi bruciando il volto e l’aria….si…quell’aria dolce e appena pungente di montagna.

Una mattina Mery, durante il circuito, si era sentita poco bene, per un istante aveva percepito una gran luce dalla finestra di fronte agli attrezzi e non sapeva se dirlo o meno alla fisioterapista, ma soprassedette sapendo che era molto carente di ferro.

Finire gli esercizi le era sembrato stancante come non mai ed affrontò la camminata all’aperto con molto coraggio perchè stavolta vi avrebbe rinunciato volentieri, preferendo il letto.

Ma era lì per curarsi e non poteva, ‘non posso’, ‘non debbo’, ripeteva a sé stessa.

D’altronde appena iniziava a camminare su e giù per il viale antistante la Casa di Cura dimenticava la stanchezza, e godeva solo del bel panorama.

Di quel verde custodito con amore dagli addetti al giardino, degli alberi altissimi, del boschetto di fronte, e delle siepi tagliate come un labirinto con la massima precisione.

CAPITOLO VI°

INCUBI

Edgard si era svegliato presto la mattina del venerdì, la sera precedente si era coricato che saranno state le ventuno e trenta e si era subito addormentato.

Aveva messo indosso la sua vestaglia cercando di non fare rumore ed era sgusciato fuori dalla camera furtivamente, per non svegliare il suo compagno di camera.

Per prima cosa era andato in terrazza a fumare un paio di sigarette.

La mattina precedente era dovuto restare a digiuno e senza fumo sino alle nove per sottoporsi ad un esame molto delicato.

Finito di godersi le sue spirali di fumo biancastro, alla luce della luna di una notte stellata e chiara, si era recato subito al piano sottostante, dove agognava di gustarsi il primo caffè della giornata.

Le porte dell’ascensore avevano fatto un grande rumore e si augurò di non avere svegliato nessuno.

Di sotto, nel salone, lo aspettava il computer davanti al quale si sedette, sorseggiando il caffè bollente.

Adorava scrivere immerso in quel silenzio totale.

L’intera Villa dormiva sprofondata nel suo sonno e tanti sogni, ove più tranquilli, ove più agitati, balenavano davanti agli occhi degli ospiti a quell’ora, superata oramai la fase REM e più prossimi al risveglio.

Aveva lasciato il compagno di stanza in un sonno agitato, in preda ad apnee forti che gli impedivano di respirare a fondo.

Si era risciacquato il viso con dell’acqua fresca, ma sentiva gli occhi ancora socchiusi cercare un riposo che oramai non sarebbe più sopraggiunto.

Le sue sette ore però erano state più che sufficienti, e si sentiva scattante, pronto ad affrontare un nuovo mattino.

Aveva fatto un brutto sogno, in esso si trovava smarrito sulla strada del ritorno dopo essersi avventurato ad assistere ad uno spettacolo Teatrale curato dal D.S.M., il Dipartimento di Salute Mentale della sua città, e dopo aver oltrepassato il confine, in Croazia, passando da Trieste.

Che sogno curioso si era detto, e pieno di angoscia!

Nei suoi sogni sovente compariva il Dipartimento di Salute Mentale con i suoi Operatori, chissà perchè, forse ne era rimasto molto colpito per il lavoro che svolgeva quotidianamente a contatto con loro, diversamente non sapeva darsi altre spiegazioni.

Le cinque e cinquantadue minuti, il tempo passava e lui scriveva, scriveva …e le sue dita viaggiavano fluenti passando da un tasto all’altro con disinvoltura, perchè intenso è ciò che aveva da raccontare.

Pensò che ci sarebbe voluto un secondo caffè, si alzò, lasciando acceso il computer, certo che a quell’ora improbabile nessuno si sarebbe recato nel salone avvicinandosi allo strumento e toccando qualcosa.

E poi, chi avrebbe osato profanare quella postazione, divenuta quasi ‘sacra’ e dedicata esclusivamente a lui?

Caffè e sigaretta, abbinamento scontato per Edgard, che nel frattempo penso di tornare in terrazza a scrutare il tempo.

Iniziava ad albeggiare, trovò Sophie che, discinta nella sua mise da notte, fumava anche lei.

Una pioggerellina fitta e sottile scendeva dalle scarse nubi grigie sparse qui e là, provenienti dal Monte Cimone.

Tutto era tranquillo quando ad un tratto, si udì un grido lacerante provenire dall’altro lato del padiglione.

Si sparse subito la voce che una donna, in preda a crisi isterica, minacciava di gettarsi dalla terrazza.

Fu un accorrere di infermieri, medici e tutto il personale che intervenne prontamente per impedire alla signora di compiere l’insano gesto.

Tutti si chiesero il perchè, la paziente era apparsa una persona tranquilla, pacifica e per nulla preoccupata.

In realtà, sapendo di essere gravemente malata ai polmoni, si era convinta di avere un male incurabile.

Urlando si era gettata sul pavimento, aveva preso ad agitare braccia e gambe contorcendosi in spasmi che, a vedere la smorfia amara della bocca, dovevano essere dolorosissimi.

Venne immediatamente sedata con una buona dose di tranquillanti, iniettati in vena, ed Edgard si convinse che solo molte ore più tardi la signora avrebbe appreso che gli esami erano stati negativi, e nessun verdetto nefasto era stato emesso nei suoi confronti.

Fu una mattinata triste nella quale tutti parlarono di questo avvenimento: in palestra, al circuito, alla camminata, a pranzo ed a cena.

CAPITOLO VII°

BRUTTI SOGNI

Trascorsero alcuni giorni che furono grigi come il tempo, tra gli ospiti aleggiava un umore talmente basso che nessuno aveva più voglia di scherzare.

Poi lentamente tutto tornò ad essere come prima.

I vicini di camera il pomeriggio, dopo le attività, si chiudevano nelle loro stanze riunendosi in minigruppi e riprendevano a ridere e scherzare come sempre.

La Raffy addentò un tozzo di pane secco che teneva in borsa da chissà quanti giorni esclamando a gran voce quanto fosse buono, provocando uno scoppio di risa a non finire.

La Mary Antony con le sue battute esplosive sorprendeva sempre tutti e mostrava anche un grande cuore.

Alla cyclette dispensava a tutti i presenti un fazzolettino di carta inumidito con le gocce dell’olio ‘trentuno’, famosa essenza profumata, un misto di aromi di erbe e fragranze di bosco.

La bella signora Alby, ex infermiera, compiva gli anni quel giorno e volle offrire a tutti una consumazione al bar.

Così ci furono caffè, thè e tisane, ed altre poche cose che potevano essere consumate dai malati dismetabolici.

Il compleanno della Alby aveva creato di nuovo un’atmosfera di festa e tutto sembrava essere più leggero, più gradevole, lento e soffuso, disperso in quel clima rilassato., come quando erano giunti i primi ospiti.

Nonostante minacciasse una fitta pioggerellina il cammino si svolse all’aperto, con i due grossi cani della Villa che seguivano passo passo gli ospiti, mentre questi andavano avanti e indietro.

Silvy aveva pensato anche a loro ed aveva portato con sé delle scatole di carne che somministrava loro all’ora di merenda.

Edgard si avvicinò a Sophie e le chiese se si sentiva bene, le sembrava un po’ stanca, persino avvilita.

Sophie rispose che continuava a fare dei brutti sogni ed in particolare non riusciva a liberarsi di un incubo, quello di superare un difficile esame di Laurea Specialistica e non sapeva come fare per smettere di sognarlo quasi ogni notte.

Edgard sorrise e le disse: “Eppure sei una Psicologa, se non ci riesci tu siamo finiti…”

“Che vuol dire-ribadì Sophie-anche gli Psicologi hanno i loro incubi, sono dei comuni mortali, cosa credi?”

Edgard capì che era meglio non insistere e cambiò argomento:”Che abbiamo da pranzo oggi, ti ricordi?”

Sophie ci riflette’ un attimo poi ebbe un lampo negli occhi: “La pizza, si, proprio la pizza! Che bello, non mi sembra vero”.

In effetti a pranzo venne distribuita la pizza settimanale e tutti mangiarono con gran gusto e soddisfazione.

Mery adorava anche la polenta e viveva nell’attesa del giorno dedicato al suo consumo.

Il mangiare era diventato l’argomento centrale delle conversazioni di tutti, che mostravano il massimo interesse quando si assisteva alle lezioni di dietetica nutrizionale e di cucina.

Quando i relatori spiegavano non si udiva volare una mosca in tutto l’Auditorium, si respirava un clima di attenzione quasi si assistesse ad un rito religioso.

CAPITOLO VIII°

NON SI ESCE DA VILLA PINETA

Quella mattina di sabato si stava avvicinando l’ora del pranzo, ma il tempo scorreva lento e i minuti sembravano lunghi come ore.

Villa Pineta era quasi deserta, la maggior parte degli Operatori era in congedo per ferie, si era entrati in pieno nel ponte del XXV aprile.

Alcuni dicevano che sarebbero andati in gita al Monte Cimone, altri più lontano, scegliendo località di montagna, di mare o collina.

Gli ospiti quest’anno erano tutti privi del permesso di uscita, si vociferò che negli anni precedenti alcuni ricoverati per malattie dismetaboliche erano stati sorpresi a consumare lauti pasti nei ristoranti limitrofi.

Addirittura qualcuno riferì di gente che si era ubriacata e sentita male in piena notte fuori dalla Villa.

Erano stati costretti a soccorrerla con l’ambulanza e vista la lontananza dai parenti per la maggior parte di loro, la cosa era stata piuttosto impegnativa per il personale Sanitario, tanto da decidere la sospensione dei permessi persino sino alla località più prossima, che era Padullo sul Frignano.

Per le donne il sacrificio era maggiore, sapevano che nella mattinata di sabato al paesino di Pavullo c’era mercato.

Chissà quanta bella mercanzia avrebbero trovato, magari potevano acquistare qualcosa di particolare che non si trovava dalle loro parti.

Qualcuno pensò ad una fuga clandestina, ma desistette subito dall’intento di allontanarsi a piedi, poichè la strada all’andata era in discesa ed al ritorno si sarebbe dovuta affrontare una dura salita.

Decisamente scoraggiante come prospettiva per tutti quei pigroni obesi, abituati a non muoversi, e dediti ad un unico sport, che era quello di spiluccare biscotti e merendine, oppure arachidi e salatini davanti alla TV.

Questo fintanto che, ovviamente, non erano arrivati a prendere coscienza del loro stato di ‘abbandono’ e trascuratezza al punto di decidere di ricoverarsi a Villa Pineta per iniziare un serio percorso dimagrante.

Edgard guardò dalla finestra che dava sul pergolato e vide Hellen camminare avanti e indietro lungo il viale a passo spedito, e pensò subito che era una ragazza dal carattere forte, deciso, tenace.

A lui neanche sfiorò l’idea di muoversi, dato che la ginnastica del mattino era iniziata e finita con i suoi trenta minuti di cyclette.

Pensò invece di consumare il mandarino del giorno precedente, visto che in fondo gli spettava di diritto.

Lo mangiò adagio, succhiando spicchio a spicchio con lentezza e languore.

La fame stava arrivando ed erano ancora solo le undici e ventuno minuti.

Aspettava desideroso il mezzogiorno ed osservava se al cellulare gli erano arrivati messaggini di sorta, ma niente, nessuna comunicazione, nessuna chiamata…il silenzio … che silenzio, il silenzio di un sabato quasi qualunque a Villa Pineta.

CAPITOLO IX°

IL PROFESSOR JACOB

La domenica mattina alle sei Mery andò alla terrazza e scorse un cielo plumbeo, le nubi grigio scuro, e di lontano piccoli gruppi di case con i tetti ricoperti da una fitta nebbia.

Pioveva a dirotto, tirava un vento freddo, per ripararsi svoltò l’angolo e si trovò davanti Maurice, uno degli ultimi arrivati,

Jacob, il solito attaccabrighe, e Raffy, venuta anche lei di buon mattino a scrutare il tempo.

Maurice aveva il volto sconvolto per aver trascorso la terza nottata quasi completamente insonne.

Il suo compagno di camera, il prof. Jacob si ostinava a non indossare la macchina dell’ossigeno e di notte era colto da continue apnee,

Il suo russare profondo faceva sobbalzare il povero Maurice, che non aveva più parole per spiegare al professore quanto fosse noioso, disturbatore e invadente con quel suo comportamento ostinato.

Mery girò a largo, aveva già discusso animatamente col professore un pomeriggio soleggiato sulla terrazza, le urla del professore si udivano dal quarto piano sino al parcheggio sottostante e non voleva rischiare che la cosa si ripetesse, tanto era stato insolente con lei.

Ripensò a Maurice, l’uomo, più giovane di lei di circa quindici anni, aveva il volto buono, gli occhi verdi ed i capelli neri, sempre ben tenuti e pettinati, a differenza del professore tutto scapigliato e scomposto, disorganizzato e dai modi spesso prepotenti.

Maurice aveva trascorso ben due mesi in coma in un altro ospedale, prima di giungere a Villa Pineta, ma non appena fosse dimagrito in quel luogo, si era riproposto di raggiungere suo fratello a Mosca, dove questi era titolare di uno dei più famosi ristoranti della Metropoli.

Mery aveva scoperto che la sua città di provenienza e quella di Maurice distavano appena trenta chilometri e si sentiva un po’ a casa sua quando parlava con lui.

Mentre questi pensieri affollavano la mente di Mery ella udì le urla del professore provenire dal corridoio, saranno state le sei e trenta,.

Se la stava prendendo alacremente con una giovane infermiera e le gridava: “Ha capito quello che le sto dicendo? Ma lei ha capito?”

Mery si disse: “Non è possibile…di nuovo …ricomincia…siamo daccapo …sveglierà tutti!”

E così fu, tutti iniziarono a fare capolino dalle loro stanze, piuttosto seccati, gli occhi ancora mezzi chiusi dal sonno, curiosi di capire cosa stava accadendo.

Solo Hellen, l’amica di stanza di Mery, continuava a dormire, sicuramente stava tenendo i tappi alle orecchie, altrimenti non udire i brontolii del professore sarebbe stato del tutto impossibile.

Iniziava così quella mattina di domenica, già tutti attendevano ansiosi il mercoledì, giorno in cui il professore avrebbe dovuto prendere l’aereo e ritornare a Palermo.

Proveniva da una zona sperduta della Sicilia ed in molti, pur convinti di avere un atteggiamento profondamente razzista, si dissero che la sua dipartita sarebbe stata una liberazione.

Il cielo continuava ad essere scuro, l’aria umida, ma il tepore dei termosifoni riscaldava l’ambiente ed i cuori della gente tranquilla.

La pioggia scorreva lungo le grondaie attraverso i canali, le cicche delle sigarette precipitavano a terra percorrendo i rivoli d’acqua e inseguendosi bizzarre, gli uccelli avevano trovato riparo sotto le tegole del tetto di Villa Pineta, immersa nella semioscurità della grigia mattinata di domenica ventisei aprile.

CAPITOLO X°

LA LADRA DI GERANI

Le campane delle Chiese di Pavullo suonavano i loro rintocchi, erano le nove in punto.

Poche auto si muovevano in strada, la domenica era palpabile e si misurava dal silenzio.

Il merlo, che solitamente svolazzava tra i rami degli abeti, si contendeva il posto con una gazza, decisamente ‘ladra’.

La bella gazza, dalle grandi ali nere ed il petto bianco, frugava tra gli aghi di pino per accaparrarsi i piccoli insetti.

Uno stormo di piccioni sorvolò velocemente la scala di ferro sovrastante la terrazza del quarto piano e andò ad atterrare alla balaustra del terzo, dove Silvy, la donna che dava da mangiare ai cani della Villa, aveva posizionato con cura le briciole dei suoi biscotti, sacrificando la propria colazione.

Il vasetto di terra che spuntava in un angolino, formato da mezza bottiglia di acqua da un litro, composto da Mery il giorno precedente, conteneva dei rossi gerani, tutti fioriti e con i gambi robusti.

Mery se li sarebbe portati a casa alla fine del percorso, amava fare questo genere di innocentissimi ‘furti’.

Già dall’Isola di Karpathos in Grecia, nella vacanza dell’agosto duemilaquattordici, aveva trafugato una piantina grassa dalla forma curiosa, che dalle sue parti non aveva mai visto.

Ogni volta che la guardava e la innaffiava ripensava alla splendida Isola, rivedeva le acque di quel mare limpido, azzurro, e l’ambiente selvaggio di quella natura ancora incontaminata.

I gerani le avrebbero ricordato la dieta ipocalorica, i percorsi e gli esercizi ginnici, le lunghe camminate e le lezioni di psicologia e nutrizione.

Tutte cose importanti e da tenere bene a mente una volta rientrata nel suo habitat e ripresa la solita routine.

Pensava spesso a come avrebbe gestito il suo rapporto col cibo.

Nella Villa si consumavano i pasti ad orari precisi, ma una volta rientrata a lavoro sarebbe riuscita a mantenere quelle sane abitudini?

Anche il grande piatto d’insalata mista alla verza col quale s’iniziava ogni pasto, sarebbe riuscita a mantenerlo?

Era fortunata per questo, poichè si recava sempre alla mensa aziendale.

D’insalata mista ve n’era una grande quantità, come pure di cibo poco condito, e quanto alla misura sarebbe stato sufficiente che si fosse regolata da sola, decidendo di prendere pochi etti di pasta, di pane, secondo e contorni.

I propositi erano buoni, si trattava di mantenerli.

Martedì l’avrebbero nuovamente pesata ed in cuor suo fremeva nella speranza di aver perso almeno altri due chili.

Ma non ne aveva la certezza e di bilance in giro non se ne vedevano…altrimenti, curiosa, ci sarebbe salita sopra.

Doveva aspettare altri due giorni che le sarebbero parsi eterni.

Verso le undici la nebbia si era disposta in strisce orizzontali sottili e dense, oltre non si vedeva nulla.

Un cane latrava da lontano ed un altro gli rispondeva dal lato opposto.

L’atrio del salone si stava riempiendo di parenti ed amici venuti a far visita ai loro cari.

Si udiva un gran vociare provenire dal bar ed un rumore incessante di tazzine e cucchiaini si confondeva tra i discorsi concitati.

Un tizio leggeva il giornale del mattino, quattro anziani della Riabilitazione Respiratoria avevano preso a giocare a briscola, Maurice era intento ad armeggiare col suo tablet.

Aveva indossato le cuffie e stava ascoltando una famosa sinfonia di Mozart.

Isabelle, indossato il suo impermeabile, si era avventurata per strada, fuori dai cancelli, e Mariselle discorreva contenta con un vecchio amico che non vedeva da tanti anni.

Il professor Jacob, approfittando della magnanimità di Frank, aveva mandato suo genero a comperargli qualche pacchetto di sigarette.

Jacob non aveva ancora capito che era il caso di andarci da solo o meglio ancora che si fosse fatto la scorta di quelle benedette sigarette.

Le esauriva puntualmente ogni fine settimana ed a quel punto o le chiedeva agli altri ospiti, cercando affannosamente chi fumasse, o si lamentava sfinendo chi gli stava intorno, come sempre disorganizzato al massimo.

Per farsi perdonare offriva caffè a destra e a manca, ovunque a chiunque, alle macchinette distributrici o al bar.

Le undici e venti.

Il cielo sembrava leggermente rischiarare a sud, un profumo intenso di lillà e giacinti, posti alla base della piccola statua della Madonna, aleggiava nell’atrio freddo, separato dal corridoio e dall’esterno da pesanti porte scorrevoli di vetro.

I cuochi avevano iniziato ad apparecchiare le lunghe tavolate e si udiva un gran fragore di posate, piatti e bicchieri provenire dal refettorio.

Per gli ospiti quei rumori erano musica, tra poco sarebbe giunto il mezzodì ed avrebbero consumato l’agognato pasto.

Di domenica ad ognuno era stato distribuito dalla dietista, la giovane bella Flavia, il buono per consumare un piccolo dolce, che era una mousse al cacao o al limone, uno dei gelati consentiti o uno jogurt magro con delle fragole.

Le fragole in realtà, aveva sperimentato Mery, erano solo tre, ma spezzettate sapientemente dalla gentile e graziosa barista sembravano tante …

Si mossero gli ascensori ed anche chi era rimasto in camera a riposare, leggere o guardare la TV iniziava a scendere al piano terreno.

Erano vestiti tutti più eleganti, in fondo era giorno di festa e diverse ospiti il sabato precedente erano andate ad acconciarsi i capelli dalla parrucchiera.

Si, perchè la Villa disponeva anche della Parrucchiera e dell’Estetista ovviamente, che all’occorrenza curava mani e piedi.

CAPITOLO XI°

LE FOTO RICORDO DI VILLA PINETA

Il pomeriggio della domenica Edgard non sapeva come trascorrere il tempo.

Alle dodici e quaranta il pasto era già stato consumato, e dopo aver sorseggiato un buon caffè ed essersi fumato la sua sigaretta nel solito angolino ove stazionavano le ambulanze, meglio indicato come ‘parcheggio ospedale’ ed ‘ingresso poliambulatorio’ si chiedeva cos’altro avrebbe potuto fare.

Fu a causa del freddo che tornò in camera, per indossare un paio di calzini ed un’elegante felpa di ciniglia bleu.

Accese la televisione quasi svogliatamente, sicuro che nulla di particolarmente interessante sarebbe andato in onda, ma si sbagliava.

Sul canale Iris trasmettevano LA MIA AFRICA, con Meryil Streep e Robert Redford, e seppure l’avesse vistoa già quattro volte, decise di rivederlo ancora.

Si piazzò nel letto dopo aver ben sollevato lo schienale con l’apposita manovella, adattò i cuscini alla sua testa e si mise a guardare avidamente il film.

La posizione non era certo consona alla digestione, e fu così che a tre quarti della proiezione sentiva ritornare pesantemente all’esofago le cipolline in agrodolce.

Decise di scendere al bar ed ordinò una tisana al finocchio, che sorseggiò adagio, ancora bollente.

Edgard consumava tutti i cibi ad alte temperature: thè, caffè, cappuccini, minestre…

C’era da meravigliarsi che a sessantuno anni ancora non gli fosse venuta un’ulcera allo stomaco.

Però funzionò, pian piano le cipolline ritrovarono il loro posto iniziando a scendere nello stomaco, ove si sistemarono.

Interrotta oramai la visione del film e ricordando il tragico finale che gli avrebbe certo portato tristezza, decise di non rientrare in camera.

Percorse allora il lungo corridoio osservando le foto appese.

Ve ne erano molte e rappresentavano i momenti più significativi della Casa di Cura: la visita delle Autorità, la benedizione dell’Arcivescovo, una Messa solenne.

Ed altre in cui si vedevano in bianco e nero alcune bellezze di Pavullo sul Frignano.

Erano molto datate, dovevano essere state scattate intorno agli anni ’20, e ad Edgard piacquero particolarmente.

Raffiguravano la facciata di due Chiese, la fontana della Piazza, un autobus che sicuramente era il primo mezzo pubblico istituito nel paesino, l’ufficio Postale ed un vecchio Aeroporto Militare con degli aeroplanini parcheggiati, così piccoli e leggeri da sembrare giocattoli.

In fondo al corridoio, svoltando sulla sinistra verso l’Auditorium, le foto sempre in bianco e nero ritraevano un gruppo di pazienti del Sanatorio che intorno agli anni ’50, durante un Carnevale, si erano mascherati.

Non mancavano Colombina e Balanzone, Conti, Duchi e Marchesi e tante Odalische, in seducenti mise da Orientali.

Più avanti, sempre in bianco e nero, foto di un’équipe di medici intenti a consultarsi, seduti intorno ad un tavolo di legno massiccio.

Poggiati in esso facevano bella sfoggia di sé pesanti faldoni pieni di documenti, le vecchie cartelle Cliniche, oggi sostituite dai computer.

Una foto in particolare ritraeva un Chirurgo durante un intervento, un’altra dei Tecnici di Laboratorio che osservavano i bacilli al microscopio, un’altra ancora Operatori addetti alle prime rudimentali macchine Respiratorie.

Trionfavano in mezzo ad esse due tele a colori, dipinte da persone che erano state ricoverate ed avevano voluto lasciare un ricordo, una testimonianza del loro passaggio, ritraevano Villa Pineta con il suo bel giardino fiorito.

Da un lato del corridoio erano appoggiate al pavimento delle vecchie macchine da cucire risalenti agli anni quaranta, tutte di marca SINGER.

Ad Edgard tornarono in mente memorie d’infanzia, quando sua madre gli confezionava gli abitini su misura.

Ricordava il ticchettio dei punti che cucivano i lembi di stoffa, il piede poggiato sul pedale che sua madre spingeva avanti e indietro per far muovere la macchina, il rocchetto di filo che ogni tanto saltava via e che lui raccoglieva prontissimo, orgoglioso di rendersi utile.

Preso da questi dolci ricordi non si era accorto che si erano fatte le sedici e quindici minuti e non aveva neanche notato, oltre i vetri delle ampie finestre, come la nebbia si fosse infittita ed il clima fosse peggiorato.

CAPITOLO XII°

LA NEVICATA

Di notte la pioggia aveva smesso di picchiettare sulla struttura di ferro della scala antincendio, lasciando il posto ai fiocchi di neve.

Da quelli parti dissero che era la prima nevicata dell’anno, non l’aveva fatta neanche a Natale.

Edgard se ne accorse quando andò alla terrazza per scrutare il tempo, come faceva di solito, e rimase sorpreso piacevolmente da quella coltre bianca che aveva infarinato i tetti delle case, le auto, le siepi del labirinto, il grande giardino e gli alberi del boschetto.

Scattò subito delle foto che avrebbe mandato ai suoi cari con il commento: “L’ha fatta davvero!”.

Si sorprese a sorridere compiaciuto e pensò subito che avrebbe composto palle di neve per tirarle agli amici non appena si fossero affacciati.

Pian piano, uno alla volta, gli altri ospiti si recarono sulla terrazza, Mery era spaventata per i gerani, preoccupatissima che l’aria gelida della notte glieli avesse bruciati, ma un sole tiepido già compariva ad est e la neve, una coltre leggera e sparuta, iniziava a disciogliersi lasciandosi sgocciolare dai rami degli abeti sui prati e nei viali sottostanti.

Le gentili signore addette alle pulizie e tutto il personale, sempre così cordiale ed educato con i ricoverati, commentavano la nevicata e si stringeva dentro ai golfini dati in dotazione con le divise, commentando a voce alta che l’aria si era fatta fredda.

Venticinque aprile, Festa della Liberazione, festa grande oggi ovunque, tranne che a Villa Pineta, dove sarebbe trascorso solo un altro giorno d’inattività completa per gli ospiti.

Era già passata la colazione nelle camere, ma in molti andavano a prendersi alla macchina distributrice o al bar, chiamato il GOLOSANGOLO, il secondo ed a volte il terzo caffè espresso.

Ad Edgard piaceva offrirlo al personale e questi, garbatamente accettavano senza fare troppi complimenti, lui apprezzava molto perchè poteva ricambiare la cordialità e la premura con cui veniva trattato.

Guardò fuori dal finestrone che dava sull’ampio portico e si godette lo spettacolo di quella bella neve bianca rimasta, splendente sotto i raggi del sole.

La coppia di cani Pippo e Doroty non si vedeva, erano rimasti sicuramente al caldo nella baracca costruita dagli operai nei pressi del bosco.

Charlotte, Maryantony, Raffy, Hellen ed Alby ancora dormivano.

La sera avevano fatto le ore piccole per ascoltare Charlotte, la voce d’angelo che aveva magnificamente interpretato Mina e Battisti.

Solo al pensiero di gustare le note di quella voce armoniosa si scioglievano tutte per l’emozione ed a qualcuna, come Nady, veniva addirittura la pelle d’oca.

Lo stesso personale si fermava ad ascoltare il bel canto di Charlotte e rimaneva letteralmente sbigottito.

CAPITOLO XIII°

IL POETA

Nady se n’era andata di lunedì, erano venuti a prenderla il marito ed il figlio.

Aveva quasi raggiunto il suo peso normale ed era contentissima, le mancavano solo cinque chili al traguardo.

Era la più veloce alla camminata esterna e la più tenace agli esercizi ginnici.

Raffy per Nady subiva un fascino particolare, dovuto alla gran quantità di creme e cremine che lei aveva portato con sè, nonchè per i trucchi che valorizzavano i suoi begli occhi azzurri.

C’era chi andava e chi veniva a Villa Pineta.

In quei giorni erano giunte altre tre ospiti per il trattamento delle malattie dismetaboliche: Mariselle, Grazy ed Isabel, che si erano subito ben inserite nel ‘gineceo’.

Edgard, che mangiava al tavolo con altre quattro persone, ultimamente non faceva che ridere per le sortite divertenti di Rosy.

Una tipa allegra e simpatica, di buona compagnia.

Era abilissima a trafugare le piccole dosi di sale, olio ed aceto, riempiendo il suo borsello con noncuranza, accompagnata ad un’aria da perfetta innocente.

Edgard per infastidirla bonariamente le puntava l’indice al naso e la chiamava ‘patatina’.

Rosy reagiva prontamente con una frase come: ‘Stai fermo per carità, non vedi che ho l’ossigeno?”.

In effetti, dalla bombola che lei si trascinava dietro, tramite un comodo carrello, usciva un tubicino che si biforcava all’estremità superiore per entrare nelle narici.

Edgard adorava fare il giocherellone in mezzo a tutte quelle donne, come anche era capace di rimanere in ascolto e nella massima concentrazione alle lezioni di Psicologia, che lo affascinavano molto.

Guardando fuori dalla finestra dell’Auditorium, proprio durante la lezione del mattino di martedì, pensò che Jacob se ne sarebbe andato il giorno successivo o forse, diceva qualcuno, la sera stessa, ed un po’ in fondo ne fu dispiaciuto.

Si mise allora a rileggere i versi delle due poesie che lui gli aveva voluto dettare, provando un sentimento di profonda nostalgia e rigustandole appieno parola per parola, verso per verso.

GRAPPOLI DI PIACERE

Sei tu, piccola onda quieta

leggiadre parole e sorrisi.

Sei tu pallida luna

e voi lacrime di stelle

meteoriti di un mistero insolubile

amiche di antichi e giovani amanti.

Speranze silenziose di onde chete

in una lunga notte che passa:

giardino di rose e conchiglie

nelle storie del passato.

Leggiadre parole e sorrisi…

speranze per la tua tristezza

grappoli di piacere per le tue voglie.

NON MALEDIRE LE STELLE

I tuoi passi commossi e soli

paiono giungere da un oscuro destino.

Se la tua strada è segnata

perchè riecheggiare ricordi festanti?

Ma erano astrusi i sogni di gelide spiagge

o sono adesso gelidi i passi

che oscurano mete percorse?

Se la tua vita è vissuta

e la memoria tormenta i ricordi

se la realtà era quella dei sogni

di gioia festanti e illusioni svanite

perchè disperare e morire?

Se il sogno è un ricordo

perchè maledire il destino?

Se la tua strada è segnata

di pietra, di fiori,

di corone e di spine

perchè non percorrerla ancora

esultante, sconfitto, risorto

inebriato di cose, di fatti, di suoni,

di amori e di morte?

Non c’è che dire, pensò Edgard, il professore possedeva una grande sensibilità, e seppure non gli piacesse qualche nota del suo carattere in fondo al cuore, rileggendo i suoi versi, sentiva di apprezzarlo.

CAPITOLO XIV°

LA PARTENZA DI JACOB

La sera ci fu una gran festa nel salone, Charlotte intonò delle canzoni folkloristiche della sua terra, poi Lucio Dalla, Fabrizio De André e altri cantautori, il meglio del meglio, chiudendo con una solenne Ave Maria.

Si salutava così la partenza di Jacob, che il mattino seguente se ne sarebbe andato.

Gli fu chiesto di recitare una sua poesia e questi, dopo essersi mostrato un po’ riluttante, quasi pudico, vista l’insistenza del pubblico composto quasi esclusivamente da donne, accettò di declamarne una, bellissima.

Alla lettura seguirono applausi scroscianti e complimenti per la sua vena artistica.

Edgard pensò dentro di sé che forse aveva giudicato troppo frettolosamente il professore, in fondo questi dimostrava una forte sensibilità, diversamente non sarebbe stato mai capace di scrivere quei versi così profondi, di esprimersi con parole tanto ricche di sentimento.

Per questo non volle salutarlo la sera stessa, lasciò che tutti gli altri si congedassero da lui verso le ventitre e si ripropose di attenderlo il mattino dopo alle otto precise, nell’atrio della Réception.

Alle otto il professore ancora non si vedeva ed Edgard fu preso da un certo sgomento.

E se fosse già partito?

Mentre lo assalivano questi dubbi ecco che il professore uscì dall’ingresso posteriore della Clinica aiutato dall’autista intento a caricare in auto le sue valigie.

Fu così che gli andò incontro e lo abbracciò dicendogli: “Che Dio ti protegga sempre e possa tu realizzare quanto desideri di più dalla vita, di vero cuore”.

Jacob ricambiò il saluto e gli strinse la mano, provando un po’ di emozione al pensiero di quei pur brevi ma intensi giorni trascorsi insieme.

L’auto si allontanò ed Edgard si mise a fissare un tratto di arcobaleno che era comparso tra le colline.

La mattina era limpida ma faceva un gran freddo, lesse il suo calendario di impegni, il circuito sarebbe iniziato alle dieci e trenta, ne aveva di tempo per pensare e riflettere, e soprattutto per contemplare arcobaleni.

Ordinò al bar una spremuta di limoni e la gustò adagio, mentre man mano altri ospiti stavano scendendo con gli ascensori dal quarto al piano terreno.

Il vento frustava gli alberi con ferocia invernale e li piegava impietosamente sotto le sue gelide sferzate.

I poveri gerani stavano patendo in quel clima così impietoso se confrontato al magnanimo sole dei giorni precedenti.

Le macchine ai cancelli arrivavano puntuali con i dipendenti a bordo che avrebbero iniziato anch’essi una nuova giornata di lavoro, i cani invece ancora non si vedevano passeggiare sotto al portico.

Sicuramente erano rimasti al calduccio nella baracca degli operai, al limitare del boschetto.

Erano iniziate le voci di richiamo, gli echi di saluto: ‘Come stai, dormito bene?’, che si scambiavano puntuali ogni mattina, e poi tra chi aveva dormito come un sasso e chi aveva trascorso la notte insonne si svelava tutta una varietà di situazioni, per lo più piacevoli.

Del trattamento in Clinica, dell’ordine e della pulizia erano tutti massimamente soddisfatti.

CAPITOLO XV°

CHI HA RUBATO I BISCOTTI?

Le serate trascorrevano piacevoli per gli ospiti, quando si chiacchierava, quando si cantava tutti insieme, quando ci si riuniva nelle camere per raccontarsi barzellette e rompere il silenzio della Clinica con delle fragorose risate.

A volte mancava, per così dire, il ‘numero legale’.

Chi voleva seguire le vicende del commissario Montalbano il lunedì, chi la trasmissione ‘Chi l’ha visto?’ il mercoledì, chi la soap opera ‘Segreto’ il giovedì, chi ‘Quarto grado’ il venerdì e la dolce piccola Hellen, se non giocava la sua partita a ‘burraco’ con Maryantony, non perdeva neanche uno dei suoi cartoni animati preferiti, quelli che l’avevano accompagnato durante l’infanzia, Heidi, la piccola Dea Pollon ed Arsenio Lupin.

A Mary faceva una gran tenerezza.

Edgard notò che la lentezza delle prime due settimane aveva lasciato spazio ad uno scorrere del tempo più veloce, ed oramai aveva iniziato a contare quanti giorni mancavano alle sue dimissioni.

Il suo pensiero fisso era il peso del corpo e la larghezza dell’addome in centimetri.

Non vedeva l’ora che lo misurassero con il metro. ma doveva attendere altri cinque giorni.

Sentiva di avere il fisico più agile, prestante, il respiro più ampio e progettava di proseguire, una volta rientrato a domicilio, gi esercizi in qualche palestra, ma non ne era sicuro, tanta era l’indolenza che lo caratterizzava.

In cuor suo sperava che sarebbe bastata la cyclette.

La mattina di giovedì alle otto in punto una coltre di nebbia fittissima offuscava il panorama.

Non si riusciva a scorgere nulla, neanche a distanza ravvicinata.

In compenso il freddo era leggermente diminuito, e restava solo molta umidità nell’aria.

Maurice era sconvolto, il compagno di stanza, arrivato il mattino stesso, già si era sbagliato e gli aveva sottratto la colazione.

“Cominciamo male’ – gli disse Maurice- tu non puoi mica fare così eh? Io ho le calorie ed i cibi contati, se tu mi freghi la colazione io cosa mangio, l’aria?”.

Era piuttosto seccato e si diresse tutto sconsolato verso la macchina distributrice del caffè.

Il suo compagno gli aveva persino esclamato:”Erano buoni sai i biscottini?” e Maurice aveva replicato con aria mogia:”Lo credo bene, lo so e si dà il caso che erano i miei!”.

Un grido si udì all’improvviso provenire dalla stanza di Raffy, il suo phon aveva preso fuoco mentre stava aggiustandosi delicatamente la frangia.

Una ciocca di capelli si era incendiata in una frazione di secondo e la donna, spaventatissima, aveva lanciato a terra il phon terrorizzata.

Un odore acre di penne di gallina bruciate si era sparso nell’aria e vi sarebbe rimasto a lungo, fino a che le inservienti non avessero riassettato la camera e spalancato le finestre.

Mery, che in due giorni si era sparata la lettura di due libri, ascoltò impaurita il racconto di Raffy e cercò di consolarla.

Ma la Raffy, organizzatissima, si procurò subito un nuovo phon e terminò di lisciarsi la ribelle frangetta.

Edgard calcolò che se erano ora le nove e trenta avrebbe dovuto attendere un’ora buona ancora prima di andare al circuito, e pensò che nel frattempo poteva recarsi alla postazione del computer per continuare la narrazione del suo romanzo.

Ogni tanto però aveva bisogno di staccare, e sperando che non ci fosse in giro qualche pirata informatico abbandonava la postazione per andarsi a gustare un caffè o fumarsi una sigaretta.

Di sotto il parcheggio delle ambulanze, accanto alle due panchine arancioni nell’ingresso retro, si udiva dalle finestre appena socchiuse l’orologio della terapista che segnava lo scadere del minuto e mezzo per gli esercizi.

Rumore oramai familiare, si disse Edgard soddisfatto, nulla da temere, fra poco avrebbe scandito anche il suo tempo.

Le voci del personale Amministrativo rendevano allegro il corridoio ed alcune ospiti si misero a parlare tra loro con enfasi.

A quel punto la sagoma del Dirigente della Clinica, donna di grande fascino e carisma, uscì tutta d’un pezzo, rigida ed inflessibile, da una porta laterale, per riprendere gli astanti che stavano facendo, a suo dire, decisamente troppa confusione, invitandoli molto educatamente ad usare toni più sommessi.

Che figuraccia” si dissero le tre ospiti mortificate …e si ripromisero di prestare più attenzione alla cosa in futuro.

Mery aveva portato alla Dirigente i saluti di sua sorella Maryerika, Primario della Broncopneumologia Ospedaliera della sua città e lei aveva apprezzato molto il gesto, ricambiandolo garbatamente.

“Sicuramente- le disse- avrò conosciuto sua sorella a qualche Convegno, le auguro una buona permanenza e le faccio questa raccomandazione, stia molto attenta quando rientra a casa, non getti via questi preziosi risultati, so’ che questa è la parte più difficile”.

In futuro si rivelò una grande verità.

CAPITOLO XVI°

UNA NOTIZIA INATTESA

Edgard era sgaiattolato via dal letto alle cinque e trentacinque del mattino, sapeva che la giornata sarebbe trascorsa in maniera concitata.

Gli avevano dato notizia della morte improvvisa di sua suocera cercandolo ovunque, anche tramite la Réception di Villa Pineta.

Quando i parenti riuscirono a parlargli le cose da dire furono molte, si doveva cercare il prete per il funerale, contattare l’impresa funebre per le esequie, scegliere la bara, gli addobbi, i fiori…

Tutte questioni che avrebbe potuto risolvere il figlio, ma al funerale non sarebbe certo potuto mancare.

Quindi si parlò subito di un permesso d’uscita, con l’accordo che avrebbe trascorso fuori solo una notte, o avrebbero interrotto il ricovero.

Quei risultati faticosamente raggiunti in due settimane, quasi tre, non potevano pensava Edgard, essere buttati così al vento, dunque si ripropose di organizzare un rientro per il tempo strettamente necessario.

In accordo con suo figlio si fece inviare il biglietto del treno tramite mail all’Accettazione della Clinica.

Avrebbe preso la ‘Freccia bianca’ e fatto poche fermate, sino ad arrivare al capoluogo della Regione, dove sarebbero giunti a prenderlo i suoi familiari.

Per prima cosa andò alla terrazza e scrutò il tempo, c’era molta nebbia anche quel venerdì mattina.

Si recò al piano terreno dove già alle sei poteva prendere un cappuccino e due biscotti, ma si pentì amaramente.

C’erano solo i ‘Baiocchi’ del Mulino Bianco, erano ben sei e non quattro come ne davano di quelli secchi tipo ‘Colussi’ ogni mattina in ospedale, e per di più erano farciti di una crema burrosa ipercalorica che le sarebbe costata sicuramente tre o quattro etti di peso in più.

Pazienza, si disse, sono troppo nervoso, non posso fare diversamente.

Si sentiva addosso un profumo di fresco e di Eau de toilette ‘Clarins for men’ inebriante.

La sera precedente aveva fatto una caldissima doccia e si era profumato il corpo.

Pensava alla vecchietta, morta a novantuno anni.

Non aveva la salute malferma, anzi, stava ‘carina’ come Edgard amava dire.

I valori del sangue erano tutti nella norma e se non fosse stato per le piaghe da decubito che da circa quattro mesi avevano iniziato a segnare il suo povero corpo magro, probabilmente avrebbe potuto arrivare sino a cento anni!

Un peccato, si era affezionato a sua suocera, per quanto fosse la madre della sua ex moglie.

Questa era deceduta qualche anno prima ed Edgard si era dedicato a lei con uno spirito di abnegazione senza pari, sino all’esalazione del suo ultimo respiro.

Di questo andava orgoglioso.

Così si apprestava a frequentare la lezione di Dietetica e Nutrizione alle otto e trenta, poi il circuito, poi avrebbe consumato il pasto delle ore dodici, e da un taxi si sarebbe fatto accompagnare alla stazione di Modena per prendere il treno delle quindici e quindici.

Saltava la cyclette, ma meglio non poteva fare, così ragionava alle sei e quarantaquattro del mattino, memore che la prima cosa da fare era attendere lo scoccare delle otto e trenta, orario in cui sarebbe arrivata la Dottoressa che avrebbe deciso per il permesso d’uscita.

Non ci sarebbero stati sicuramente problemi, pensava Edgard, sarebbe rientrato il sabato sera, partendo quasi subito dopo lo svolgimento dei funerali, ma non aveva certezze.

Andò al ‘confessionale’, così amava chiamare il curioso gabbiotto che conteneva la postazione al pc, situato in un angolo nascosto e superprotetto dagli sguardi indiscreti, e si mise a scrivere come faceva sempre al mattino quando si svegliava di buon’ora.

Il suo romanzo proseguiva ed i protagonisti si apprestavano a ricevere visite per il fine settimana che si stava avvicinando.

Sarebbero arrivati tutti per il sabato e la domenica, fratelli, sorelle, nipoti, generi, nuore, mogli, mariti, amici e amanti, di tutto di più, un florilegio irresistibile di vita che pullulava a Villa Pineta.

CAPITOLO XVII°

IL VIAGGIO DI RITORNO

La mattina del sabato Edgard si mise ad attendere l’arrivo della Dottoressa che gli avrebbe rilasciato il permesso per partecipare al funerale di sua suocera.

La lezione di Dietetica era saltata, gli era rimasto il tempo sufficiente invece per partecipare alle attività del circuito e della cyclette.

Aveva prenotato il taxi che l’avrebbe portato da Gaiato Pavullo alla stazione di Modena.

Pranzò con un leggero anticipo, e dopo essersi rinfrescato con una doccia caldissima si mise ad attendere l’arrivo del mezzo.

Puntuale alle tredici e quindici, come stabilito, il taxi si fece trovare nel lato parcheggio ospedale ed alle tredici e venti l’auto partì, direzione Modena.

La distanza da coprire non era poca, c’erano cinquanta chilometri da percorrere e non avrebbe impiegato meno di un’ora.

L’autista era gentile e propenso a rispondere alle domande che Edgard gli poneva, curioso di scoprire questa o quella curiosità sui luoghi che stavano attraversando.

In particolare, gli domandò quale storia avesse il Castello di Montecuccolo.

L’autista accennò ad una storia che vedeva protagonisti il Conte Raimondo Montecuccolo ed una ricca e possidente signora, dal titolo di Principessa, divenuta sua moglie, poi però disse che non ricordava altro ed Edgard ci rimase un po’ male.

Dopo che fu salito in treno tutti i suoi pensieri mutarono all’improvviso e sentì improvvisamente la necessità di concentrarsi sulla morte di Eveline.

Le fermate del treno che lo separavano da Ancona erano solo tre: Bologna, Rimini, Pesaro, ma il tragitto gli parve molto più lungo, il tempo non passava mai.

Il collo iniziò a dolergli, la nuca pulsando, spingeva con forza il sangue verso le tempie ed egli temette un attacco di cefalea violento, come quelli che negli ultimi due anni l’aveva assalito portandolo a ricoverarsi in ospedale, reparto Neurologia per tre, quattro giorni.

Invece, quando fu prossimo alla stazione di Ancona, quella dolorosa tensione sembrò allentarsi

Intanto lo chiamò sua sorella Elisabeth, avvisandolo che sarebbe giunta a prenderlo alla stazione, ed egli subito si sentì risollevato.

Non appena si sedette in auto con Elisabeth il mal di testa scomparve, del dolore e della tensione non v’era più traccia.

Chiacchierando vivacemente con lei ed aggiornandosi sulle ultime novità, accadute per il tempo che non si erano visti, il viaggio di rientro a casa fu piacevolissimo, e si congedarono abbracciandosi e dandosi appuntamento per il mattino successivo, all’ora stabilita.

CAPITOLO XIX°

LA GIACCA ROSSA

Edgard finalmente era di nuovo a casa.

Gli aveva fatto un effetto strano e piacevole, si era svegliato alle cinque e trentacinque, aveva consumato una parca colazione ed atteso un’altra ora prima di tornare a dormire.

Si era messo a preparare il pranzo perchè, dopo il funerale, sarebbe dovuto partire subito di nuovo verso Modena.

Alle nove in punto si trovava già dall’estetista Mira per farsi curare le mani, era un suonatore di chitarra e non poteva che tenere le sue unghie curatissime.

Tra il taglio, la limatura, il gel, la protezione, e lo smalto con asciugatura finale impiegò più di un’ora.

Uscì giusto in tempo per recarsi alla vicina Parrocchia ed attendere che parenti e amici di sua suocera arrivassero.

Giunsero tutti puntualissimi, qualcuno un po’ in anticipo, e si salutarono con cordialità.

C’erano anche i vicini di casa commossi, che avevano voluto partecipare al cordoglio dei familiari.

Edgard ed i suoi nipoti si accordarono per eseguire alcuni brani durante la Messa, e cantarono esprimendo partecipazione e sentimento.

Una nipote della defunta, la maggiore in età, salì all’altare per ricordare con parole care sua nonna in vita, e tutta l’assemblea si commosse.

In particolare, una delle donne che aveva espletato servizio come colf negli ultimi anni ad Eveline, piangeva a singhiozzi ed a nessuno, neanche a suo marito, riusciva di consolarla.

Terminato il rito funebre Edgard si accordò con l’impresa Funebre per trasportare la salma al piccolo paesino dove sarebbe stata tumulata.

Seguì una colonna di macchine che muovendo dalla casa della defunta, situata accanto all’Arco Clementino, arrivò in circa dodici minuti al paese di Castelbellino.

Ivi avvenne la sepoltura, ed Eveline venne adagiata accanto al loculo della già prematuramente scomparsa figlia Jaquette.

Congedatisi uno ad uno, amici e parenti man mano si dileguarono, stringendosi le mani e baciandosi sulle gote.

Quando fu il turno di uno dei nipoti di Edgard, Lorenz, questi guardò commosso lo zio e gli confidò:”Sai caro zio, per me sei stato sempre come un padre, e voglio che tu sia tra i primi a saperlo, io e mia moglie siamo in crisi, affronteremo un periodo di riflessione e rimarremo lontani per mettere alla prova il nostro rapporto, le cose non vanno affatto bene, litighiamo sempre”.

Edgard, dispiaciuto, lo rassicurò e gli rispose:”Non preoccuparti, ancora non avete figli, è meglio che accada ora piuttosto che in futuro, in fondo siete ancora così giovani, è bene che ci riflettiate a fondo prima di prendere una decisione drastica!”.

Ad Edgard era arrivata come una pugnalata, non ci avrebbe mai creduto che quella coppia così solida, così affezionata ed innamorata un giorno sarebbe andata in crisi.

No, non ci avrebbe mai creduto neanche se un mago glielo avesse predetto!

E fu in quell’attimo che notò Lorenz vestito in maniera diversa, sotto all’impermeabile indossava una giacca rosso vermiglio.

Mai aveva indossato altro che felpe e giubbini in vita sua ed era sempre in nero.

Allora era cambiato davvero, si disse, aveva sofferto, era maturato, e stavolta il cambiamento sarebbe stato per sempre…

Lo abbracciò forte e se lo strinse a sé, quasi a fargli male, poi indossò gli occhiali da sole per nascondere due lacrime che gli spuntavano impertinenti dagli occhi, nonostante volesse nascondere il dispiacere che, come una fitta dolente, lo passò da parte a parte.

CAPITOLO XX°

IL RITORNO

Il viaggio di ritorno a Modena apparve ad Edgard molto più rapido di quello dell’andata.

Ad accompagnarlo in stazione era stata la sua sorellina minore Elizabeth, e con lei Edgard aveva chiacchierato a lungo descrivendo dettagliatamente le sue giornate a Pavullo.

Salendo in treno alla carrozza numero sei, seconda classe, Edgard cercò il posto 7C’ che gli era stato assegnato con la prenotazione via Internet, fatta da suo figlio.

Elizabeth era rimasta a guardarlo intenerita e forse un poco commossa di vederlo partire, così gli promise che avrebbe telefonato la sera stessa.

Il treno aveva dieci minuti di ritardo da recuperare e si mosse non appena fu salito l’ultimo viaggiatore.

Il fischio del capotreno riecheggiò a lungo e la Freccia bianca partì.

Edgard ripensò agli ultimi momenti del funerale, ai saluti, al commiato con i parenti, sempre più rari.

Appoggiò i lati del mento ai palmi delle mani, con i gomiti puntati al tavolino, stando ben attento a non sfiorare con la testa il sedile per non provare più il tremendo dolore che aveva sperimentato all’andata.

La cosa funzionò e si sentì bene.

Fece tre telefonate, una alla sorella, una al figlio, e l’ultima al tassista, per avvisare che sarebbe arrivata in stazione alle diciassette e trentanove.

Il treno iniziò a correre divorando i binari, ogni cosa scappava via ad una velocità vorticosa.

Dai finestrini si vedevano fuggire gli alberi, i fili della luce, i pali del telefono, i muri delle case, le macchine, le strade parallele, tutto scappava via…

Si accorse che il treno si era fermato alla stazione di Pesaro e stentò a credere di essere già arrivato fin lì.

Il viaggio continuò rapido, dopo Pesaro vennero Rimini, Bologna e Modena in un lampo.

Il taxi l’attendeva al piazzale antistante la stazione, alla guida sempre il cordialissimo Ennio, pronto a farsi un’altra chiacchierata con Edgard come i due giorni precedenti.

Per lui quel viso era già divenuto in qualche modo familiare.

Correndo verso ovest, direzione Pavullo, un cielo nero prometteva pioggia, che infatti di lì a pochi minuti iniziò a precipitare con forza.

Alcuni ciclisti si affannavano per strada alla ricerca di un riparo, sorpresi in pieno dallo scroscio d’acqua improvviso.

Puntuali per l’orario della cena arrivarono a Gaiato Pavullo ed Edgard offrì un caffè ad Ennio al bar ‘Golosangolo’.

La sua guida era stata piacevole come la sua compagnia, tant’è che era rimasto molto soddisfatto.

Non per nulla Ennio aveva confidato ad Edgard di essere l’autista di fiducia dell’elegante proprietaria di Villa Pineta.

Quando Edgard si sedette al solito posto la cameriera Theresine ebbe un sussulto, aveva confuso il giorno del suo rientro, credeva che sarebbe stato il giorno successivo.

Edgard provò sgomento al pensiero che stava rischiando di rimanere senza cena, ma la cosa fu da Theresine prontamente risolta.

Arrivò dopo circa dieci minuti con il vitto per Edgard, completo e regolare.

A cena gli amici chiesero come fosse andato quel breve rientro a casa ed Edgard rispose educatamente e con poche parole che ‘tutto si era svolto come doveva andare, in modo tranquillo’.

Erano tutti contenti per il suo ritorno e glielo fecero capire con ampi sorrisi e battute amichevoli.

CAPITOLO XXI°

OGNI COSA RIENTRA AL SUO POSTO

La sera Edgard cenò con molto appetito, intrattenendosi un po’ di più con i compagni di mensa.

Era contento di essere tornato e non vedeva l’ora di riprendere tutte le attività.

Finito di mangiare uscì dal lato ‘parcheggio ospedale’ e fumò l’immancabile sigaretta, dopo aver gustato il caffè espresso alla macchina distributrice.

Il tempo era nuvoloso e continuava a piovigginare, notò che alle fioriere erano state piantate delle gerbere color giallo-arancione in due circonferenze regolari, quella esterna contava ventotto fiori, quella esterna quattordici.

Entrambe ne vedevano uno al centro che faceva bella sfoggia di sé.

Notò che un anziano signore col cappello a coppola usciva da un cancello di metallo al confine del prato sottostante il parcheggio e si recava in strada.

Edgard si chiese come mai non se ne fosse mai accorto prima, era un’uscita che gli avrebbe fatto comodo utilizzare per recarsi al vicino negozio di alimentari ed all’Emporio, dove ogni tanto doveva acquistare la carta igienica, il bagno schiuma, il dentifricio, lo shampoo ed ovviamente le sigarette light.

Doveva affrettarsi se non voleva rimanere chiuso fuori, perchè alle venti esatte, delle due porte scorrevoli, si sarebbe aperta solo quella esterna.

Egli comunque aveva subito imparato il trucco, bastava forzare un poco la fessura che separava i due pannelli laterali e la cellula fotoelettrica scattava di nuovo, permettendo alla porta di aprirsi completamente.

“Quanto sono furbo” pensava.

Quella era l’ora in cui c’era un viavai di macchine che venivano a riprendere i propri familiari, rimasti in ospedale alcune ore del pomeriggio per badare ai propri cari ricoverati.

Quando rientrò qualcuno guardava la televisione, Frank giocava a biliardo da solo, per la curiosità di vedere se riusciva ad infilare nella buca le palline, le donne, a due o tre gruppi, erano sedute ai divani della Sala ritrovo chiacchierando del più e del meno.

Edgard si unì a loro, non aveva voglia di chiudersi nuovamente al ‘confessionale’.

Parlarono del dimagrimento, ansiosi di conoscere quale sarebbe stato il loro peso il giorno di lunedì.

Sicuramente tutti si sentivamo meno gonfi, Edgard stesso aveva notato che gli si era allentato l’elastico della tuta nella circonferenza dell’addome ed esultava per questo.

Provò a chiedere al ‘Golosangolo’ delle gomme da masticare senza zucchero ma la barista non gliele vendette, era proibito a chi seguiva la dieta, occorreva il biglietto di autorizzazione della Dietista.

Si rassegnò, ma si ripromise che il lunedì avrebbe chiesto l’autorizzazione alla dietista Flavia.

In realtà già ragionava come se lunedì fosse stato vicinissimo, mentre prima sarebbe dovuta trascorrere tutta la lunga giornata di domenica.

E domenica fu lunga come al solito, per di più grigia e piovosa,

nebbiosa e fredda.

Dov’era finito quel bel sole cocente dei primissimi giorni, si chiese Edgard, tanto sembrava impossibile un mutamento del tempo così repentino e radicale.

Quella coltre di nebbia che offuscava ogni cosa, anche a brevi distanze, metteva tristezza concordarono gli ospiti, ma l’unica strada era la rassegnazione.

Unico diversivo della domenica era stato l’affluire di parenti ed amici che come di consueto amavano trascorrere il tempo libero coi loro cari, ed anche quella domenica uggiosa furono in diversi a ricevere la loro piacevole visita.

Ed anche quella giornata passò, tra la noia e l’inerzia più totali.

La sera Edgard ed il suo compagno di camera guardarono un film che creò loro una tremenda suspance, ‘Don’t Say a Word’con Michael Douglas.

La trama era avvincente, un gruppo di rapinatori si introduce in una banca di Brooklyn per trafugare un prezioso diamante rosso del valore di dieci milioni di dollari.

Il colpo va a buon fine, ma un membro della banda riesce a ingannare gli altri compagni e a sottrarre il diamante.

Dieci anni dopo, lo stimato psichiatra Nathan Conrad viene coinvolto da un collega in un caso che riguarda una ragazza con disturbi mentali, improvvisamente colta da raptus di violenza, Elisabeth Burrows.

Il mattino seguente è il giorno del Ringraziamento: Conrad si sveglia, prepara la colazione e si rende conto che qualcuno è entrato nell’appartamento e ha rapito sua figlia di otto anni.

I rapitori risultano essere gli stessi del colpo alla banca di dieci anni prima e vogliono che Conrad tiri fuori dalla mente di Elisabeth un numero a sei cifre, altrimenti uccideranno la bambina.

Si addormentarono contenti che il lunedì si sarebbero svegliati un po’ più tardi del solito, soddisfatti che il thriller fosse durato a lungo.

CAPITOLO XXII°

UNA SPERANZA DI SOLE

La notte era trascorsa tranquilla, Edgard assumeva una minima quantità di psicofarmaci da circa dieci anni, che gli garantivano la mancanza di ricadute per depressione, male che lo aveva afflitto dai ventisette ai cinquantadue anni di età.

Sotto questo aspetto l’esistenza era stata un vero calvario, ma per sua fortuna erano rare le volte in cui egli ripensava a quegli accadimenti tragici.

Finalmente il mattino, con un tiepido sole, fece il suo ingresso alle sette e trenta nella terrazza.

Edgard osservò il panorama sottostante che seppure fosse sempre uguale ogni volta, gli faceva notare qualche nuovo particolare.

I tetti erano tutti colore marrone ma le case avevano i muri differenti.

Così si soffermò ad osservarle meglio e a contarle.

Quattro erano rimaste color cemento, sicuramente i proprietari non avevano denaro sufficiente per provvedere a tinteggiarle, tre arancione scuro, due arancione chiaro e altre due gialline.

Poi si vedeva la tabella segnaletica del piccolo Ufficio Postale color giallo con la scritta in neretto delle iniziali P T.

I giardini delle case erano tutti molto ben curati, avevano i prati falciati e verdeggianti, le siepi precise e folte, gli alberi potati a novembre che iniziavano a ricacciare le loro foglie.

Tre piante di pesco erano già fiorite durante le prime due settimane in cui lui era arrivato, ma poi i petali erano caduti e ancora senza frutti, sembravano spogli.

In lontananza la vetta del Monte Cimone gli ricordava il profilo preciso del suo amato Monte San Vicino.

Pensò allora che il Tosco-Emiliano era molto simile all’Appennino Marchigiano, così dolce e regolare nei contorni.

La sigaretta finì col terminare di questi suoi pensieri e si preparò per andare alla lezione delle otto e trenta.

E così anche quella giornata ripartì con tutte le programmate attività, trascorrendo in maniera tranquilla.

Curioso per Edgard assistere alle sbuffate dei nuovi arrivati, i quali non abituati a fare movimento ansimavano ad ogni gesto durante gli esercizi al circuito.

Esattamente com’era stato per lui i primissimi giorni, lo sforzo iniziale appariva insormontabile ed il primo pensiero era “No, non ce la faccio … non ce la farò mai!”.

Poi però, magicamente, si scopriva che tenendo duro ci si poteva riuscire, ed ancora più avanti il pensiero si tramutava in: “Come avrò fatto a pensare di non riuscirci? In fondo è così semplice, basta mettercela tutta.”

Le undici e cinquanta, si attendeva l’ora del pasto ed Edgard ripensava alla bella storia raccontata nel film INSIDE OUT, che la Psicologa Alexa aveva proiettato nell’Auditorium per i suoi ospiti, allo scopo di far comprendere le emozioni.

Gran bel film, pensò tra sé e sé.

Gli era piaciuto molto ed aveva notato che tra i compagni qualcuno si era commosso persino.

Ore dodici, il pranzo era servito.

Finalmente si mangia pensò Edgard, aveva un certo appetito.

I camerieri si aggiravano intorno ai tavoli seguendo con cura le istruzioni di complicate tabelle recanti i nomi, il numero della camera ed il conteggio delle calorie per ciascuno.

Un lavoro certosino che portavano avanti con cura e scrupolosità, senza tralasciare mai nulla né mai sbagliare.

Il cuoco Gabriel quella mattina indossava una cuffietta bianca, quasi trasparente. Era buffissimo, trovò Edgard, somigliava alla nonna di cappuccetto rosso se non fosse stato per la barba ed i baffi neri.

Anche lui come gli altri era cortese nei modi e nelle parole, alto due metri lo si guardava dal basso verso l’alto con decisa ammirazione, nonché invidia, perché oltretutto era magrissimo, un grissino!

A tavola si notava che i posti vuoti erano nuovamente occupati da altri ospiti, il giro della ‘giostra’ proseguiva, chi andava e chi veniva da Villa Pineta.

Verso le sedici, dopo la camminata che finalmente si pote’ fare all’aperto, Edgard udì un grillo cantare.

Doveva essere lo stesso che la sera precedente, nonostante il freddo, cantava nel prato sottostante, e lo trovò un fatto curioso con quella temperatura.

Fu anche sicuro di aver sentito ululare un lupo, il latrare o l’abbaiare di un cane lo sapeva distinguere bene, ma quella sera era stato qualcosa di diverso.

Si sarà avvicinato per fame, proverrà dai monti vicini”.

Fumò la sua sigaretta pensando che le previsioni, per la giornata di mercoledì presagivano bel tempo, e che forse, finalmente, sarebbe iniziata l’estate.

CAPITOLO XXIII°

INIZIA IL CONTO ALLA ROVESCIA

Mancavano esattamente otto giorni alla partenza, ed Edgard cercava d’immaginare quali sensazioni l’avrebbero colto man mano che si avvicinava a quello che vedeva oramai come un felice traguardo.

Felice non tanto perché l’esperienza avrebbe avuto termine, era stato così beatamente bene in quel luogo, ma felice di rientrare a casa pieno di buoni propositi, intenzionato a proseguire la dieta esattamente come gli era stato insegnato per un intero mese.

Servito di tutto punto per trenta giorni: niente lavori di casa, niente spesa, niente preparativi per il pranzo e la cena.

Insomma, niente di niente, di tutte quelle che erano le incombenze casalinghe, da svolgersi orami tutte da solo.

Rimpiangerò tutto” pensò Edgard, “persino questo letto rifatto con tanta cura, le lenzuola ben fissate agli angoli, il copriletto rigidamente teso ed i guanciali adagiati con massima precisione al loro posto”.

Lasciare un luogo come quello in qualche modo era un lutto, un distacco, una perdita.

Nel frattempo, proseguivano le lezioni di psicologia, di Dietetica e di Cucina.

Sotto il segno della massima organizzazione le docenti avrebbero consegnato agli ospiti dei preziosi CDd, contenenti le informazioni basilari riguardo ciò che avevano insegnato durante quel periodo.

Edgard fremeva solo all’idea di scoprire quante ricette si potevano preparare, e già si vedeva a casa sua, intento ai fornelli, con quella passione che, a dire il vero, non aveva mai messo nel cucinare.

Ed i risultati si erano visti, perché col passare degli anni era diventato ‘più largo che lungo’.

La mattina di mercoledì ebbe modo di fare una lunga chiacchierata con la proprietaria di Villa Pineta.

Le aveva confidato quanto si era trovato soddisfatto del trattamento ricevuto e come ogni Operatore, dal primo all’ultimo, avesse rivelato una grande umanità unita a serietà, competenza e Professionalità.

Edgard ammirò la figura snella e longilinea della Direttrice Sanitaria, la sua classe, il suo stile e non mancò di complimentarsi per la sua delicata bellezza.

C’era una cosa che ancora Edgard doveva fare.

Era regalare al IV° piano una bella torta al cioccolato che sembrava dire ‘mangiami … mangiami’ da dietro il vetro del bancone del Golosangolo.

Decise di acquistarla senza pensarci troppo e la inviò, perché ovviamente in mano non gliela diedero; le restrizioni erano così severe che era impedito ai malati dismetabolici di trattenere con sé cibi dolci e leccornìe varie.

Tutti gli Operatori l’accettarono di buon grado e dissero che era molto buona, per Edgard una grande soddisfazione perché aveva finalmente modo di testimoniare loro la sua gratitudine.

Il sole era tornato a risplendere, Edgard volgeva il viso diritto a quei raggi che di lì a pochi giorni sarebbero tornati cocenti.

Voleva abbronzarsi un po’ per tornare a casa e raccontare che era stato in vacanza.

Meraviglia delle meraviglie, si accorse che poteva indossare comodamente la cinta e stringere qualche buco, perché la pancia si era notevolmente ritirata.

Tornava forse ad essere quello di un tempo?

Magari si disse … magari … un tempo adorava stringere le cinte, poi un giorno dovette capitolare perché era tutto troppo stretto e soffriva.

Aveva allora ripiegato su un modo di vestire più comodo, tipo tute e felpe, tessuti morbidi e con gli elastici in vita.

Pensava queste cose mentre andava avanti e indietro sul piazzale delle aiuole, coi raggi del sole che cercavano posto fra le fronde dei platani, gli uccelli che volavano da un ramo all’altro cinguettando rumorosamente, un paio di grosse mosche ed un’ape gigantesca ferma sui fiori.

La sera il ‘gineceo’ proseguì nelle sue piacevoli ed animose chiacchierate, i racconti di vita vissuta, i problemi, le ansie, le aspettative, talvolta le paure, ma più spesso le risate, che erano così benefiche …. sorseggiando gustose tisane agli aromi più misteriosi ed esotici …

Alcuni giocavano a carte, Hellen, Maurice e Maryantony erano accaniti per le partite di burraco, altri guardavano laTV, altri consumavano ininterrottamente caffè e orzo, altri ancora andavano a letto presto perché il mattino volevo sentirsi ‘scattanti’.

Si chiudeva così il terzo mercoledì a Villa Pineta.

CAPITOLO XXIV°

 

MODELLO “GIUDITTA”

Albeggiava appena che Edgard già era in terrazza, noncurante che il freddo gli congelasse piedi e caviglie.

Il cielo, ad est, era di un chiarore talmente roseo da presagire il sorgere di una nuova e bella giornata di sole.

Oggi è giovedì” si disse “Inizio il circuito alle dieci e trenta, bene, avrò tutto il tempo per scrivere.

Rientrò che si era leggermente congelato, ma non era spaventato, perché certo che non si sarebbe ammalato, i suoi anticorpi dovevano funzionare alla perfezione, andava in giro vestito sempre così leggero senza buscarsi alcun raffreddore.

D’altra parte nei suoi lunghi anni di vita l’unica malattia contratta era stata la ‘sindrome maniaco-depressiva e depressivo-ansiosa’, una di quelle diagnosi complicate gli Psichiatri scrivono al malato di ‘tristezza’ e non sanno bene come diversamente esprimersi.

Seduto nelle sedie antistanti le camere dalla quattrocentocinque, la sua, alla quattrocentosette, quella di Maurice, scrutava il lungo corridoio, lucido da specchiare.

Quasi tutte le porte delle camere erano semiaperte, di colore giallino con il contorno marrone scuro, e sembravano tanti separé di un locale adibito a sfilata di moda.

Edgard sorrise pensando che poteva comparire da un momento all’altro una sagoma tipo l’attore Roberto Benigni, un signore magro in camicia da notte svolazzante fin sotto al ginocchio, che si sarebbe messo a saltellare allegramente gridando:” Modello Giuditta!”.

Rise da solo, osservando un’infermiera china sul carrello che molto seriamente stava distribuendo la terapia.

Poi comparve Frank da lontano, era ricoverato nell’altro lato, indossava la sua tuta rossa e sicuramente avrebbe cercato anch’egli un angolino in terrazza per fumare, in quei giorni si erano incontrati spesso sul piazzale per commettere lo stesso reato!

Stava arrivando la colazione, che bello, Edgard aveva una fame da lupi.

Aspettò che la signora entrasse in camera con il bricco del caffellatte per servire lui ed il suo amico di stanza, ancora teneramente addormentato come un bambino.

Come dormono i giovani” pensò Edgard, “alla mia età certi sonni lunghi si dimenticano”.

Ma non se ne crucciava, quando lui apriva gli occhi ogni cosa era così fantastica, ogni giorno riservava una tale sorpresa che nessun rimpianto lo assaliva per essersi alzato dal letto anche quel mattino alle cinque e trentacinque precise.

Andava bene così, Edgard era sempre molto positivo, andava bene anche quel calo di peso lento e graduale che un po’ lo scoraggiava, in fondo brucava solo tanta insalata, possibile perdere in una settimana soltanto sei sparuti ettogrammi di peso?

No, si ripeteva, andava bene così!

Il primo pensiero del mattino fu di fare il bis allo staff del IV° piano, dopo la torta al cioccolato avrebbe regalato un gran cabaret di paste e pasticcini agli Operatori/trici di un turno diverso dal precedente, così tutti avrebbero gustato il dono ed apprezzato la gentilezza del suo animo.

Piazzato alle sei e trenta precise di fronte al Golosangolo, dopo aver ordinato una spremuta di due limoni con aggiunta di acqua tiepida, ordinò le paste e le fece ben confezionare.

Fece anche preparare una golosa macedonia per la signora del caffellatte, allergica alle uova.

Felice di rendere felici gli altri, Edgard gongolava in cuor suo al pensiero di quando si sarebbero trovati tutti insieme a consumare quel cibo gustoso e magari a benedirlo, perché non era tanto l’essenza della cosa, ma il principio del ‘gesto’ che li avrebbe resi contenti.

In fondo non si lavora solo per lo stipendio, si lavora anche per trarne soddisfazione, e quale soddisfazione più grande di vedere ripagati i propri sforzi quotidiani, quel darsi da fare senza risparmiarsi, di giorno e di notte, con gente di ogni tipo, caratteri diversi, umori differenti, provenienti un po’ da ogni dove.

CAPITOLO XXV°

IL COLPO SEMPRE IN CANNA

Da quando era arrivato Robin il gineceo era in allarme.

Irriducibile donnaiolo, Robin si era subito adattato all’ambiente come il ‘cacio sui maccheroni’, non facendo altro che guardarsi intorno per vedere quali bellezze ospitasse Villa Pineta, fantasticando sulle possibili conquiste.

Ad Edgard, come agli altri rappresentanti del sesso forte, parve subito evidente come quel tipo fosse davvero un personaggio unico.

E così fu la volta di Maryantony, poi Laetizia, Alby, e per ultima Mary, che ascoltarono incredule le ‘succulente’ quanto indecenti proposte avanzate da Robin, sicuro che ognuna di loro avrebbe trascorso volentieri una notte con lui.

Presto Robin diventò l’argomento preferito del gineceo.

Le donne non sapevano se ridere o piangere al tempo stesso, perché da un lato la faccenda aveva tanto di comico da sbellicarsi dalle risa.

Robin era basso, tarchiato, sproporzionato, grasso ed ingombrante, in tutti i sensi.

Dall’altro la cosa era tragica, come poteva un simile esemplare della Teoria del Darwin aspirare a cotante ambite mète?

Le donne si confidarono il dubbio atroce che covava in ognuna di loro, forse l’obesità le aveva rese talmente sgraziate da doversi accontentare di un tipo del genere? Una realtà desolante.

Presto Robin fu soprannominato il tizio dal ‘colpo sempre in canna’, aveva osato persino chiedere il numero di telefono alla graziosa barista, appena trentenne.

Mery, secondo Robin, avrebbe dovuto ritenersi una privilegiata, perché le aveva proposto duecento euro in cambio di un incontro a ‘luci rosse’ in camera sua.

Mery decise di prenderci gusto a ridicolizzarlo e gli chiese con aria scandalizzata: “Ma come, solo duecento euro? Valgo così poco secondo te?”, e Robin con aria stupefatta: ” Allora dimmi tu, quanto vuoi?”, Mery, incredibilmente divertita aveva risposto sicura: “Cinquecento euro!”.

E sia, va bene, vieni a trovarmi in camera dopo pranzo, sono solo …e se è per me, guarda che io mi accontento anche di una ‘sveltina’”.

A quel punto Mery non resistette e scoppiò a ridere così forte che Robin le raccomandò impaurito: “Però, mi raccomando, che la cosa resti fra noi!”.

Edgard, che oramai era divenuto in qualche modo geloso di quelle che considerava le sue donne, aveva già capito tutto e sarebbe voluto intervenire, ma uno strano pudore, e la voglia di non immischiarsi in faccende altrui, l’avevano trattenuto.

Era nervoso, sentì la necessità di lisciarsi i capelli dietro, notò che gli si era allungata la ’zazzera’ e chiese a Maryantony di prestargli uno dei suoi elastici colorati col quale si fece un codino.

Sentì anche la necessità di cambiare aria ed andò al parcheggio ambulanze a fumare, stando molto attento come sempre a non farsi riprendere dalla telecamera.

Strano, da quando era arrivato in quella Clinica la sensazione di stare facendo qualcosa di riprovevole non l’aveva mai abbandonato, seppure non capiva il perchè temeva che qualcuno alle sue spalle si fosse avvicinato d’improvviso per rimproverarlo di qualcosa.

Due rimproveri in realtà se li era già presi, un medico dall’aria rispettabile e severa, barba e pizzo bianchi, gli aveva detto una sera uscendo dal poliambulatorio:” Qui si viene per smettere di fumare!”.

Una coppia di primo pomeriggio, uscendo dall’ingresso principale, lo aveva redarguito più o meno alla stessa maniera: “E’ meglio che lei smetta di fumare!”.

Tira un’ariaccia per me da queste parti” aveva pensato Edgard mortificatissimo e dolorante come se avesse preso tante bastonate.

Forse doveva rivedere qualcosa del suo passato, la Psicologa lo raccomandava sempre a tutti, ed Edgard ci rifletteva a lungo.

Anche quel pomeriggio, alla lezione di gruppo, era emerso che un cambiamento vero non può avvenire se non partendo dalla testa, non ci si poteva illudere di saltare questo passaggio, diceva Alexa, ed invitava ognuno a cercare dentro di sé, a scavare, perché solo in questo modo si può riuscire a rimodulare il proprio comportamento.

E quando Alexa parlava, Edgard era come ‘rapito’, tanto che conservava gelosamente un foglio, con degli spunti di riflessione, da consegnare alla Psicologa.

Non vedeva l’ora di studiare a casa, erano i suoi compiti, insieme alle ricette da imparare, i modi di cottura più salutari, i valori nutrizionali, i cibi sostitutivi, ecc …

Quante belle cose interessanti aveva imparato!

Tra il canto di un unico grillo e il latrare di alcuni cani, salutò la luna in terrazza e le poche stelle comparse intorno alle ventuno e trenta di quel giorno felice, poi si chiuse nel confessionale per continuare il suo romanzo, nell’attesa di un venerdì altrettanto interessante.

CAPITOLO XXVI°

I COMPAGNI DI MERENDE

Arrivò il sabato, alle otto e dieci Edgard, Robin, Peter, un anziano entrato da poco, ed il gineceo erano già alla cyclette.

Alby se n’era andata due giorni prima, lasciando un gran vuoto.

Era aperta, socievole, e quando occorreva anche un po’ mattacchiona, spesso faceva delle battute di spirito che a mensa si sbellicavano tutti dalle risate.

Trattandosi di una persona molto affidabile, dai modi materni e protettivi, ci si confidava volentieri con lei, che aveva sempre il consiglio giusto.

Quella mattina se n’era andata anche Charlotte, e tutti dovettero dire addio alle sue esibizioni, a quel melodioso canto che non si sarebbe più sparso nell’aria, donando alla Clinica un che di teatrale, nelle belle serate dopo la cena.

Quella mattina se ne sarebbe andata anche la Raffy, così mite e dolce da farsi rimpiangere anche lei.

Il gineceo si andava assottigliando, ma arrivavano nuove ospiti e la giostra ripartiva per nuovi giri.

Robin, Frank e l’amico inseparabile di entramb, alle sette in punto, erano già per il corridoio del quarto piano, davanti alla macchina distributrice del caffè.

Aspettavano speranzosi che Mery uscisse in vestaglia dalla sua camera e li salutasse.

La sera precedente c’era stata una scena che avrebbe avuto dell’incredibile, se non fosse stata vera.

Robin si era introdotto nella camera di Mery, insieme al suo amico ‘ambasciatore’ e latore di messaggi amorosi per suo conto, giurando che si era innamorato pazzamente di lei e voleva baciarla ad ogni costo.

Ci volle poco a capire che durante la loro fuga pomeridiana dalla Clinica non solo avevano mangiato formaggio, lonza e prosciutto a gogò, ma si erano bevuti abbondanti bicchieri di Lambrusco.

Non sapendo come toglierseli dai piedi Mery, restando sull’uscio della porta, li aveva baciati in fronte come si fa coi bimbi piccoli ed aveva augurato loro buonanotte.

Entrambi insistenti, non paghi dell’innocente bacino, avevano iniziato a proferire parole scurrili di una tale volgarità da far vergognare persino uno scaricatore di porto.

Mery, in preda alla disperazione, stava sperando che un regista sbucasse all’improvviso con una telecamera esordendo giulivo: “Siamo su SCHERZI A PARTE!!!”.

Invece era tutto tragicamente vero, non fece in tempo a pregare Iddio che arrivasse la sua compagna di camera per toglierla da quella incresciosa situazione, che questa entrò, fu così che entrambe chiusero la porta, si serrarono dentro e si salvarono.

Avendo assistito a tutta la scena Edgard si era vergognato di essere un rappresentante del sesso maschile, e la mattina dopo aveva chiesto a Mery perché non avesse suonato il campanello e chiesto aiuto alle infermiere o a lui.

Mery aveva risposto che sicuramente Robin, Frank e l’amico di ‘merende’, (che le ricordavano tanto il trio del mostro di Firenze, Vanni, Lotti e Pacciani), sarebbero stati dimessi e cacciati dalla Struttura, perché il fatto era gravissimo, non voleva far loro del male sino a quel punto.

E poi comunque la dottoressa Xenia presto avrebbe scoperto la loro fuga, vuoi che Livjen del servizio mensa non avrebbe raccontato che la sera precedente non avevano cenato perché sazi della lauta merenda-cena-abbuffata consumata al Ristorante?

Certo che qualcuno è proprio fuori di testa, pensò Edgard, e preferì chiudere quella parentesi che lo disturbava assai.

Fu la volta che verso le ore nove e trenta di quel sabato mattina egli si sottopose a nuova Spirometria, la quale dimostrò una capacità polmonare molto migliorata, e gongolò di contentezza.

Non respirava il fumo delle sigarette, ma era consapevole del danno procurato dal fumo passivo.

Si preparava ad affrontare una quarta domenica senza far nulla e completamente servito.

Non vedeva l’ora di completare il suo romanzo, nato quasi per caso poi trasformatosi in una piacevolissima narrazione di fatti e accadimenti aventi per protagonista il suo soggiorno a Villa Pineta.

Il top doveva arrivare nella mattinata di lunedì, perché avrebbe conosciuto il suo peso finale, chissà se e quanto aveva perso …ci rifletteva su impensierito.

Andò al piazzale antistante, e terminata la sua puzzolente sigaretta poggiato sulla staccionata che recintava il parcheggio, odorò l’aria dolce e leggera che gli penetrava nelle narici.

Un venticello leggero, affatto fastidioso come nei giorni precedenti, portava con sé il calore dei raggi del sole che splendevano radiosi nel bel cielo azzurro e senza nubi.

Mariselle andava avanti e indietro per fare le sue lavatrici, cercando di calcolare il tempo esatto entro cui sarebbero valsi i due euro in moneta che aveva infilato nell’apposita fessura.

Hellen, denominata ormai ‘la bella lavanderina che lava i fazzoletti’, era in camera sua a lavare le tute e le maglie, sempre col sottofondo dei cartoni animati che accompagnavano la sua spensierata giovinezza.

Alcuni sorseggiavano una tisana, altri prendevano il sole sotto il portico, altri guardavano la TV già alle undici di mattina, altri ancora s’intrattenevano coi parenti che avevano iniziato il viavai del fine settimana.

Molti spingevano il loro ‘carrozzino’ con l’ossigeno camminando avanti e indietro lungo i viali e disquisendo sui reciproci disturbi respiratori.

Edgard pensava osservandoli, che sua sorella lo aveva fatto ricoverare in quel luogo non per caso, avrebbe dovuto rimanere sufficientemente impressionato da quello spettacolo di malati più o meno gravi che sopravvivevano solo perché attaccati all’ossigeno, magari si sarebbe tolto il vizio del fumo.

Nel vicino negozio alimentare coloro che andavano via, poco prima acquistavano del ‘grana padano’ a basso costo, perché si era nella patria del parmigiano ‘reggiano’e non si poteva davvero rinunciare a quella squisitezza!

CAPITOLO XXVII°

ANCHE IL PIEDE VUOLE LA SUA PARTE

Domenica mattina, alle ore cinque e trentacinque, Edgard spalancò gli occhi come sempre e si scaraventò fuori dal letto tipo la molla rotta, con la consueta fame.

Si divorò la mela cotta con la cannella.

Andò alla terrazza, vide che il tempo prometteva bene e non faceva freddo, comunque si era buscato tosse ed il raffreddore il pomeriggio precedente per esporsi al sole, con il vento che soffiava da tutti i lati.

Attento come sempre a non svegliare il giovane compagno di stanza rimase fuori per parecchio tempo, poi percorse il lungo corridoio ed alla macchina prese il consueto mocaccino.

Tornò alla terrazza e vomitò tutto come gli accadeva spesso la mattina presto.

Ci era abituato, peccato per la mela, era così buona e aromatica…

Attese che l’inserviente portasse le tazze del caffellatte per reintrodursi in camera e rimettersi a letto.

Provò a riaddormentarsi e per un poco ci riuscì, almeno fin quando il tecnico Fabien non si mise nell’atrio antistante l’ascensore, limitrofo alla camera quattrocentocinque e quattrocentosei, per caricare le bombole di ossigeno.

Operazione che compiva tutte le mattine alla stessa ora, compresa di solito fra la distribuzione delle tazze e quella del caffellatte, che poteva oscillare tra le sette e trenta e le otto.

Un sibilo di gas che usciva a forte pressione da bomboloni grandissimi a meno dieci gradi di temperatura, entrava forzatamente negli appositi fori per fare il pieno, e man mano tutte le bombolette che sarebbero servite agli ospiti per respirare meglio, erano pronte.

Ognuno teneva la propria in un carrellino che somigliava a quello della spesa, il tubicino partiva dall’alto del coperchio ed arrivava a biforcarsi all’altezza delle narici.

Edgard si svegliò definitivamente, consumò la colazione puntuale alle otto, si lavò, si vestì e scese in sala ritrovo.

Qui si mise a lavorare al pc portatile che gli aveva consegnato il figlio durante la sua visita due settimane prima.

Era un po’ nostalgico del ‘confessionale’, in fondo gli aveva regalato momenti di massima intimità che lo avevano agevolato nella scrittura del suo romanzo.

Non mancò di scattare un po’ di foto qui e là, per portare via il ricordo vivo di quei giorni.

Alle nove e trenta era già pronto di picchetto davanti alla stanza della parrucchiera, da lì a dieci minuti avrebbe consumato il suo tempo per fare le pedicure con l’estetista.

La porta si aprì dopo dieci minuti esatti ed una simpatica donna magra, coi capelli rossi cosparsi di gel, di nome Patty, lo ricevette ed iniziò a mettergli i piedi a mollo in una bacinella, poi pian piano si mise ad eliminare i duroni.

I suoi piedi tornarono come quelli di un bambino piccolo, rosei e morbidi, teneri e profumati.

Al termine della prestazione la signora aveva chiesto quindici euro, che ad Edgard erano sembrati davvero pochi, perciò le lasciò volentieri una carta da venti, cinque euro di mancia se li era meritati.

Sollevato e leggerissimo Edgard si mise a camminare di nuovo lungo il corridoio per tornare al salone, dove avrebbe continuato la trama del suo romanzo.

Intanto il sole aveva fatto capolino fra le nuvole leggere e biancastre delle otto e mezzo, e le numerose sfumature di verde, dal più chiaro al più scuro, si vedevano contornare Villa Pineta come una splendida cornice per un quadro d’autore.

Finalmente scoccavano le ore undici, alle dodici il pranzo … chissà cosa avrebbe mangiato Edgard, non poteva ricordare da una settimana all’altra quali pasti avesse ordinato, ma era sicuramente un giorno come l’altro anche la domenica.

Gli passavano davanti le immagini domenicali di quelle lasagne al ragù che al forno facevano la besciamella incrostata, il pollo arrosto, le patate al forno …. ed era una sofferenza inaudita, ma questi pensieri erano proibiti, riprovevoli e da condannare, aveva sentenziato Edgard dal profondo dei suoi pensieri.

CAPITOLO XXIII°

LA VALIGIA

La domenica era passata con le numerose visite dei familiari, registrando un’affluenza particolarmente animata, soprattutto all’ora di pranzo.

I camerieri ebbero un bel da fare, spostandosi freneticamente da una sala all’altra per accontentare tutti.

La giornata continuò a trascorrere lenta, con un pomeriggio di pioggia fine ed il cielo uniformemente grigio.

Alle diciotto s’iniziava il conto alla rovescia, come sempre per la cena, e come sempre avevano tutti un grande appetito.

Al tavolo di Edgard si rise e si scherzò perché Robin, ‘colpo sempre in canna’, si era messo a raccontare le sue avventure di quando era in Marina.

Malato di protagonismo, Robin aveva necessità di esibirsi in uno show continuo, senza domandarsi se le cose che diceva potevano interessare o meno gli uditori, suo pubblico prediletto.

Finivano tutti con l’assecondarlo, magari si sarebbe azzittito prima del dovuto tempo di sfinimento.

Edgard la sera tornò presto in camera, si fece una bella doccia e si mise a letto lasciandosi indosso la maglia, per non prendere neanche una briciola di freddo, dato che gli attacchi di tosse si erano fatti più fitti e insistenti.

Indossò anche un foulard, colore viola lilla, che aveva acquistato al vicino alimentari, in fondo alla discesa.

Aveva speso poco, solo otto euro, ma si giudicava riprovevole e distratto perché a casa ne aveva a iosa di tutti i colori, almeno una quindicina, e non se ne era portato dietro neanche uno!

Cercò di prendere il più tardi possibile le gocce sedative per la tosse che gli aveva consegnato in un minuscolo bicchierino l’infermiera, e finalmente la mattina dopo, tranquillo e riposato, non si era svegliato alle cinque e trentacinque ma alle sei e venti.

Aspettò che l’inserviente portasse il caffellatte e mangiò contento, perché sapeva che di lì a due ore la dietista e la dottoressa Xenia l’avrebbero pesato e misurato.

Dopo la lezione Nutrizionale all’Auditorium, come sempre interessantissima, (ancora ricordava con quanto stupore avesse notato il cambiamento della ‘piramide’ rispetto a quello che aveva sempre letto e conosciuto, alla base non aveva la verdura, che si trovava al terzo posto, prima c’erano l’attività fisica e poi l’acqua ed i liquidi) si precipitò al piano terreno ed attese il suo turno per la ‘pesata’.

Quando la Dietista e la Dottoressa responsabile del percorso gli comunicarono che la quarta settimana aveva perso un chilo e quattrocento grammi e ben sei centimetri di circonferenza vita, spalancò gli occhi esterrefatto e con un’espressione incredula si lasciò scappare l’entusiasmante commento: “ Vi voglio tanto bene!”.

Avrebbe anche voluto abbracciarsele strette e baciarle, ma pensò che forse non era il caso.

Il fatto che in quella sede non venne consegnato il consueto tagliando per consumare il dolcetto della domenica rimarcava ad Edgard che non ci sarebbe stata più alcuna domenica, sarebbe finito tutto mercoledì undici maggio, alle ore tredici e trenta.

Un pizzico di nostalgia lo assalì, gli sfilarono davanti le immagini dei momenti più salienti del percorso Curativo, i paesaggi incantati, le albe e i tramonti, la luna e le stelle, le nuvole e il sole, il vento e la pioggia, ed infine quel giorno di neve immacolata che aveva ricoperto ogni cosa con la sua sottile coltre lucidissima e bianca.

Gli sarebbe piaciuto restare ancora tre mesi alla Clinica ma doveva rientrare a lavoro e non poteva permetterselo.

Iniziarono gli scambi di cellulari ed indirizzi e-mail dei compagni di ‘viaggio’, continuarono le risate, i racconti, le confidenze, le paure, i dubbi e le perplessità sul futuro espressi un po’ da tutti, ma il finale per Edgard era bellissimo.

Cosa porterà con sé nella valigia tornando a casa?”, gli aveva chiesto la Psicologa Alexa.

E lui senza esitare, aveva risposto che portava via con sé tante conoscenze sul come scegliere e cucinare i cibi, le numerose svariate ricette, il prezioso CD ricco di consigli e accorgimenti, e poi schede e tabelle importanti da studiare con cura e tenere sempre bene a mente.

Alla domanda: “Cosa lascia a Villa Pineta?” Edgard fu preso da leggero sgomento.

Mogio mogio rispose quasi con voce commossa: “Lascio il ricordo di un’esperienza bellissima, l’impressione viva di aver ricevuto un trattamento speciale da ognuno di voi, dal primo all’ultimo Operatore/trice, l’amicizia stretta con gli ospiti che hanno condiviso il percorso, questo panorama suggestivo che mi ha regalato un’atmosfera tranquilla ed una natura quieta, conducendomi per mano passo dopo passo, giorno dopo giorno, fino ad arrivare alla mèta insperata”.

Ed aveva anche pensato senza confidarlo:”Voi sarete tutti con me anche quando me ne sarò andato, continuerò a vedervi ed a vivere la vostra presenza, vi sentirò accanto e questo, sono certo, mi darà la forza per continuare la dieta, cambiare stile di vita, tornare ad essere un uomo di normali fattezze e non un obeso grave”.

Così si chiude la storia di Edgard, che domani andrà dalla parrucchiera e si taglierà il codino, dopo aver svolto tutte de attività previste dalla tabella di marcia.

Così scende il sipario sull’ultimo atto di una commedia durata quattro settimane, alla fine della quale ben quattro buchi della cinta dei pantaloni sono stati stretti.

Così finisce il romanzo di Villa Pineta, vera perla d’eccellenza per la competenza, l’appropriatezza, la serietà e la dedizione.

Grazie!