Il Ragazzo

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Il ragazzo fissa il suo riflesso opaco, combatte con lo specchio che si appanna, trattiene il respiro per troppo tempo, gli gira la testa.

Il viso è ancora infantile, gli occhi troppo grandi, l’espressione acerba di vita. Rifugge se stesso, è illuso da un mondo in eterna contraddizione, ma non gli importa.

Sta muovendo i primi passi in quella fase della vita in cui ci si allontana in punta di piedi dal proprio nido, segretamente spia la cameretta d’infanzia con l’occhio opaco del cuore.

Quella cameretta umida, macchiata di silenzio, i mobili dipinti con colori allegri e sbiaditi, velati di un’infanzia lontana, dimenticata. Le piccole crepe nel muro, allagate di malinconia, il soffitto bianco e severo. La pioggia che picchietta contro il vetro della finestra, pioggia che non perdona, acqua che non bagna. Vetro che non riflette.

Il ragazzo è ancora solo un ragazzo, ma il cuore è ubriaco di coraggio, e a lui serve quel coraggio. Il mondo è impavido, è troppo grande per guardarlo in faccia, si ingurgita quel coraggio e lo sputa lontano, un osso bianco e senza importanza, come un uomo.

Il ragazzo si è svegliato dal coma una settimana fa, non ricorda niente dell’incidente. Semplicemente, se ne sta lì a fissare il proprio riflesso, che non riconosce. Il volto è disseminato di lividi neri, ecchimosi gravide di sangue, croste che si staccano con lo sguardo. La sua anima è in revisione, sta aspettando un responso. Sapere cosa fare.

Il bagno dell’ospedale è deprimente, come la stanza, il letto, le lenzuola infeltrite, il camice a motivi bianchi e blu, sua madre che lo fissa addolorata, incredula. Una madre che lui non riconosce, a cui prova ad attribuire un ricordo senza riuscirci. Il coma è stato un lungo sonno, carico delle speranze altrui, delle preghiere, delle lacrime disperate. Per lui è stato solo un sonno, una parentesi tra la placca di ferro nella sua testa e il risveglio insperato nel mezzo di una mattina oleosa, ruvida come la strada, greve di pioggia sudicia.

<<Amore, stai bene?>>. La voce di sua madre, seduta sul letto, col suo soprabito grigio pieno di tarme, la solita borsa rovinata, che lei si tiene gelosamente accoccolata in grembo, come se contenesse tesori e segreti. E’ una vecchia borsa in poliestere, una fantasia a rombi che adesso è svanita con il peso degli anni, come lei, che si sta consumando, lenta e sconfitta. Sua madre ama quella borsa, la rammenda ogni volta che si rovina un pò di più, cuce i suoi pensieri nella fodera strappata.

Il ragazzo ancora parla a fatica, lo shock del risveglio ha reciso le parole, la mandibola è rotta, il naso fasciato. I centri del dolore sono attivi, sempre presenti, soffocano ogni sua sensazione ricordandogli che il dolore non si ignora, non si evita, ci si immerge completamente in lui cercando di vincere e domare le onde del suo mare, oppure annegando per sempre tra i suoi mulinelli impetuosi, implacabili. Confortevoli.

Il ragazzo esce dal bagno, spegne la luce sul suo riflesso distrutto dall’incidente, segnato dal destino. E’ inquieto, non riesce a mangiare, l’acqua ha un sapore amaro, ferruginoso. Gli sembra di bere sangue, lo stesso sangue che trabocca dalle sue ferite larghe, così amare e presenti.

Sua madre non distoglie lo sguardo, gli occhi allagati, il battito lontano. Lui non sopporta più quello sguardo doloroso e compassionevole, vorrebbe mandarla via, rimanere solo con il suo riflesso. Cerca il riflesso di sè stesso in qualunque oggetto a cui si aggrappi il suo sguardo rotto, la tazza bianca di ceramica appoggiata al comodino alla sua destra, lo schermo del televisore che pende dal muro come un mostro abbattuto, la superficie lucida dell’armadio bianco.

Sono venuti tanti amici a trovarlo, gli hanno dato vigorose pacche sulla schiena, abbracci confusi, altri sguardi ingoti, occhi che lui non riconosce più. Gli hanno detto , e ancora . Lui non ascolta.

Fa un cenno con la testa a sua madre, un assenso muto, e guarda fuori dalla finestra. Lo scenario è desolante, palazzi grigi e infiniti, pioggia che non cede al sole ormai da giorni.

Abbassa lo sguardo, ha un piccolo tatuaggio sull’avambraccio sinistro. Ci sono ancora piccoli granelli di asfalto nero conficcati nella pelle, gli hanno assicurato che con il laser potranno toglierli. A lui non importa niente di questo. Il tatuaggio è coperto da una ecchimosi scura, che quasi lo ricopre interamente. Un piccolo fiore di loto, e nel centro, una lettera, una M in maiuscolo. Gli hanno spiegato che quella M è l’iniziale di un nome, un nome importante di cui lui non sa assolutamente più niente. L’archivio nella sua mente è corrotto, danneggiato irrimediabilmente.

Proprio come tutto il resto.

Un segno inciso nella pelle, più potente delle ferite che il destino ha inferto al suo corpo, alla sua faccia. Guariranno, gliel’hanno assicurato. Ma quel tatuaggio è lì, quella lettera campeggia sul suo avambraccio come una lapide mutilata. Inchiostro nero, onesto, a suo modo gentile. Inchiostro dell’anima.

Gli ha detto sua madre, la voce spezzata dal pianto, gli occhi venati di un dolore cieco e indimenticabile. Lui non ha detto niente, è rimasto a fissare il tatuaggio con espressione assente. immutata. Questo è successo appena tre giorni prima, e lui non ha fatto che pensare a quel nome, a quella piccola lettera impressa negli strati più profondi della sua epidermide.

Melissa.. Stava in macchina con me, quel giorno. Dove sta adesso? Non ha il coraggio di chiederlo, non vuole saperne niente. Ha detto a sua madre che non vuole più ricevere visite, vuole rimanere ad attendere in quel limbo bianco, la sua stanza d’ospedale.

Sua madre non si arrende al suo essersi arreso. Sua madre è una madre, è il corpo in cui l’ha concepito, è il guscio che l’ha ospitato. E’ ciò che gli ha dato la vita, anche adesso mentre la guarda sfregarsi le mani, preoccupata, capisce che lui è tutto per lei. Eppure a lui non importa niente, adesso.

La notte pensa solo a Melissa, un fantasma che nella sua mente ha modellato a suo piacimento, a sua immagine e somiglianza, aggiungendo qualche tocco di perfezione. Melissa è perfetta, lui non sa niente di lei, ha costruito il loro universo in base alla sola cosa che ha di lei, il suo nome. Nessuno gli ha detto niente, forse credono che non reggerebbe il colpo. Melissa continua a esistere solo nel suo inconscio buio e denso come la pece, colmo di un trauma terribile. Il ragazzo questo lo intuisce, ma non vuole conferme, gli basta sapere quell’unico nome per coltivare le fragili radici di ciò che resta della sua vita.

Dato che la mandibola rotta gli impedisce di parlare correttamente, scrive un biglietto a sua madre. Scrive con rabbia, la penna rossa che quasi strappa il foglio su cui scrive, maledice ogni parola, si libera di tutto.

“Aspetto di vivere, o di morire ancora. Non voglio vedere nessuno, mamma, se non il mio riflesso. Non lo riconosco, ma è l’unica cosa che mi fa sentire ancora vivo”.

Lascia il biglietto sul comodino, sua madre lo legge tirando su col naso, corre ad abbracciarlo, lo scuote piano per rimettergli l’anima a posto ma non ci riesce.

Il ragazzo vive nel suo limbo bianco, ed è tutto ciò di cui ha bisogno. Melissa gli tiene compagnia nelle notti senza sonno, se la immagina diversa ogni volta. Vorrebbe dirle di venire a salvarlo, vorrebbe lui salvare lei.

Invece, il ragazzo sa che deve salvare se stesso. Sa che lei ha già dato tutta se stessa per salvare lui.

Lui si trascina fino alla finestra, di nuovo, la apre. Si lancia nel vuoto, libera sè stesso dalla prigione bianca, sottile. Spezza la membrana flebile in cui il suo cuore vaga confuso, si libra in aria e vola in alto, vicino al sole.