Rosa fresca aulentissima, parte terza

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Rosa fresca aulentissima, parte terza


Magna Curia di Federico II, Palermo. Mattino soleggiato, brezza marina che spira dal mare. Il giullare della corte imperiale e la leggiadra fanciulla si sono rimessi a sedere sulla panchina del verdeggiante giardino della corte imperiale. Lei ascolta pazientemente le avances del corteggiatore, senza battere ciglio. Lui si fa sempre più insistente, perché sa che l’esito finale non è per niente scontato. Sì, la battaglia amorosa è in pieno svolgimento.

Prosegue Rosa fresca aulentissima, il più famoso ‘contrasto’ mai scritto. Da Cielo d’Alcamo, prestigioso membro della Scuola Siciliana.

Giullare (deciso):

“Dunque vorresti, vítama, ca per te fosse strutto?
Se morto essere débboci od intagliato tutto,
di quaci non mi mòssera se non ai’ de lo frutto
lo quale stäo ne lo tuo jardino:
disïolo la sera e lo matino”.

Fanciulla (beffarda):

“Di quel frutto non àbbero conti né cabalieri;
molto lo disïarono marchesi e justizieri,
avere no’nde pòttero: gíro’nde molto feri.
Intendi bene ciò che bolio dire?
Men’este di mill’onze lo tuo abere”.

Giullare (serio):

“Molti so’ li garofani, ma non che salma ’nd’ài:
bella, non dispregiàremi s’avanti non m’assai.
Se vento è in proda e gírasi e giungeti a le prai,
arimembrare t’ao este parole,
ca dentr’a ’sta animella assai mi dole”.

Fanciulla (illusa):

“Macara se dolésseti che cadesse angosciato:
la gente ci corressoro da traverso e da’llato;
tutt’a meve dicessono: ‘Acorri esto malnato!’
Non ti degnara porgere la mano
per quanto avere ha ’l papa e lo sodano”.

Giullare (sarcastico):

“Deo lo volesse, vitama, te fosse morto in casa!
L’arma n’anderia cònsola, ca dí e notte pantasa.
La jente ti chiamarono: ‘Oi perjura malvasa,
c’ha’ morto l’omo in càsata, traíta!’
Sanz’onni colpo lèvimi la vita”.

Fanciulla (intimidatoria):

“Se tu no levi e va’tine co la maladizione,
li frati miei ti trovano dentro chissa magione.
(…) be’llo mi soffero pèrdinci la persone,
ca meve se’ venuto a sormonare;
parente néd amico non t’ha aitare”.

Giullare (sinceramente):

“A meve non aítano amici né parenti:
istrani’ mi so’, càrama, enfra esta bona jente.
Or fa un anno, vítama, che ’ntrata mi se’ ’n mente.
Di canno ti vististi lo maiuto,
bella, da quello jorno so’ feruto”.

Fanciulla (dura):

“Di tanno ’namoràstiti, tu Iuda lo lo traíto,
como se fosse porpore, iscarlato o sciamito?
S’a le Vangele júrimi che mi si’ a marito,
avere me non pòter’a esto monno:
avanti in mare jíttomi al perfonno”.


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