Sono ormai molti anni che amo il Maestro.
Ne apprezzo la vivissima intelligenza, il gusto per la parola, l’abilità di costruire storie.
Ma stimo soprattutto l’uomo, al di là delle sue abilità letterarie.
Lui è inconsapevole di questi miei sentimenti, o meglio: mi riconosce nel novero dei suoi estimatori, quelli che al cospetto di una libreria non resistono al richiamo della copertina ruvida blu.
Lui non ha mai saputo della mia devozione, e qualche giorno fa è partito per il suo viaggio verso l’infinito.
Non ero al cimitero cattolico di Roma, ma l’ho salutato a modo mio, accarezzando lentamente le copertine dei suoi libri.
Qualcuno, mi pare una regista teatrale, ha detto che di lui mancherà la voce, quel suono gutturale e arrochito dal fumo, e dentro me risuonano le ultime parole che di lui ho ascoltato: “Chiamatemi Tiresia”.
Proprio quella voce ho risentito in sogno qualche notte fa, quando dal regno di Morfeo il Maestro mi ha portato una storia.
E’ una narrazione che fonde accenti diversi, e trova un equilibrio nello scambio di conoscenza che rivela la parità e la comunanza tra gli esseri umani.
Eustachio Savoldi è figlio della bassa padana, di quei luoghi in cui l’inverno è ottenebrato dai fumi di nebbia che salgono dai canali e confondono il viaggiatore distratto.
L’ estate è un mare di messi bionde, gonfia dell’odore umido del mais acerbo, in cui sfolgorano dorate nel sole e nell’afa le distese di orzo e di grano, interrotte qua e là dall’impennata di un gelso o di un pioppo.
Qui Eustachio ha trascorso l’intera esistenza, a parte una parentesi di qualche anno nel capoluogo della Madonnina, dove ha formato il suo spirito e la sua conoscenza alla facoltà di lettere antiche.
Figlio unico di proprietari terrieri, non ha mai lavorato un giorno nella vita, potendo contare su una cospicua rendita perpetua, frutto degli affari del padre e degli avi prima di lui.
Convolato a nozze con Onorina, dolce e mite figlia del fattore, gode per pochi anni della sua gentilezza.
Troppo presto una malattia scellerata se la porta via lasciandogli Dorotea, dieci anni. Dori ama i numeri, snocciola cifre, calcola e ragiona.
Per Eustachio il mondo dei numeri è inconcepibile, non la capisce quella figlia. E’ il nonno materno a comprendere da subito le abilità della nipote ed indirizzare i suoi studi.
Giovanissima, Dori si laurea cum laude in economia presso la prestigiosa “Bocconi” e poi fa una di quelle cose che da sempre spiazzano il padre: migra “al contrario”con un viaggio verso il sud, e lì in poco tempo diventa amministratore delegato di una multinazionale.
Dori vive lontana dal padre, che trascorre i suoi anni tra le letture, lo studio e le passeggiate nella tenuta.
Nel corso del tempo cambiano molte cose. Il nonno fattore muore, e Dori sceglie un nuovo fattore.
Eustachio rimane con la suocera che raggiunto il novantesimo anno se ne va serenamente in una notte di dicembre.
Il dottor Savoldi rimane solo nella tenuta, la sua vista si fa ogni giorno più flebile, le gambe reggono poco un busto che, già imponente, si è ulteriormente appesantito.
Il nuovo fattore informa Dori che il medico è preoccupato per la salute di Eustachio, il quale fiero e indipendente nega fino allo spasimo di avere bisogno di aiuto: nessun risultato.
Non l’ha mai scampata con quella figlia che sembra avere sangue austroungarico nelle vene!
Efficiente e precisa, Dori organizza il trasferimento del padre nel villino che ha acquistato vicino ad Agrigento, una casa fronte mare che lei ama, ma che vive poco a causa del lavoro.
Nella conduzione domestica le è di supporto Nanda Vaccaro, quarantacinquina, maritata con Lele e madre orgogliosa di quattro bedde fimmine, anche se Lele ha sempre sperato nel masculo.
Appena sbarcato in Sicilia, Eustachio che non ha proferito parola per tutto il viaggio esclama: “Vecio, orp e rimabmbit, e ades ma toca nà a stà en mes ai baluba”.
Non ha occhi per la splendida spiaggia, né le sue orecchie sanno udire il dolce mormorio della risacca, non giunge alle sue narici l’effluvio del mare.
Entra nella caa e va a posizionarsi nello studio che Dori ha amorevolmente allestito per lui.
Da qui esce solo per recarsi in bagno, in camera da letto, o in cucina per consumare i pasti.
Nenti passiate ripa ripa, nessun contatto con gli indigeni, tranne che con Nanda che si occupa di puliziare la casa e dei suoi pasti quando Dori non c’è.
A sera Nanda torna a casa sua, dove l’attendono Lele e la giovane Agatì, la figlia nica, ormai quindicina.
Lele è un uomo soddisfatto: è padrone del suo piccolo podere, poca cosa, ma con l’aiuto di Nanda ha sempre potuto sotenere la sua famiglia.
La coppia ha quattrro figlie, belle e brave.
Tutte le loro figlie sono andate a scola, anche se i cumpari l’hanno sempre sconsigliato perché si sa che la fimmina studiata non ha amuri per la casa.
Quindi Lele si fa un punto d’orgoglio per quelle sue figghie, con il segreto rimpianto di non aver fatto il masculo.
La sola figghia che nu poco lo preoccupa è Agatì.
Gli è venuta stramma sta criatura, come se si fosse mischiato il seme d’avanzo delle altre tre.
Capelli nivuri e spissi, che si potrebbe fare filo da pesca, come quelli della primogenita Lisina, maritata in Germania con un compaesano, felice madre di due gemelle e titolare di una bottega.
Lisina tiene i capelli longhi, lisci e curati.
In quelli di Agatì non passa il pettine, e allora li porta sempre legati o raccolti, perché Lele non vuole in casa fimmine con capelli da masculo, quindi non si parla proprio di forbici.
Le labbra di Agatì sono come quelle di sua sora Annuzza, piene e colore di fragula. La vucca di Annuzza si apre su un sorriso bellissimo che fa girare la testa a li ommini per strata, ma lei modesta e seria non si è mai avveduta di quelle taliate, e du anni fa è andata in sposa ad un collega dell’ufficio postale.
Annuzza tiene una figghia che ha chiamato Raffaella in onori del nonno, che sarebbe Raffaele, ma tutti chiamano Lele.
Quando rapre la vucca Agatì però spuntano du denti da cunigghiu, che è meglio se non ride mai.
E poi i piedi di Agatì: nichi nichi, come quelli di Tanina. E’ alta e snella Tanina, con i capelli biunni come la nonna, retaggio d’eredità normanna.
Quei piedini, i giappunisi manco li avrebbero dovuti fasciare.
Sta in città la terza figlia, con lo sposo ingignere, e anche lei sarà mamma a breve.
Il quarto nepote, Lele spera sia masculo.
I piedi di Agatì nichi nichi stanno però alla fine di du gamme corte corte grosse come palluni.
Eppoi è mutanghera Agatì. Parla picca e nente.
Delle sue figlie è quella che a scola è andata meno, molto poco in verità.
Sta sempre sola, ma è una picciotta di buona lena, capace nel lavoro di casa e nei campi.
A volte Lele pensa che sia il suo masculo mancato, quella destinata ad occuparsi dei genitori quando saranno vecchi.
Vero è che Agatì non dà altre preoccupazioni che quel suo silenzio e quella solitudine. Trascorrono i mesi ed Eustacchio non muta le sue abituni claustrali.
E’ maggio, e il colore del mare muta ogni giorno.
La pilaja si estende fino a perdita d’occhio, il sole dora le dune sabbiose e porta nuova luce negli anfratti della costa.
Di tutto ciò Eustacchio non vede nulla.
Le sue conversazioni con Nanda non vanno oltre il “bonjorno” e “bonasira”.
Dori rientra spesso a tarda sera, e si premura di non fargli mancare nulla.
Lui però si sente prigioniero in terra straniera e quella Nanda, brava per carità, e cucina anche bene, ma a volte gli torna in mente il sapore dei grignos con l’ai che gli preparava la suocera, el spet dei giorni di festa, la polenta taragna e addirittura la panada. Si, gli mancano i suoi cibi padani.
A casa Vaccaro c’è un calendario su cui le donne di casa segnano da sempre i oro periodi. Se ne occupa Nanda, per tacito accordo.
Una mattina Agatì riferisce alla madre che sono arrivati i jorni.
Nanda prende il calendario. Ormai segna solo per lei e Agatì, ma qualcosa non quadra: comincia a contare e si rende conto che da du mesi non segna crocette per sé. Subito pensa con un velo di tristezza che il suo tempo è finito, poi si consola all’idea che ora ci sono le sue figghie a darle nuove criature.
Con il passare dei jorni però la schifa l’odore del pane, non sopporta il sciauri del pisci, come le altre volte.
Allora vadal dutturi e scopre che il suo tempo non è finito, anzi comincia una nuova vita.
Vorrebbe aspettare a parlarne a casa, ma il dutturi le dice che una gravidanza a quarantacinque anni, dopo quattro parti, non è cosa da prendere alla leggira.
Ha da riposare. In effetti si sente stanca, le gamme già pesanti, le minne doloranti. Bisogna dirlo a casa, ma soprattuto che fare con il dottor Savoldi?
Dori conta su di lei!
All’annuncio a casa Lele è commosso e ovviamente speranzoso. Agatì è contenta per mammà, e inaspettatamente si propone di occuparsi di Eustachio al suo posto. Madre e figlia aspettano Dori una sera e spiegano la situazione.
Dori si complimenta, e quella ragazza silenziosa che profuma di buon sapone le fa subito simpatia.
Resta però la questione più spinosa, perchè ad Eustacchio non piacciono i cambiamenti.
La prima volta che Agatì entra nel sancta santorum di Eustachio, non può trattenersi ed esclama “Bedda Matre”alla vista dei quasi tremila volumi che occupano tre lati della stanza, dal pavimento al soffitto.
Eustachio è contrariato, ma anche incuriosito.
Rimasti soli chiede alla ragazza se sa leggere “Si Vossia, so liggere e scrivere, mi hanno imparato le mi sore”.
Al che Eustacchio sbotta e la sua voce roboante spaventa un po’ la ragazza:
“Anema de cartù! Si dice mi hanno insegnato, non mi hanno imparato. Ma che lingua parlate voi baluba! E poi perché le tue sorelle? Non sei andata a scuola?”
“Picca e nenti Vossia, la scola non è cosa mia. Li maestri stavano al massimo na mesata, poi li chiamavano al nord. E noi si ricominciava daccapo. Eppoi le compagne dicevano cose vastase del diretturi”
“ Vastase vuol dire maleducate, sconce? E cosa dicevano?”
“ Che se mi matre era jentile e aveva du belle minne ero promossa sicuro. Allora io risposi che mammà era jentile e aveva sì du belle minne e loro principiarono a ridere e darsi di gomito. Poi a casa lo dissi a mi sora Lisina che adesso sta in Germania e lei mi spiegò. Io mi virgognai assà e a scola nun ci andai cchiu”.
Mentre Eustachio ascolta Agatì gli succede una cosa strana: la voce di quella ragazza ha un andamento cadenzato, piacevole, un’insita armonia. Quasi nemmeno ha capito ciò che lei ha raccontato. Era occupato ad ascoltare quel suono.
Allora chiede alla ragazza di scegliere un libro e leggere per lui.
“ Quale libro Dottò? Ce ne sono assà”
“Quello che vuoi, sceglilo per il titolo, o per la copertina, qualsiasi cosa”
Agatì è attratta da una copertina di pelle rossa. E’ una copia de “Il gattopardo” “Scelgo questo Dottò, il Gattopardo. Me piacciono le storie de animali”
Eustachio prorompe nella prima risata di gusto da molti mesi a quella parte.
Nella sua libreria ci sono gli autori siciliani che ha iniziato a leggere quando Dori si è trasferita. Voleva capire in qulche modo cosa ci trovasse la figlia in quell’isola infestata da pirati di ogni razza.
Eustachio spiega a d Agatì che i soli animali di quel romanzo sono gli uomini e si mette in posizione di ascolto.
Il sole è ormai al tramonto, e per Agatì è tempo di accomiatarsi.
Con mammà a riposo toccano a lei le facenne di casa, e la cena per Lele che torna dai campi, più stanco ora che non c’è lei ad aiutarlo.
Esutachio si alza dalla poltrona e Agatì si rende conto che è un gigante, e che potrebbe mangiarla in un solo buccuni. Ma l’uomo non ha intenzioni malevole. Sta scegliendo dallo scaffale le novelle di Verga, piccolo compito di lettura per la sera, in attesa che Agatì legga il giorno dopo ad alta voce.
Agatì torna a casa, e a cena parla e parla, tanto che i genitori sono strammiati da quel cangiamento.
Dopo aver rassettato casa Agatì, invece di stare nel portico a mirare il cielo come fa sempre nella bella stagione, si ritira nella sua stanza e fa conoscenza con Rosso Malpelo.
Non resiste ai dolori di quella criatura e piagne caude lagrime, attenta a non imbrattare il libro. E’ un caruso della sua Sicilia, ma lei nenti sa di solfatare. Quante cose ignora la piccola Agatì!
Ogni giorno Agatì pulisce la casa di Dori, che già è linda, cucina per Eustachio e lo intrattiene insegnandoli i nomi delle pietanze che appronta per lui: caponatina, pasta ncasciata, sarde a beccafico, sfinciuni, arancini, purpeddi.
Eustachio mangia di gusto e sembra aver dimenticato i suoi cibi del nord.
Le ore del riposo pomeridiano dell’uomo sono sostituite dalle letture ad alta voce di Agatì.
Lei apprende e lui segue il filo dei pensieri cullato dalla voce soave della ragazza.
La vera svolta arriva a fine giugno, in un pomeriggio soleggiato e ventoso, seguito ad una notte di temporale.
Eustachio decide di uscire in jardino, e Agatì prontamente l’accontenta, allestendo per lui uno spazio nella parte più fresca del grande spazio esterno, non facendo mancare frutta e acqua.
Verso metà luglio Eustachio chiede di scendere alla pilaja.
Agatì aiutata da Lele allestisce una struttura che il dutturi chiama “gazebo”.
Dori fornisce poltrone da esterni e un tavolino.
Prendono l’abitudine di mettersi lì nelle ore fresche del mattino.
La gente che passa talvolta si ferma ad ascoltare, incuriosita da quell’uomo e dalla ragazza che legge per lui.
Pescatori, turisti, jente di passaggio, tutti hanno voglia di scangire du chiacchieri e Eustachio impara la generosità degli isolani che lo omaggiono di frutti, verdure, pisci.
Espressioni lombarde si fondono con il dolce accento del sud, ed Eustachio scopre un nuovo mondo, ascolta i racconti dei passanti che si fermano a condividere una merenda improvvisata.
Alla fine del jorno l’ombroso longobardo si corica sereno, riposa come non faceva da anni, le finestre aperte ad ascoltare la risacca, solo suono nella notte serena, o il rombo delle onde quando la burrasca profuma l’aria e il vento porta fino a lui effluvi sconosciuti.
Agatì non trascura le due case, la sua e quella di Dori, ma fa tutto con altro spirito: sa che finito di sistemare leggerà per il dutturi e imparerà nuove cose, popolando il suo mondo interiore.
A dicembre mammà finisce i suoi jorni. Da du mesate si alza picca dal letto. Le sue gamme sono enormi e il dutturi dice che questo figghio dovrà partorirlo allo spetali. Tutto è pronto: i mesi a letto hanno fatto ricamare a Nanda un corredo per un reggimento, la baligia è sulla sedia, pronta per lo spitali.
Tutte le sere Lele posiziona l’auto sul viale, pronta per la partenza, in modo tale che se capitasse di notte il mezzo è già sulla strata.
E di notte accade: Lele sveglia Agatì, mammà è pronta. Tutto va bene, il parto avviene in modo regolare e il 15 dicembre vede la luce il primo (e a parere di Nanda anche l’ultimo) mascuolo di casa Vaccaro.
Agatì si sente di colpo crisciuta, ora il piccolo di casa è il fratellino. Chiede ai genitori di potergli dare lei il nome.
Lo pensa da mesi, da quando lesse ad Eustachio un libro che ancora la fa sognare avventure bellissime.
L’incipit del libro è “Chiamatemi Ismaele”
Scritto in Pineta di Cevo 23 luglio 2019
Alla sempriterna memoria del Maestro