Ciò che m’incontra, ne la mente more

"Questo sonetto si divide in due parti”, specifica Dante (Vita Nuova, XV)

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Ciò che m’incontra, ne la mente more,
quand’i’ vegno a veder voi, bella gioia;
e quand’io vi son presso, i’ sento Amore
che dice: “Fuggi, se ’l perir t’è noia”.

Lo viso mostra lo color del core,
che, tramortendo, ovunque pò s’appoia;
e per la ebrietà del gran tremore
le pietre par che gridin: Moia, moia.

Peccato face chi allora mi vide,
se l’alma sbigottita non conforta,
sol dimostrando che di me li doglia,
per la pietà, che ’l vostro gabbo ancide,
la qual si cria ne la vista morta
de li occhi, c’hanno di lor morte voglia.

“Questo sonetto si divide in due parti”, specifica Dante (Vita Nuova, XV): “ne la prima dico la cagione per che non mi tengo di gire presso di questa donna; ne la seconda dico quello che mi diviene per andare presso di lei; e comincia questa parte quivi: e quandʼio vi son presso.

E anche si divide questa seconda parte in cinque”, proseguirà il poeta, “secondo cinque narrazioni: che ne la prima dico quello che Amore, consigliato da la ragione, mi dice quando le sono presso; ne la seconda manifesto lo stato del cuore per essemplo del viso; ne la terza dico sì come onne sicurtade mi viene meno; ne la quarta dico che pecca quelli che non mostra pietà di me, acciò che mi sarebbe alcuno conforto; ne lʼultima dico perché altri doverebbe avere pietà, e ciò è per la pietosa vista che ne li occhi mi giugne; la quale vista pietosa è distrutta, cioè non pare altrui, per lo gabbare di questa donna, lo quale trae a sua simile operazione coloro che forse vederebbero questa pietà.

La seconda parte comincia quivi: Lo viso mostra; la terza quivi: e per la ebrietà; la quarta: Peccato face; la quinta: per la pietà”.


Carlo Rocchi