Considerazioni sulla stroncatura e sulla querelle

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C’è una forma di scrittura pungente e arguta, dal taglio (spesso) umoristico e satirico, che nei secoli dei secoli è venuta a mancare sempre più nei suoi luoghi deputati (giornali e riviste specializzate), e che ha una funzione importantissima ai fini della critica militante e all’educazione alla lettura. Sto parlando, naturalmente, della stroncatura.

Il suo scopo primario è quello di spiegare al pubblico lo scarso (o inesistente) valore di un’opera. La sua seconda funzione è quella di stimolare l’artista a “fare meglio”. La terza è quella di indirizzare il fruitore a una scelta nel maremagnum del mercato librario.

Ebbene, tutti quanti ci ricordiamo le sublimi stroncature del passato, in ambito letterario, scritte da persone più o meno illustri, che con stile e ingegno, hanno lasciato ai posteri una serie di scritti in prosa considerati minori rispetto ai loro capolavori, ma non per questo non degni di nota.

Ed ecco allora rimembrare Giovanni Boine, scrittore e critico d’inizio secolo, che nella sua rubrica “Plausi e botte” chiosò la recensione alla raccolta poetica della Guglielminetti con tono beffardo: “E vuol ora, signorina, passarmi il suo indirizzo?”. E che dire del Baretti, che dietro lo pseudonimo di Aristarco Scannabue si mosse contro il “mal gusto”, il “perfido costume” e la “vigliaccheria” dei letterati italiani e delle sue istituzioni, come per esempio l’accademia dell’Arcadia e i suoi rappresentanti, a cominciare da Giambattista Felice Zappi, definito in tal guisa: “Il Zappi poi, il mio lezioso, il mio galante, il mio inzuccheratissimo Zappi, è il poeta favorito di tutte le nobili damigelle che si fanno spose, che tutte lo leggono un mese prima e un mese dopo le nozze loro. Il nome del Zappi galleggerà un gran tempo su quel fiume di Lete, e non s’affonderà sintanto che non cessa in Italia il gusto della poesia eunuca. Oh, cari que’ suoi smascolinati sonetti, pargoletti piccinini, mollemente femminini, tutti pieni d’amorini!”.

Non dimentichiamoci di Carducci, il vate, che sparò a zero su molti suoi contemporanei: sulla novella in versi Edmenegarda di Giovanni Prati sentenziò “da ver puttanesca”; sulla poesia del Tarchetti scrisse freddamente “Il Tarchetti visse povero, e morì giovane. Me ne duole […]. Ma per ciò devo dire che quella robetta è poesia?”; sullo Zendrini calcò la mano (per via di una serie di botta e risposta tra i due) scrivendo che “non aveva la forza muscolare e la pienezza sanguigna pari alla mobilità nervosa; onde la sproporzione quasi continua nell’opera sua tra l’intenzione e l’atto, tra il volere e l’operare, tra l’idea e la forma. […] Voleva mostrare gentilezza di affetti, e dava in smancerie: voleva riuscire spiritoso, ed erano smorfie: voleva osare una sprezzatura o di pensiero o di stile, e gli scappava uno scarabocchio: voleva provocare i rischi dell’arte, e dava un tuffo nel grottesco e nello sgarbato.”; su Emilio Praga utilizzò lo schema comparatista, cioè quello di mettere l’uno contro l’altro gli scrittori: “L’originalità del Praga! Sì certo, il Praga ebbe una originalità, ma non quella che dite voi. Avete letto Vittore Hugo, Heine, Baudelaire? Ma quello che voi nelle poesie del Praga proclamate di più era già nell’Hugo, nell’Heine, nel Baudelaire.”. La lista è lunghissima, tanto quanto la sua opera omnia.

Dopo questo piccolo tuffo nel passato, ecco riemerge una domanda: Perché la stroncatura è quasi scomparsa dalla circolazione?  Forse perché questo mondo, così meschino e menzognero, poggia su favori e cortesie? Forse perché il detto “una mano lava l’altra…” è l’unica moneta di scambio? Oppure perché siamo diventati tutti così fragili, così suscettibili, così permalosi, da non percepire neanche l’ironia (quando essa è presente) e l’arguzia, quel misto di intelligenza, spirito e ingegno che gli inglesi chiamano wit? Chi lo sa, certo è che l’insicurezza o il timore di pronunciarsi a sfavore di qualcuno, sta diventando un male incurabile, e i pochi che ancora osano sono messi al bando, isolati e vituperati, come i lebbrosi perseguitati.

E dalla stroncatura alla querelle il passo è breve. In un mondo politically correct come quello attuale, ove la battuta, l’allusione, il doppio senso osceno e lo humor nero sono considerati ridondanti e volgari, assolutamente esecrabili, ecco fare capolino con irruenza e sempreverde la schermaglia, la lite, la tenzone tra personaggi famosi (nel campo dell’arte, dello sport, del giornalismo e della politica). Menomale direi; altrimenti che noia. E nel mondo letterario se ne sono viste di tutti i colori; altroché salotti e buona educazione; anche lì, la rissa non è venuta a mancare. Senza andar troppo indietro comincerei da quel Pietro Aretino, detto il “flagello divino”, che a furia di scrivere contro l’uno e contro l’altro rimediò una bella coltellata; e non solo, litigò furiosamente con il suo pupillo Niccolò Franco, prima scacciandolo dalla sua dimora, poi facendolo aggredire e sfregiare da un suo servitore. Di tutta risposta, il Franco, scrisse dei sonetti al vetriolo contro il suo ex padrone e maestro.

Senza patire alcuna violenza fisica, ma con toni non meno accesi, è il caso di Pietro Giordani, in riferimento ad una iniziativa dell’editore Stella, circa la pubblicazione di una collana di poeti dialettali milanesi. Egli scrisse un articolo poco lusinghiero sui dialetti italiani, da lui considerati “tutti inetti anzi nocivi alla civiltà e all’onore della nazione”. A rispondere pan per focaccia ci pensò Carlo Porta, uno dei maggiori poeti dialettali italiani, che con piglio sarcastico prese per il naso il letterato attraverso alcuni sonetti in dialetto meneghino vivacemente polemici.

Per non parlare degli innumerevoli epiteti rivolti al poeta veneziano Giorgio Baffo (“il nostro porco patrizio”, divulgatore di una “satira sozza e laida, che di oscene cose fa spicco puzzolente”, oppure in versi “quel sì succido, e sporco / del postribolo vil scrittore osceno”), per via dei suoi sonetti erotici e di quella poesia definita “barona”, di cui lui era il massimo esponente.

Anche in questa sede il novero dei diverbi è interminabile, piena di sfaccettature, come la natura umana ci insegna. Di certo, tra la stroncatura e la querelle vi è una sottile linea di demarcazione, quasi impercettibile, e spesso e volentieri una precede l’altra, intrecciandosi inevitabilmente. Ma mentre l’alterco continua a regnare sovrano, la stroncatura fatica a respirare, a sopravvivere.

Poco male, tanto la Storia non si può cancellare, così come il diletto nella lettura di tali espressioni e giudizi, e i candidi risolini all’ombra dell’invettiva.