Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta …

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Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta – Di Carlo Rocchi

Tre fiere impediscono al Sommo Poeta di riprendere il cammino verso la redenzione, dopo che, con estrema fatica, egli è riuscito finalmente a scrollarsi di dosso le tenebre brumose della selva del peccato e del dolore – che tutti incontriamo nel mezzo del cammin di nostra vita. Dapprima una lonza si pone davanti ai suoi occhi, quasi al cominciar de l’erta di un colle, proprio nel punto terminale del folto della selva, mentre sta guardando la sommità e vede i declivi illuminati dalla radiosa luce del sole. La bestia, agile e molto veloce, nonché ricoperta da una pelliccia screziata, non si allontana dal suo cospetto, anzi tanto impedisce il suo cammino, che egli si trova spesso sul punto d’indietreggiare.

Ma l’ora mattutina e il tiepido clima della primavera non gli danno motivo di temere eccessivamente questa apparizione improvvisa, anche se la posa statuaria di un leone colpisce la sua attenzione.

Così deve riconoscere che la comparsa di questa seconda fiera, malgrado l’ora e il clima favorevoli, gli incute timore. Egli rimane colpito dall’atteggiamento altero e famelico della bestia feroce, a tal punto che perfino l’aria attorno trema per ciò.
Ma sarà una lupa magrissima e irrequieta – la terza fiera che segue alle prime due – a inquietare maggiormente il nostro viandante, tanto che gli fa pensare che non possa più raggiungere la salvezza definitiva sulla cima del dilettoso colle. Questa, peraltro, a differenza delle prime due, non si limita a sbarrargli il cammino, ma, incalzandolo, lo spinge a poco a poco a tornare verso la selva.

Fin qui l’interessante significato letterale.

Ma a noi preme indagare piuttosto su quello simbolico – figurale, di certo più intrigante. Nei primi commentatori della Commedia è possibile registrare un’unità d’intenti nell’assimilare le tre fiere ai tre vizi capitali, rispettivamente la lussuria, la superbia e la cupidigia – associazione che, peraltro, lo stesso Dante ribadisce nel Purgatorio, canto 20^, vv. 10-12, quando inveisce contro la lupa, simbolo dell’avarizia, peccato di cui si parla in quel canto.
Nei tempi a noi più vicini, invece, le interpretazioni si sono succedute a tamburo battente: i commentatori moderni, infatti, si sono sbizzarriti a dire la loro su una questione che aveva resistito all’assalto del tempo.

Ma ne riporteremo soltanto un paio, per non tediare più del necessario il nostro fedele lettore.

Dunque la prima vuole le tre fiere assurgere a simbolo delle tre faville di cui parla Ciacco nel canto 6^ dell’Inferno, v.75 – in tal caso la lonza essendo l’allegoria dell’invidia, e tutto ciò suffragato dalle parole spese sui Fiorentini: “gente avara, invidiosa e superba” da parte di Brunetto Latini nel canto 15^, v.68, della stessa cantica. L’altra, di stampo più propriamente politico-morale, vuole la lonza come simbolo di Firenze, nel leone del casato reale di Francia e nella lupa della Curia romana.
Tuttavia – antichi e moderni saranno almeno concordi in ciò – le tre ferie raffigurano vizi che accompagnano da sempre l’essere umano, i quali, oltre a indirizzare oltre misura le sue azioni, costituiscono un ostacolo per una convivenza civile degna di tal nome.

A prescindere quali essi siano: lussuria, superbia, cupidigia o invidia, sulla loro estrema attualità, credo, nessuno possa dubitare.

Su dantepertutti.com del 10.5.2016

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta – Di Carlo Rocchi