Frammenti d’assurdo

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Frammenti d’assurdo


Come ogni mattina lo svegliò il cellulare sulla mensola, alla sua sinistra: le sei e tre quarti. Come ogni mattina il pensiero del suo squallido monolocale lo avvilì. Un anno fa era stato a un passo dall’altare e adesso era solo come un cane. Ironia della sorte aveva un gatto a fargli compagnia. Provava un’indefinita svogliatezza e un leggero senso di nausea. Tra poco in ufficio ci sarebbe stata una pesantissima riunione sul bilancio di fine anno e lui era nell’elenco dei relatori. Il suo intervento era il quinto della mattinata. Voci di corridoio mormoravano di licenziamenti, declassamenti e trasferimenti. Allungò la mano, zittì il telefono e come uno zombie si trascinò alla porta del bagno. – Occupato – si sentì rispondere. Provò ad aprire ma era inchiavato. Troppo assonnato perfino per pensare, si accovacciò a sbirciare dalla serratura.

Dallo spiraglio lasciato libero dalla chiave intravvide una persona identica a lui intenta a farsi la barba davanti allo specchio.

Una leggera bruma imperversava nella notte senza luna. Intorno tutto taceva. Solo buio pesto. Non era un uomo per fortuna. Nemmeno un cane. Ma quegli occhi e quelle zanne non erano di questo mondo. Acquattato dietro un cespuglio cercavo di scorgere tra gli alberi il minimo movimento. Nulla. Non si muoveva foglia. Nemmeno un alito di vento. Un silenzio immobile e innaturale. A una ventina di metri la mia Alfa ridotta ad un groviglio di lamiere, col fumo bianco che ancora usciva dal cofano.

D’improvviso un sibilo dietro di me.

L’autobus si era quasi del tutto svuotato. La maggior parte erano scesi alla fermata precedente, quella della scuola. Marco osservava dal finestrino i suoi compagni che come un esercito di soldatini armati di zainetto cartelle e album da disegno marciavano verso il fronte delle quotidiane interrogazioni e dei compiti in classe. La giornata però era troppo bella per sprecarla, e quindi lui e Andrea si erano sentiti il giorno prima e avevano deciso di passare la mattinata al mare. Marco e Andrea erano da sempre compagni di banco, dalle medie fino ad ora, nella quinta ginnasio del liceo Tasso.

Erano tanto più amici quanto più diversi. Forse era proprio quella la forza della loro amicizia.

Marco uno studente modello, otto in tutte le materie indifferentemente, anche se lui preferiva quelle umanistiche; Andrea invece era il classico bulletto scavezzacollo con tutti quattro/cinque, più amante delle scorribande in motorino, delle bravate coi compagni o delle spacconate con le compagne. Già alle nove del mattino il sole splendeva alto e picchiava abbastanza. Marco gettò un’occhiata al suo zaino, dove invece di libri e quaderni aveva asciugamano, pallone e crema solare. Tra un’ oretta sarebbe arrivato alla spiaggia e avrebbe trovato ad aspettarlo il sorriso beffardo di Andrea con la sua Vespa bianca. Era bella quella sensazione di trasgressione, quella botta di straordinario in una giornata altrimenti deprimente e pallosa come tutte le altre.

Marco sorrise mentre cullava questi pensieri all’andatura soporifera del vecchio autobus arancione.

D’un tratto si sentì un po’ in colpa perché di lì a poco lui sarebbe stato promosso, mentre il suo compagno Andrea di sicuro non sarebbe andato al liceo. D’improvviso un gatto rosso catturò la sua attenzione. Era accovacciato ad una fermata di fianco a tre bambine cinesi, una signora più anziana, forse la madre e un signore distinto, in giacca cravatta occhiali scuri pizzetto e ventiquattro ore, un rappresentante, un uomo d’affari o qualcosa di simile. Quel gatto sembrava guardarlo. Un bel gattone tigrato rosso con gli occhi verdi. L’autobus era filato via senza il minimo rallentamento, nessuno aveva fatto cenno al conducente di dover salire. Le quattro persone erano rimaste completamente immobili, sembravano quasi statue di cera, impassibili e assenti.

Gli occhi del gatto in confronto sprizzavano una potente vitalità. Marco si infastidì e distolse il viso dal finestrino.

L’autobus si fermò e scesero tutti. Marco rimase solo. Un’occhiata all’orologio: le nove e un quarto. L’autobus riprese la sua corsa e Marco si rimise a guadare fuori. Il tempo era cambiato di colpo, non c’era più il bel sole di prima, si era fatto molto nuvoloso. Strano. Marco guardò in direzione dell’autista come a chiedergli spiegazioni, ma dal suo posto non poteva nemmeno vederne il riflesso sul retrovisore. Per quel che ne sapeva l’autobus avrebbe potuto anche muoversi da solo, spinto dalla stessa energia oscura e misteriosa che aveva guastato quella splendida mattinata estiva rendendola cupa e uggiosa come una di fine novembre. Era inquieto, non vedeva l’ora di raggiungere Andrea. L’autobus superò un’altra fermata a tutta velocità. Sotto la pensilina nessuno.

L’autobus sembrava andare sempre più veloce e superava solo fermate deserte.

Erano le nove e mezza, gli sembrò che il tempo si fosse dilatato, non si ricordava tutte quelle fermate in soli venti minuti. Ecco un’altra fermata: l’autobus al solito proseguì imperterrito ma con la coda dell’occhio Marco scorse un bagliore verde in un gomitolo rosso. Possibile fosse quel gatto? Dopo qualche istante lo vide distintamente, accovacciato su un muro in pietra vicino ad un grande cancello in ferro battuto. Lo vide per tempo e mentre l’autobus si avvicinava lui e il gatto si guadavano.

Per tutto il tempo che l’autobus si avvicinò al gatto e finché lo superò i loro sguardi si incontrarono.

Dopo qualche minuto l’autobus si fermò. Marco guardò fuori ma non c’era nessuno. Sulla panca sotto la pensilina solo cartacce e una bottiglia vuota, una fermata fantasma come tutte quelle di prima. L’autobus non ripartiva. Dall’abitacolo dell’autista non giungeva segno di vita. All’improvviso qualcosa di rossiccio sgattaiolò dentro. La porta si chiuse e il gatto balzò sul posto vuoto di fronte a Marco. Il ragazzo e il felino si guardavano negli occhi in silenzio. Il gatto leggeva paura e sgomento in quelli di Marco. Marco invece notò con sollievo che gli occhi smeraldo del gatto si erano fatti d’un tratto benevoli e sornioni. – Non vai a scuola oggi? – chiese il micio.

Da lassù vedeva un pullulare caotico di luci, puntini scuri e piccoli rettangoli.

Se fosse stato giorno probabilmente avrebbe suscitato più clamore: i puntini scuri si sarebbero raccolti in cerchi, ovali, sarebbe sbucato un megafono; i piccoli rettangoli avrebbero smesso di fare avanti e indietro. La notte gli infondeva quiete, e questo lo aiutava. Bruno voleva andarsene in silenzio come aveva vissuto. Nessun rimpianto, la lettera avrebbe spiegato a Chiara, la moglie, che lei non c’entrava, non era colpa sua, non importava se quella volta l’idraulico era forse un po’ troppo imbarazzato; assolutamente non c’entrava il fatto che non lei non potesse avere bambini. Forse la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata la sfuriata del suo capo-ufficio, il giorno prima. Gli aveva dato dell’incapace, dell’ignorante, del fannullone.

Ma cosa gliene fregava poi?

In fondo quel lavoro non gli piaceva nemmeno…ma forse anche questa era solo una delle mille ragioni. E’ inutile adesso chiedersi cosa passi per la mente di un suicida, credo sia uno dei misteri dell’universo, al pari dell’evolversi delle galassie, dei buchi neri e dell’esistenza di Dio. Fatto stava che aveva deciso di farla finita. La molla scattò, l’interruttore accese la scintilla. Dalla matassa intricatissima di miliardi di sinapsi partì l’impulso che disse alle sue gambe di staccarsi dal terrazzo. Teneva gli occhi chiusi, la sua mente era leggera come non si sarebbe mai immaginato. Ad un tratto fu come se il vento divenisse impetuoso e si levasse una tempesta; d’istinto spalancò gli occhi e si accorse che aveva smesso di precipitare. Respirò lentamente per calmare l’agitazione dello stupore e volò per qualche metro. Si fermò un attimo e guardò giù.

Non era cambiato nulla, ma tutta quella frenesia gli appariva adesso vuota e sciocca.

Poi capì: guardò in alto e vide la luna. Mai così vicina. Mai così bella. Mai così luminosa. Luminosa e illuminante: la vita adesso aveva tutto un altro sapore, per la prima volta gli parve avere senso. Volò di nuovo per qualche metro, rapidissimamente prendeva sempre più confidenza con la sua nuova abilità. Dopo qualche minuto già poteva volare per centinaia di metri, dopo un’ora di esercizio non aveva più nulla da imparare. E volava, volava velocissimo, scendeva in picchiata, si divertiva a schivare i tralicci elettrici, faceva piroette, evoluzioni e acrobazie. Ogni tanto indugiava qualche istante alle finestre dei piani più alti e osservava una tranquilla cena in famiglia o una furibonda lite fra innamorati o la solitudine di tizi qualunque sprofondati sul divano davanti alla televisione.

Ad un certo punto si accorse che dal terrazzo di un edificio poco distante qualcuno gli faceva dei segnali con una torcia.

Volò più vicino e sentì distintamente lo sconosciuto intimargli di smetterla e di scendere. Planò sul terrazzone con troppa veemenza, era ancora alle prime armi dopotutto, per poco non urtò l’altro uomo. – Cavolo atterrare è molto più difficile che volare… – Non appena fu coi piedi per terra l’altro gli si avventò contro e lo prese per il bavero della camicia – Ma sei matto ?! Cos’hai in testa, così ti farai ammazzare! Basta, scendi, possono vederti…- Hai visto, posso volare!!!…so volare, volo!!! – Bruno parlava da solo, era fuori di sé dalla felicità e non si curò affatto del tono e della rabbia del suo interlocutore – Incredibile…non è possibile…aspetta…forse è un sogno… – L’altro gli diede un sonoro schiaffo in faccia. Bruno rimase interdetto, ma almeno adesso sapeva che non era un sogno. –

Ma che cazzo fai, sei scemo? Perché mi hai colpito?!…E poi chi sei, perché hai chiamato?! Mi chiami per picchiarmi??!

– Ascoltami bene – iniziò l’altro in tono grave – ho visto che voli, lo so che voli. Anche io so volare e come me altri possono farlo. Siamo quasi quattrocento ormai. Ci siamo riuniti in una nostra comunità. Io l’ho scoperto tre mesi fa. Volevi suicidarti vero? Io mi gettai proprio da questo palazzo, ho perso tutto giocando in borsa. Anche volendo però, per fortuna o sfiga che sia, la vita non sono riuscito a perderla. I nostri scienziati sanno per ora che accade a quelli come noi che si gettano nel vuoto col chiaro intento di uccidersi. Non funziona se cadi per sbaglio dal balcone, da un’impalcatura o da una finestra, mentre giochi o sei distratto o fai lavori e pulizie; non succede nemmeno se non ti si apre il paracadute: devi suicidarti. Non abbiamo ancora scoperto un particolare gene o caratteristica fisico/biologica che ne sia responsabile.

Non dipende né dal sesso né dall’età né dalla razza. Con ogni probabilità rientra in quel 90% di cervello che normalmente non si usa. Ma il brutto è che lo sanno anche loro.

– Loro chi? – chiese Bruno. – Parlo di quelli dell’area 51, dell’alternativa 3, degli esperimenti per il controllo climatico, dei viaggi temporali. Scommetto che non ci hai mai creduto, quasi nessuno ci crede, è quello che vogliono; fanno di tutto per far passare queste cose come cialtronerie, fantascienza o favolette, diffondendo forum e blog in rete e promuovendo ridicoli programmi televisivi. Invece è tutto vero. Rifletti un attimo: prima di stasera avresti mai creduto che gli uomini potessero volare? – Bruno trasalì. Quell’uomo aveva colto nel segno. Lo sconosciuto continuò – Immagina se si venisse a sapere: le compagnie aeree fallirebbero, non si venderebbero più né auto né moto, non ci sarebbe più bisogno della benzina, del petrolio. Adesso tengono il mondo per le palle. Se ti scoprono ti ammazzano. Non vogliono perdere il loro potere e i loro miliardi.

Ti fanno fuori senza pensarci un secondo.

Sai quanti amici ho visto uccidere…loro possono tutto e non temono niente, per loro non c’è né legge né giustizia, sono al di fuori e al di sopra di tutto e tutti. Si tratta di un’organizzazione paramilitare segretissima, una sessantina di persone in tutto il mondo. – Dopo quella spiegazione Bruno, visibilmente scioccato si mise a sedere a terra e si prese la testa fra le mani. Era decisamente troppo tutto in una volta. Lo sconosciuto fece una pausa, un lungo respiro e gli disse con tono pacato – Da stasera tu per tutti sei morto. Non puoi più tornare alla solita vita. – E chi la vuole… è proprio per quello che volevo ammazzarmi…- sorrise Bruno. – Eh già, questo è uno dei lati positivi della faccenda… – rispose lo sconosciuto tendendogli la mano e issandolo in piedi. – Andiamo dai, ti porto dagli altri –

Bruno annuì, si alzarono in volo e scomparvero nella notte.

Non riusciva proprio a concentrarsi. La giornata piovosa al di là dei finestroni non aiutava. Fissava sul monitor il report in excel ma da venti minuti non faceva un clic. Era molto arrabbiato. In ufficio erano giorni difficili. Un caos di telefonate a raffica, conference call, non si poteva rimanere su un lavoro per più di cinque minuti di fila. Il genere di cose che mettono profondamente in crisi quelli col suo carattere. Faceva vagabondare lo sguardo sulla scrivania: l’evidenziatore arancione, un mucchio di graffette, il suo cellulare con sopra la penna, il portafoglio di pelle nera, i post-it rosa, un calendario 2011 di una ditta sconosciuta, una cartellina di plastica rossa, un giornale di annunci vari.

Poco più in là il solito sacchetto di plastica con dentro il pranzo microondabile, lo spazzolino, il dentifricio, la forchetta e un frutto.

Ogni giorno si portava dietro sempre lo stesso sacchetto. Forse era meglio fare una pausa. Si, ci voleva proprio uno stacco. Come un automa prese verso il bar all’angolo a poche decine di metri dall’ufficio, il solito in cui andava tutte le mattine più o meno a quell’ora in compagnia di tre o quattro colleghi. Stavolta però era solo. Pioveva forte ma non se ne curava. Il giubbotto aveva il cappuccio ma l’aveva lasciato abbassato. A capo chino e con lo sguardo spento contava lungo il tragitto le cicche di sigaretta, le cartacce, le bottiglie e le altre schifezze gettate per strada. Alzò la testa solo per entrare nel bar.

Gli sembrò che tutti smettessero di fare le loro cose per mettersi a fissarlo.

Indugiò un attimo sull’uscio e sentì salire alla testa un getto di rabbia caldo. Il suo sguardo era furioso, avrebbe voluto incenerire tutti quegli stronzi con i loro cornetti bloccati a mezz’aria e la loro spregevole espressione ebete. Ordinò con tono sprezzante cappuccino e bombolone. Che giornata di merda! Tutte a lui erano capitate: l’imbecille in macchina che gli era stato sotto il culo per un’ora lampeggiando e strombazzando e che poi l’aveva sverniciato col dito medio fuori dal finestrino; quel mezzo scemo all’edicola che urlava come un ossesso inveendo non si sa bene contro chi o cosa; per finire, ciliegina sulla torta, quel commento pesantissimo del suo capo riguardo una relazione da lui consegnata giorni prima.

Centellinò il cappuccino e mangiò il bombolone a piccoli morsi, in silenzio.

Ogni tanto qualche rivoletto di crema gli cadeva sui jeans. Ma a lui non importava. In testa aveva un ronzio continuo e non riusciva a pensare a nulla che lo distogliesse dalla rabbia. Gli balenarono alla mente i fucili da caccia di suo zio, in garage. Sapeva usarli e sapeva dov’erano le chiavi della rastrelliera: sotto il vaso dei gerani. Sulla parete di fronte campeggiava una grande fotografia di una spiaggia tropicale, con un mare cristallino, un cielo così azzurro da sembrare finto, finissima sabbia bianca e una gigantesca palma proprio al margine sinistro. Sotto la palma si intravvedeva un’amaca con sopra un ragazzo biondo di spalle che si godeva beatamente un mojito.

Due tre settimane prima magari avrebbe invidiato quel ragazzo e desiderato di essere su quell’isola a prendere il sole e correre dietro alle ragazze.

C’erano stati momenti in cui l’azzurro di quel cielo e di quel mare da favola sarebbero potuti essere intollerabili. Ora non più. Adesso era troppo tardi. Aveva superato quel confine. La foto non evocava nulla in lui, lo lasciava del tutto indifferente. Era come guardare il muro vuoto. Gettò un’occhiata all’orologio: era ora di tornare al lavoro, non voleva altre ramanzine. Mentre rientrava con la coda dell’occhio si accorse del barista che si sbracciava e urlava frasi sconnesse, qualcosa con “…gare…conto…pezzente…ladro”. Avvertì una strana sensazione. Di colpo non riconobbe più la lingua in cui si esprimeva . Eppure prima al bar l’aveva sentito discutere di calcio, di auto, di programmi TV e ne seguiva perfettamente i discorsi, i suoi e quelli di tutti gli altri stronzi che lo fissavano e ce l’avevano con lui.

Concluse che il barista avesse cambiato nazionalità e non gli diede peso. Succede a volte.

Vai dal salumiere giù all’angolo, ordini salsicce e costarelle in italiano e lui te le serve apostrofandoti in ungherese. Un collega gli aveva raccontato che ad un suo amico era successa proprio la stessa cosa. Non poteva preoccuparsi anche di quello, aveva cose urgenti da fare lui, doveva lavorare, office, excel, presentazioni powerpoint; veloce, forza, che arriva la scadenza e se no niente paga e niente promozione. Almeno l’ufficio era silenzioso quella mattina, aveva bisogno di concentrarsi e di solito sembrava di stare al mercato. Di questo era grato ai colleghi, perché lo capivano, capivano la delicatezza del periodo che stava attraversando e si sforzavano di non fare casino, per lasciarlo quieto a lavorare in pace.

Per questo rivolse a tutti quelli che incrociava larghi sorrisi e cenni di saluto.

Nessuno li ricambiò. Strano, pensò, prima sono gentili e stanno in silenzio, poi fanno gli stronzi e non salutano. Forse allora sono tutti stronzi. Anche i suoi colleghi sono stronzi come la gente al bar. La gente che lo fissava. Ce l’avevano con lui. Magari i colleghi fingevano di essere gentili ma alle sue spalle tramavano con gli avventori del bar. Ecco perché lo fissavano. Chissà cosa avevano detto di lui i colleghi: delle volte che indugiava troppo al bagno, di quando era inciampato e aveva rovesciato una risma di fogli per stampante, o di quando parcheggiando aveva sbattuto contro i bidoni della spazzatura e aveva visto dalla vetrata che tutti dentro l’ufficio lo additavano e ridevano.

Ma lui non se l’era mai presa. Aveva sempre abbozzato, fatto buon viso a cattivo gioco, come si dice.

Ad ogni modo non era il caso di prendersela. Non valeva la pena farsi il sangue amaro, d’altronde era sempre stata una persona molto equilibrata. Riprese posto alla sua scrivania, questa volta deciso a terminare con successo il lavoro lasciato in sospeso. Via, rimboccarsi le maniche e pedalare! Una penna, non trovava più la sua, gli serviva una penna. Ah, eccola, che sbadato: l’aveva conficcata nel collo del suo vicino di scrivania. La estrasse di scatto e il sangue zampillò copioso, schizzandogli in faccia e sul monitor. Ne leccò un po’ che gli colava dalla guancia e con la mano cercò di pulire il monitor. Ma lo schermo era nero. Non c’era più il verde di excel, con le tabelle e i grafici a torta. Guardò il case per terra, di fianco alla sedia e si accorse che il cavo dell’alimentazione era staccato.

Non l’aveva staccato lui.

O forse non se ne ricordava. Ma il computer l’aveva acceso quella mattina? Di nuovo lo assalì quel vago senso di stordimento che aveva avvertito quando il barista aveva cambiato nazionalità. Trasalì al frastuono delle sirene rosse e blu e dello stridere di pneumatici. Non poteva lavorare in quelle condizioni. Pazienza, avrebbe recuperato l’indomani. Sistemò meticolosamente gli oggetti sulla scrivania, accostò per bene la sedia e raccolse il suo sacchetto di plastica. Un’ultima occhiata prima di tornare a casa. L’ufficio era splendidamente silenzioso. I corpi erano disposti in maniera appropriata: le sagome si abbinavano perfettamente all’arredamento, per nulla turbando le invisibili geometrie del suo sublime disegno. Ne era soddisfatto. Sospirò e chiuse la porta dietro di sé.


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