I palloncini dell’Africa

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Marrakech, la Medina, un giorno di aprile.

Una leggera e sottile pioggia fatica a bagnare le strettoie del Suq dove si levano penetranti odori.

Disposto nella parte settentrionale della Piazza Jamaa el Fna al suo interno spadroneggiano i colori delle arance, dei bouquet di erbe, si elevano gli odori dei tajines, degli spiedini, delle insalate marocchine, del cuscus alle sette verdure. È un labirinto quasi inestricabile di vie piene di bancarelle su cui trovano posto vestiti, spezie, oggetti di artigianato esposti da tintori, cestai, ciabattai, maestri artigiani.

Il mercanteggiare è portato all’ennesima potenza tra una tazza di tè alla menta (nanà) e un msemmen (tipico pane marocchino).

Non chiederne il costo ti convinceranno che di quel manufatto non potrai farne a meno.

Non accettare il primo prezzo, mercanteggiando alla marocchina riuscirai a fartelo vendere per un terzo della cifra iniziale.

A conclusione della contrattazione non credere di aver fatto un affare perché questo resterà prerogativa del venditore nonostante la tua apparente soddisfazione.

Non avere fretta.

Non guardare negli occhi le donne velate che incontrerai per i vicoli.

Non abbasseranno lo sguardo.

Ti faranno sentire scrutato.

Scrutato finirai tu per abbassarlo.

Non dare l’idea di non sapere dove andare.

Non ti sarai perso nemmeno quando sarai convinto di questo.

Ti sarai perso quando sarai convinto di sapere esattamente dove andare.

Più insistente si è fatta la pioggia.

Si è accumulata acqua tra le strettoie del Suq.

Se possibile ancora più penetranti si levano gli odori.

Brusco su tutti si innalza il cumino.

Sovrasta la curcuma, lo zenzero, la cannella, il pepe nero.

Nonostante sia solo aprile, la temperatura mite esalta le note a minor volatilità, rendendo labili le note più leggere.

Non mi sono consueti quegli odori eppure riattivano ricordi, sollecitano sensi, recuperano emozioni.

Cammino evitando le buche.

È acqua e fango.

Per riuscirci davvero devo tenere gli occhi bassi.

Svolto imboccando un vicoletto.

Non so dove andare, dunque, non mi sono persa.

O forse sì.

Che importa continuo a camminare.

Alzo lo sguardo richiamata dal baccagliare festoso di bambini.

Sono in quattro.

Più o meno dai tre agli otto anni, in tutto sono convinta non fanno una maggiore età.

I vestiti leggeri sono umidi di pioggia.

Sorridono.

I più piccoli non camminano, saltellano per tenere il passo.

Sorrido anch’io.

Ho dei giocattoli nello zaino.

Mi fermo e glieli offro cominciando dalla più grande.

Distribuisco in tutto un astuccio di colori glitterati, due palline di gomma morbida, una confezione di palloncini da gonfiare.

Pochi istanti per capire che è un regalo. Che non voglio niente in cambio.

Bambini che conoscono il senso del dono.

Dare, ricevere, restituire.

Il legame sociale in pochi attimi.

Continuo a camminare non prima di una carezza presuntuosa.

Pacchiana, aveva la pretesa di asciugare la pioggia dal viso di uno di loro.

«Merci madame… merci beaucoup… merci madame!»

La bambina che sembra guidare l’allegra brigata tra un merci e l’altro prova a far capire anche alla compagnia ciò a cui lei è già arrivata. Gli altri tre bambini la guardano continuando a sottoporre alla sua attenzione i doni.

«Merci beaucoup, madame…», alle parole si uniscono ora anche cerimoniosi cenni del capo.

È emulazione degli adulti. È spontaneità tenera e goffa.  È l’allegria dei bambini.

Ad uno ad uno comprendono.

L’ultimo è il più piccolo. Due occhi scuri che si stralunano.  Un’esclamazione di stupore.

Un balzo e poi un’altro.

Di incontenibile vivacità si accompagna la sua consapevolezza.

È un merci di gruppo che epura lo sbalordimento.

È gratitudine sincera. È meraviglia per i miei occhi. È bellezza allo stato puro.

Mi giro per un’ultima occhiata.

Il bambino più piccolo saltella piroettando.

Avvicina le labbra alla confezione di palloncini. Non è ancora tempo di gonfiarli.

Semplicemente li bacia.