Il cielo di Sukkot

224

TOMISLAV OSMANLI

Il tiepido vento primaverile portava freschezza e relax. Nina guardava il tramonto sospeso sull’immenso e quasi infinito spazio dell’orizzonte respirando a pieni polmoni. Il sole si era appena nascosto sotto l’orizzonte basso dipinto in un ricco misсuglio di pastelli nuvolosi. Che giorno è oggi, gli passa un pensiero per la testa mentre tenta di sopprimerlo, sprofondando lo sguardo nel cielo serale sempre più profondo, dove impercettibilmente cominciavano ad accendersi le lampade notturne. Nina si fissa in volto, decisa, tanti anni dopo l’infanzia, di seguire di nuovo il tranquillo accendersi delle stelle. In questo modo lavoravano i suoi pensieri, considerando che lei non amava la notte. Si lamentava per il giorno passato? Chi lo sa? Comunque, il giorno era già finito, questa era l’unica cosa certa. Dove mi trovo, una pianura, una vallata, un campo? Nina cambiava il corso dei suoi pensieri.

Il vento portava con se l’odore delle piante che la intorpidiscono. ”Primavera è il tempo per l’amore” gli passava per la testa e senza volerlo il pensiero scappava verso il passato.

Pian-piano si avvicina Dean, la cui camicia puzzava intensamente dell’armadio dove sua madre aveva messo il basilico fresco. Stavano proprio dietro ad un albero d’acero, in quel giorno della scampagnata quando un primo bacio gli aveva portato l’odore ed il gusto delle piante mai assaggiate.

Adesso si ritrovava con gli occhi aperti, con le labbra preparate per un altro bacio, accennando col capo come se volesse fermare il ritmo veloce dei pensieri. Si sforza di non pensare, se ne resta sola con lo sguardo fissato sul volto stellare, che già si scopriva nella sua piena ricchezza notturna. Non si era accorta che le stelle si fossero accese. Fu ingannata nuovamente dai pensieri.

Ed intanto il suo sguardo sprofondava sul volto oscuro sciacquato dalle stelle. Pian-piano i suoi polsi rallentavano i battiti. Poi parte un altro pensiero: “Il cielo di Sukkot”.

E mio padre, dove è mio padre? Che giorno è oggi? “Il cielo di Sukkot è uguale a quello passato” conclude mentre si sforzava con la stessa determinazione di cacciare via le solite domande, scoprendo che era molto meglio pensare alla passata celebrazione della Festa delle capanne, quando nel giardino, insieme a suo padre, festeggiavano la memoria di Mosè, ed il quarantesimo anniversario di vagabondaggio verso la Terra promessa, quando mangiavano per otto giorni e bevevano nella loro sukah, che di solito costruiva nel giardino di casa insieme ai suoi fratelli minori, ma l’ultima volta l’aveva fatta da sola.

Davanti ai suoi occhi vedeva il volto di suo padre.

Era un uomo molto silenzioso e, a differenza di lei, molto alto, con una fronte espressiva, la guardava attraverso gli occhiali con il suo sguardo mansueto color oliva, imprecisato. Sulla fronte si mostravano meno rughe che inquietudini, ma non dava l’impressione di essere più giovane, perché portava una lunga barba che gli donava l’espressione di un rabbino. Benché fosse un semplice sarto di abiti di moda occidentale era molto stimato sul mercato cittadino. Godeva in città maggiore autorità dello stesso rabbino. Lo amava, non solo perché era suo padre, ma anche perché dopo la morte della madre quattro anni prima, si era completamente dedicato a lei e ai due fratelli minori.

Nina lo amava perché sentiva che lui si sforzava per non privare ai suoi tre figli le pagine serene dell’ infanzia e della gioventù.

Aveva tollerato i maschi nella loro astuzia, ma anche le ripetute pipi a letto notturne del fratello minore, a cui ridendo cambiava le mutandine, scherzando e sforzandosi di far ridere anche lui. Riguardo a lei, la stimolava a stare più spesso con i ragazzi della sua età, a fare scampagnate con i compagni di scuola, dandole i soldi ogni volta che ne avesse bisogno per andare a fare le visite, a vedere delle manifestazioni o diversi spettacoli, facendo finta di non capire nulla sulle feste mattutine in cui andava ogni tanto, a seguito di suggerimenti dalla sua migliore amica RebeKa.

Lo amava poiché lasciava loro nella gioa, mentre si portava dentro di se, nel suo studio, tutte le inquietudini e la solitudine.

Lei capiva questo e lo bisamiava solo con uno sguardo. Lo amava perché gli piaceva parlare con lei su tutto, lo amava perché sentiva fortissimo in quanta misura gli mancava la madre, sentendosi come se stesse soffocando le emozioni che uscivano solo sotto forma di temporanei incoscienti sospiri. Nell’ultimo periodo Nina era diventata testimone del suo umore instabile, talvolta di una perdizione dei pensieri ed inquietudini che conosceva solo lui, e che lo facevano più agitato, talvolta più chiacchierone, ma in ogni caso sempre di più irrequieto.

Ora lo osservava, appena tornata da casa di Rebeka. Era così robusto e con le spalle rivolte verso di lei. Era seduto nella capanna con il giornale aperto nelle mani, ridendo sotto il lume debole dalla lampada a gasoline accanto a lui, mentre in lontananza iniziavano ad illuminarsi le prime stelle. Immerso nella lettura del giornale non aveva sentito i suoi passi. Per la prima volta gli sembrò invecchiato.

“Papa, sono tornata” diceva tranquillamente Nina.

Mosce salutò per mostrare che aveva notato il suo arrivo. Fece una risata e con il giornale nelle mani, rispose direttamente:

“Leggo il giornale e non posso crederci. Nessuno in questo mondo ha imparato Nulla. Dico lo stesso anche al rabbino. Gli dico: Thora, rabi, si scriverà di nuovo…e lui mi guarda solamente imbarazzato.”

Da qualche parte si sente una voce di un’annunciatore alla radio. Si sente una risata forte da una porta vicina. Qualcuno si sforza di cantare un canto in giudeo-spagnolo. Da uno dei cortili vicini, il vento porta l’odore di cena calda. Anche laggiu si stava celebrando l’ultimo giorno di Sukkot.

“Non ti capisco” dice Nina ridendo.

“Non abbiamo imparato nulla dal passato. Quando leggo cosi, il presente sembra un libro pieno di storie già conosciute” e rumorosamente Mosce chiuse il giornale, rinvigorendo il lume della lampada. “Perché i vicini diventano i nostri peggior nemici? Ecco. Guarda i nostri antenati. Duemila anni fa si sono trasferiti sul suolo dei Pirenei, hanno in iniziato a parlare la lingua latina, lo spagnolo, il portoghese, benché lì furono perseguitati dai Romani, Spagnoli e Portoghesi. Nonostante ciò, noi stiamo continuiamo sempre a parlare la loro lingua.”

“Ci sono novità da Salonicco?” Nina tenta di cambiare il tema.

…I Nostri fratelli di fede, laggiù, nell’Europa, da secoli parlano tedesco…” non l’ascoltava Mosce, “e vedi che anche i Tedeschi li stanno perseguitando e li mandano nel ghetto. E loro, invece si sentono molto più vicini ad essi, piuttosto che a noi. Non riesco a capire. Come è possibile che all’uomo non bastano le disgrazie che gli ha portato la vita stessa, ma provvede ad aggiungerci anche le proprie? Ecco. Questi hanno portato nuove regole. Prima hanno marcato tutti i beni di noi ebrei, adesso vogliono anche espropriarle. Ma, finirà mai questa babele di stoltezza?

“Finirà papa, finirà” tentò Nina di ammorbidirlo, con un carattere sottile, sapendo che lui non avrebbe mollato. Nina sapeva che quando suo padre gli parlava di qualcos’altro, gli rodeva l’anima. La solitudine, la mancanza di sua madre nella loro casa si sentiva al punto da soffrire a tutte le feste familiari. Adesso soffriva anche l’assenza dei fratelli che da quasi un anno intero, per suggerimento dello zio di Salonicco, erano stati inviati da “Tehijat Jisrael”, una delle organizazioni sionistiche del luogo, con lo scopo di prendere la nave per la Palestina e di traslocare sulla vecchia terra israeliana. Mosce e Nina li avrebbero aspettati, avrebbero custodito la casa ed i beni, e se per caso qua le cose avrebbero iniziato a svolgersi alla rovescia, loro li avrebbero raggiunti faccendo la stessa strada.

“Vuoi che stasera facciamo una visita?…” in un’altra occasione gli avrebbe chiesto se avesse avuto voglia di andare al cinema, ma in questo momento si dovevano evitare i posti pubblici.

“Quando finirà”, facendo finta di non ascoltarla, e chiedendo che qualcuno gli desse retta oltre a sua figlia: “Dove andremo a finire? Laggiu, qua? Ovviamente in Palestina dove devono andarci, o dove si trovano già tuoi fratelli e tuo zio? Noi e i Palestinesi abbiamo le stesse radici, ma nonostante ciò ci stiamo odiando da secoli. Mille anni di malanimo. Anche lì vive della gente, loro e noi, insieme, ma non vogliamo dirci neanche “un buongiorno…”

“Ma lascia stare papa”, lo supplica Nina.

“…E lo sai come si dice li “buongiorno”? non l’ascolta Mosce “Shalom alehem”. Cosi dicono i nostri lì. “Selam aljecum” , dicono i Mauri. E l’uno e l’altro significano lo stesso. Pace. Noi diciamo “Buenas nosches”, e i nostri compatrioti in Germania e Olanda dicono “Gute Nacht”. Dicono “Gute Naht” ed adesso nessuno ne conosce il suono. Dicono “Shalom” e nessuno ha la pace”.

“Ti ho portato qualcosa da mangiare…” dice Nina estraendo i dolci al miele che gli ha regalato la sua compagna.

“Non ne ho voglia, figlia mia…”

“È un dolce. Tu ami i dolci.”

“…Voglio lacrimare. Piangere. È tanto amaro.”

“Padre, ti prego! Pensa a qualcosa di bello. Credi che io mi senta meglio?”

“Penso al bello, penso al bello. Ti ricordi Nina come una volta abbellivamo questa capanna per questa festa? Tu, tua madre, i tuoi fratelli, tutti insieme, pieni di gioa, riuniti nella capanna per il Sukkot? Pranzavamo e cenavamo qua per un’intera settimana, cosi come era l’abitudine. Ed il settimo giorno del Sukkot, per la Hoshana rabà mi recavo nella sinagoga insieme agli altri, tutti pieni di speranza sventolavamo i rami di salice, giravamo intorno gridando o Hoshano! O, aiutaci! Aiutaci! E mangiavamo i dolci. All’epoca i dolci avevano gusto. Ti ricordi Nina?…” Mosce la guardava quasi con disperazione.

“Bene, bene”, provava a calmarlo, già inquietata.

“Penso al bene. Ma qua qualcosa mi stringe sempre di più…”. diceva Mosce con la voce ruvida, ed intorno alla gola simulava un laccio con la mano.

“Allora non ti ricordi. I ricordi irritano.”

Altre volte sapeva calmarlo, sapeva fargli cambiare il corso dei pensieri. Lei era una maestra nel mutare il corso dei pensieri. Sia i suoi, sia quelli altrui.

“Non mi ricordo, non mi ricordo”, oscillando come se fosse alla preghiera mattutina nella Sinagoga. “Mi sto chiedendo se i nostri cugini quest’anno siano riusciti a fare la capanna per il Sukkot? Dove l’avranno fatta? A Salonicco, o in Israele? Se fossero stati qua, invece, avrebbero guardato le stesse stelle. Ma se hanno fatto una sukà, i tuoi fratelli adesso vi saranno dentro. Staranno mangiando, bevendo, giocando a carte…E forse ci stanno pensando.”

Anche Nina giocava a mosca cieca nella loro capanna. Ridevano come pazzi. Sua madre portava il dolce caldo di manzana, un dolce fatto con le mele che profumava da lontano, e suo padre rideva versandosi il vino nel bicchiere. “È un Koscher questo vino?” lo chiedeva alla madre, mettendo il piatto con i dolci dinanzi a lei, mentre ridendo affermava con la testa, tirando fuori i nuovi vestiti che aveva cucito proprio in quei giorni prima della festa per i ragazzi. Loro non davano grande importanza al regalo, correvano nel giardino. La madre tentava di calmarli, ma invano. Le loro risa risuonavano attraverso i muri degli altri cortili.

E cosi, un mese fa avevano inviato i suoi fratelli a Salonicco. Laggiu, gli disse un giorno suo padre, saranno più sicuri. Inoltre, possono andare anche più lontano, dove è ancora più sicuro. Li fecero salire sul treno nella stazione Ferroviaria in un scompartimento di terza classe, in modo da non attirare troppo l’attenzione. Per farli andare dal loro zio in compagnia di due  commercianti sconosciuti, suoi amici. Portavano dieci quartini di oro che Mosce cucì nelle fodere dei loro cappotti, appositamente tagliate per non essere viste, fissandoli con una cucitura più forte della bordatura. Loro zio era proprietario di un negozio fotografico a Salonicco. Lui come era abile e …., da sempre vedeva più lontano di tutti gli altri nella sua e anche nella famiglia di sua moglie.

Quella sera, una volta che i bambini erano partiti, Mosce e Nina non riuscivano ad addormentarsi. Nina ascoltava i sospiri pesanti di suo padre che gli venivano della camera vicina. Poi, sentì anche i suoi passi dietro alla porta chiusa, sotto la quale scintillavano la luce e l’ombra della lampada fortemente stretta dai suoi palmi. Nina sapeva che lui, cosi robusto e pesante come era, camminando silenziosamente quanto poteva si era avviato verso la camera dei suoi fratelli, e sapeva che guardava i loro letti vuoti volendo rassicurasi che i ragazzi, accompagnati la mattina stessa in viaggio, davvero non fossero più lì come ogni sera. Due giorni dopo, arrivò un telegramma: i ragazzi sono a Salonicco. Stanno bene e vi abbracciano. I cugini facevano sapere che tutto andava bene. Tutto ….Il messaggio avvertiva di un prossimo viaggio. In Palestina, la terra dei loro antenati, in Eretz Israele. O Hashano!.

Comunque Nina sapeva che d’ora in poi suo padre sarebbe restato sveglio. Avrebbe vagabondato lungo la casa come la prima sera dalla partenza dei bambini. Sapeva che Mosce non avrebbe trovato più la pace. Avrebbe fatto la sentinella nella casa di notte, sopra i letti vuoti dei suoi figli, in particolare sopra il suo sonno inquieto, fino a quando non si fosse addormentato dalla stanchezza e dalla inquietudine crescente.

“Pensano, papa” rispose Nina finalmente mettendosi a sedere acanto a lui nella sukà. “Pensano a noi”. Guardano su nel cielo, ridono e si divertiscono con lo zio e con gli altri cugini, e forse parlano di noi.

“Chi lo sa”, disse tiepidamente Mosce, “chi lo sa…pensi che sul cielo di Israele si trovano queste stesse stelle, o alcune altre?”

“Ma certo che sono le stesse” rispose Nina. Guarda quante stelle ci sono stasera. Come se Dio avesse acceso il più grande lume per la festa. Per te, per me. Per i nostri laggiu. Ci da un segno a tutti. Accende le stelle celesti per mostrarci che non siamo soli!”

Mosce la guardò.

“Siamo soli, tesoro”.

“Ci sembra di esserlo. Credimi…”

“Ma non posso più crederci.”

“Credimi. Guarda! Potrebbe mai succedere qualcosa di brutto in una notte così maestosa?”

Nina abbraccià suo padre. Sentiva che le spalle gli tremavano. Lo guardà negli occhi. Erano asciutti. Solo il corpo gli tremava. Si girò verso di lei. Desiderava dire qualcosa di più.

Nina si affrettò.

“Felice festa papa! Felice Sukkot. L’anno prossimo saremo tutti insieme, sotto queste stelle, in una unica sukà.”

Gli dette un bacio sulla guancia. Sentì il suo sudore. “Devo lavarti la camicia” gli girò la testa. Di sbieco notò una grande macchia sul petto: “Anche il vestito è da lavare.” Nina tentò di pulirlo fino a quando notò che infatti era la sua Stella di Davide cucita sul cappoto dato che, come da ordine del nuovo potere, dovevano portarla tutti. Mosce la osservava.

“Questa macchia non sembra si possa pulire” rise amorosamente.

Nina lo guardò. Gli passò un pensiero per la testa. Oscura come il volto di questa strana settima notte del Sukkot. O, Hoshano! Ma lei era maestra nel mutare i pensieri.

Desiderava ricordarsi della scampagnata con Dejan. Della sua risata sincera, dei bianchi denti, del bacio timidamente rubato. “Dejan, gli bisbiglia, mi ami?” “Mi chiamo Dejan”, risponde lui e desidera di nuovo baciarla. “Fa niente” rispose Nina e si perse nel suo abbraccio e nel gusto dell’erba, delle piante campestri appena fiorite d’amore.

Dove è mio padre? Che giorni è oggi? Quante volte girano i pensieri. Da qualche parte si sentono dei pifferi. Non lontano abbaiare dei cani. E poi i rumori si smorzano. Il vento porta la prima freschezza serale. Nina ha freddo. Si tiene la testa. Da lontano arriva qualche musica di un canto triste. Con il palmo si passa la spazzola dei capelli appena tagliati. Abbassa il palmo. Nella mano un fresco numero tatuato. Negli occhi paura. E stelle. Come quella sera di Sukkot.

Che giorno è oggi? I fratelli saranno arrivati ad Israele? Dove è mio padre? Vicino, si ricorda Nina, nella baracca maschile, solo a cento metri. Sta sveglio anche lui adesso, pensa Nina, da quella parte del campo, come sta facendo lei? O si è addormentato dalla stanchezza e dalla paura. Ciò che ha temuto per tutto il tempo, finalmente ѐ successo, Si chiede ancora, se Thora si scriverà ancora, oppure si continuerà con un nuovo, sospettoso capitolo? O Hashano! Perché chiamano questo posto Treblinka? Si sforza d’invocare l’imagine di Dejan. Il Suo fiato, il suo abbraccio caldo, il primo bacio. Lei è maestra nel cambiare il corso dei pensieri.

Invece di quel bacio, nel cervello appare un fatto concreto: oggi è il 30 marzo 1943. Notte di uno Sukkot stranissimo ed iniziato male dove le stelle in cielo sembrano minacciose, oscurate come se avessero succhiato dal mare l’oscurità intorno a loro e appesantinte al punto che gli sembrava stessero per trascinare l’intero cielo verso il basso, preparandosi a riversarsi sopra questo mondo. O, Hashano!

Traduzione dal macedone in italiano

Biljana Biljanovska

3 COMMENTS