Il virus non è stato ammesso alla classe successiva
Dopo lunghi mesi di chiusura, a settembre finalmente, gli istituti scolastici riaprono i battenti ad alunni e alunne di ogni ordine e grado.
Il primo giorno sono tutti fuori dal cancello, felici di rivedere i compagni ed emozionati di poter tornare sui banchi di scuola (con rotelle o meno non ha importanza) e seguire in presenza le lezioni.
Tra gli studenti, lì fuori in attesa di una campanella che non suona più, perché gli orari sono tutti dilazionati, c’è Lui: il virus. I ragazzi non lo vedono, non sanno se veramente sia in mezzo a loro, o forse ne sono convinti, perché la debita distanza che cercano di mantenere l’uno dall’altro tradisce i loro sospetti.
Paziente, senza zaino e senza fretta, con molta probabilità anche Lui aspetta di entrare nella scuola, uno degli ambienti considerati più a rischio all’inizio della pandemia e per questo il primo ad essere stato chiuso la scorsa primavera. Quando le porte si aprono con il suono virtuale della campanella, tra schiamazzi e vociare, Lui rimane silenzioso e, invisibile, sicuramente sta tentando di entrare, convinto che anche questa volta ce la farà. Varcate le soglie dell’istituto, si insinuerà negli ambienti per attaccare tutti quelli che incontra, perché Lui, indifferente alle attività e alle persone che incontra, ha un solo obiettivo: contagiare.
Quel giorno, il primo dell’anno scolastico, la guerra è ormai dichiarata.
Una guerra muta ma senza esclusioni di colpi, dove le armi di attacco sono gel e disinfettante e quelle di difesa sono mascherine e la distanza interpersonale di almeno un metro.
Il terreno di guerra è stato preparato durante l’estate: frecce rosse e fecce verdi a indicare i diversi sensi di percorrenza per evitare possibili incontri ravvicinati, gel disinfettante ovunque, distribuzione all’ingrosso di mascherine.
Anche all’ingresso si agisce con astuzia: si entra in svariati angoli differenti dell’edificio scolastico, utilizzando tutte le possibili vie di entrata e di uscita. Vengono utilizzati tutti i portoni e i cancelli a disposizione, persino lo scantinato se necessario. Mancava solo il tetto come ingresso, osserva scherzando qualche umorista del web, magari facendo atterrare gli studenti con un elicottero affittato per l’emergenza.
Appena entrati, ogni singolo studente, mascherato e distanziato, viene sottoposto al rituale della misurazione della temperatura corporea, a cui segue come un preciso rituale shintoista, l’igienizzazione delle mani con l’apposito gel a disposizione della classe.
Passano le settimane e la prima battaglia di questa guerra è a favore di alunni e docenti che non si piegano e resistono.
Lui non ce la può fare, rimaniamo distanti l’uno dall’altro, ogni occasione di vicinanza debellato e il salto del virus per raggiungere il respiro dell’altro cade nel vuoto.
Nemmeno il fatto di aspettare comodamente su una gomma, su una penna, su un quaderno o qualsiasi altro materiale, non favorisce il malintenzionato virus perché lo scambio di qualsiasi oggetto personale è interdetto.
Trascorso un mese, si cominciano a fare i primi bilanci. Sembra che tutto sia sotto controllo, dai che ce la facciamo, andiamo avanti così, resistiamo.
Ma ecco che alle dieci di sera arriva il primo messaggio della dirigente: la classe 1F da domani sarà in quarantena, è stato rilevato un caso positivo e pertanto tutti i contatti diretti devono essere posti in isolamento. Ecco la prova tangibile che Lui è entrato, lo sospettavamo ed ora ne abbiamo la certezza. Ce l’ha fatta, è arrivato tra di noi e appena si è accorto di una nostra defaillance ha attaccato e ha fatto centro.
Si sarà inorgoglito ancora di più nell’esser riuscito a insinuarsi nel respiro del povero malcapitato e da lì a passare al respiro dell’altro è un attimo. Una settimana dopo è la volta di un’altra classe, che si appresta a vivere lo stesso copione: tampone, quarantena, didattica a distanza.
E mentre in tutto il Paese la curva dei contagi cambia inaspettatamente direzione, lo fa verso l’alto in modo brusco e accelerato, il governo chiude le scuole secondarie di secondo grado, risparmiando tutte le altre. Il virus non arretra e poco tempo dopo lo stesso provvedimento riguarda anche i ragazzi di seconda e terza media che si salutano di venerdì per poi ritrovarsi il lunedì successivo a continuare le equazioni di primo grado davanti a un pc.
Il resto della scuola resiste, fin quando Lui non raggiunge un’altra classe e mentre quegli alunni non frequentano per dieci giorni, i compagni dell’aula a fianco continuano la loro battaglia, costante e cocciuti nel voler continuare a studiare in presenza. Frequentare la scuola è diventato un lusso, ci si sente fortunati, graziati e si apprezza di più lo stare insieme, far parte di un gruppo, vedersi di persona, alzare la mano per chiedere qualcosa, ascoltare dal vivo una lezione. Anche se fa male mantenere la distanza e parlarsi dietro una maschera che soffoca i sorrisi ma non la voglia di sorridere. L’intento è continuare e far in modo che in classe l’atmosfera rimanga serena, come se quello che sta succedendo fuori sia lontano da noi come una nebulosa.
Dal calendario viene tolto il foglio di ottobre, e compare novembre. Cambia il mese e cambiano le misure che diventano ancora più severe: la mascherina diventa una nostra seconda pelle, non ce ne separiamo mai tranne che per mangiare.
La lettura della maestra o la richiesta di un bambino, così come leggere e scrivere vengono prepotentemente coperti dalla sirena delle ambulanze che vanno e vengono. Un suono forte, chiaro, ma che ora si fa più assordante. Un suono acuto che penetra con violenza nelle orecchie e scuote l’anima, come a farci da monito e ricordarci il dramma che stiamo vivendo quando, distratti dall’attività del momento, forse ce ne siamo dimenticati.
Gli alunni più piccoli, quelli di prima elementare, sembrano non farci caso ma inconsapevolmente ne sono condizionati anche loro. Soffrono una distanza fisica imposta, quando tra una filastrocca e un’altra hanno bisogno di essere rassicurati, anche con una carezza o un abbraccio, perché sentono la nostalgia di casa, dei loro genitori che nei mesi precedenti li hanno tenuti in casa e protetti; ma questo non è possibile farlo.
Sono i piccoli quelli che conoscono una scuola che non è quella giusta.
Ancora non sanno quanto è bello avere un compagno di banco a cui chiedere, senza farsi sentire dall’insegnante, il risultato di un’operazione che non viene. Non sanno che a volte capita di arrabbiarsi perché il vicino ti prende la gomma senza chiedertela e poi fare pace perché non sarà quella gomma presa a tradimento a rovinare un’amicizia. Ignorano quanto è stimolante e anche divertente fare attività in piccoli gruppi.
Che ci si può innervosire quando salendo sul pullman che ti porta in gita, quelli dietro ti spingono perché non vedono l’ora di salire, mentre la maestra dietro urla di non accalcarsi, tanto si entra tutti! Si può piangere perché l’amico del cuore ti ha fatto una linguaccia o magari una pernacchia. Che ci si può scambiare un pezzettino di merenda perché quella del compagno è sempre la più gustosa o perché la si è dimenticata e la generosità del tuo amico riesce a riempire quel buco che brontola nello stomaco.
Loro che, invece, oggi vengono sgridati se si avvicinano troppo tra loro, se si tengono la mano, se si abbracciano.
Sono loro, i piccoli, quelli che stanno vivendo una scuola che non è quella che vogliamo. E intanto le loro richieste sono sempre le stesse: posso darti la mano? Posso abbracciarti? Posso stare vicino a te?
E io, che sono la loro maestra, mi fermo qualche secondo a pensare, per trovare le parole giuste e il coraggio di pronunciare un “no” che abbia senso, prima di balbettare la solita risposta preconfezionata “c’è il virus, non si può, dobbiamo stare lontani un metro.” La risposta tragicomica che mi arriva da una bimba è questa “Allora sto vicina a te, ma lontana un metro.” Accetto, il lontano un metro salva sempre! Anche dalle situazioni paradossali.