Insania: “Nomen insaniae significat mentis aegrotationem et morbum”

(Cicerone)

Insania è lo stato morboso, la follia della mente.

– Se un dio esiste, non può che essere di pura ragione.

Lasciai cadere con nonchalance quella che voleva essere un’autentica provocazione ai danni (o a vantaggio?) del mio illustre ospite e amico. Era un tardo pomeriggio di settembre e i nostri passi pestavano ormai da parecchio il selciato del foro romano. Non che io sia, per mia natura, un tipo particolarmente ciarliero, né, tanto meno, goda nel sentirmi coinvolto in un chiacchiericcio fine a se stesso. Ma il silenzio che ci aveva accompagnato fin lì, fra i resti della sublime civiltà romana, cominciava a darmi sui nervi. Così, arrestai di colpo i miei passi, tanto inaspettatamente che i suoi, per inerzia, lo condussero a distanziarmi di tre, quattro metri.

A quel punto assestai un paio di colpi di tosse, con lo scopo di distoglierlo definitivamente da quali che fossero in quel momento i suoi pensieri e pronunciai l’enunciato che poi, in seguito a quanto mi successe, non abiurare mai abbastanza e che adesso, che ho deciso di confessare il mio segreto più inconfessabile, mi ritorna indietro come un boomerang impazzito perché lanciato incautamente.

Sapevo che la mia asserzione, avrebbe scatenato la sua vena polemica.

Avevo letto alcuni suoi saggi giovanili (ma può una mente filosoficamente eccelsa come la sua aver mai dato alla luce pensieri prematuri?) e ben conoscevo, dunque, il suo passato di pervicace sostenitore della teoria che porrebbe l’irrazionalità come principio ispiratore non solo degli eventi naturali (il caos ordinato) ma persino degli atti umani.

Sebbene la nostra fosse ormai da considerare una vecchia amicizia, essa era nata e si era consolidata nel tempo, soprattutto attraverso numerosi scambi epistolari, poiché, di persona, era questa sì e no la quinta volta che ci si incontrava. Eppure, nonostante fossimo stati così raramente a contatto “visivo”, sentivo (e non dubito che lui provasse la stessa percezione nei miei confronti) di poter cogliere molte delle sue reazioni fosse pure con un decimo di secondo di anticipo. Nessun dubbio dunque che avrebbe reagito ed ero certo che per farlo, avrebbe aspettato di sentirmi nuovamente al suo fianco.

Così mi rimisi in movimento e lo raggiunsi.

Come dicevo, sono convinto che la stessa capacità di saper prevedere le mosse altrui fosse anche una sua prerogativa (magari lui l’avrebbe attribuita all’istinto io alla stretta logica aristotelica della deduzione), sicché, forse per non darmela vinta almeno in prima battuta, mi volle sorprendere…prendendo sì la parola, ma non per dare un seguito alla mia affermazione, piuttosto per intraprendere un monologo del tutto inatteso: un’arringa pro Nerone; un lungo elenco delle sue tante (presunte) virtù colpevolmente sottaciute (secondo lui) dalla storiografia di ogni tempo perché “In ogni tempo gli storici sono stati al servizio del potere”.

Fu solo quando i nostri passi tornarono a calcare il meno suggestivo ma più comodo asfalto di via dei fori imperiali, che il mio amico, con la stessa finta indifferenza con cui io stesso gli avevo lanciato la sfida, si degnò di raccoglierla.

– Di sicuro crollerebbe uno dei passi più importanti della Genesi… – se ne uscì con un sorriso molto simile a un ghigno. Ci misi qualche secondo a realizzare che “questa” doveva essere la sua risposta. Non di meno, non la compresi e ciò, dalla mia espressione, doveva apparire evidente per questo aggiunse benevolo – …Creerò l’uomo a mia immagine e somiglianza…Genesi 1,26-28. Adesso avevo compreso.

– …E l’uomo, a te, non dà l’idea di un essere totalmente raziocinante…- domandai retoricamente ben conoscendo le sue convinzioni in merito.

-Esatto, quindi propenderei per scartare l’ipotesi da te formulata. Se il dio della Bibbia ha creato l’uomo e lo ha creato a sua immagine e somiglianza, quello stesso dio non può essere solo razionalità. Sorridemmo entrambi. Mi ero fatto sorprendere sul mio terreno, quello della logica. Ma la logica della deduzione con il sillogismo come suo naturale corollario, in fondo non era neppure da considerare troppo il “mio” terreno.

– Ma non basta. Quel dio a cui facevi riferimento…vogliamo ipotizzarlo…un buon dio?

Non avevo la più pallida idea di dove volesse andare a parare e per puro compiacimento risposi con un “Sì” poco convinto. Attraversammo la strada evitando per un pelo che un’automobile romana interrompesse per sempre le nostre elucubrazioni e, giunti davanti all’entrata della metropolitana, stavolta fu lui a fermarsi improvvisamente e a mandare per un attimo fuori giri il mio mulinare di gambe.

– E allora, se sì – riprese pacatamente come se non si fosse neppure accorto del pericolo appena schivato- Al di là della casacca che quel dio abbia indosso, fosse essa cristiana, cattolica, induista o di altre… formazioni minori -La sua metafora in verità assai poco intellettuale mi strappò un accenno di risata – Non può che volere il bene delle sue creature. Ne convieni?

Continuavo a non vedere un nesso con la mia affermazione iniziale ma alla domanda non potevo che rispondere affermativamente.

-Se come tu supponi, egli è pura razionalità, allora, quel bene a cui mira, non potrà che farcelo raggiungere attraverso di essa. Ogni singolo attimo di quello stato d’animo a cui noi diamo il nome di gioia o di felicità, non potrebbe che essere il risultato di un appagamento razionale.

Complice l’enorme flusso di gente che con l’orario di chiusura dei fori, si andava via via affollando a ridosso della fermata metro e che, col suo indistinto vociare multi- linguistico non permetteva che qualche parola e pure gridata, il mio amico non riprese il discorso né io, successivamente, feci nulla per riprenderne il filo. La sera stessa poi, lo accompagnai alla stazione da dove con un treno avrebbe raggiunto Firenze, l’altra città italiana che con Roma, divideva lo spazio del suo cuore. Un paio di giorni nella città gigliata e poi il ritorno a casa in quella Cambridge che lo aveva visto crescere e che di lì a poco tempo, ahimè, lo avrebbe visto spegnersi.

E lì, col biglietto del treno già in mano e un piccolo zainetto sulle spalle, lì, proprio al momento dei saluti, mi abbracciò (forse per la prima volta di certo l’ultima) e finalmente completò il suo pensiero regalandomi una pillola di sano buonsenso più che di sofisticata filosofia.

Non sottovalutare quella parte di noi che sfugge al raziocinio.

È una parte integrante del nostro essere. Così, non sottovalutare la potenza salvifica e assieme distruttiva del sentimento e soprattutto quella parte di esso che chiamiamo passione. Impulsi che ben poco hanno a che fare con la logica della ragione. Infine, amico mio, tieni conto della pazzia. Anche con essa conviviamo. La pazzia non è affatto come ci è comodo pensare una tara, un difetto di fabbrica, un’anomalia rara che è lì a confermare la regola. Essa è in noi, del resto non sono stati un po’ pazzi i più grandi geni che l’umanità abbia mai avuto? Il vivere sociale ci ha spinto a fissare delle regole e fra esse, la più ingiusta e insieme la più inevitabile, ci ha imposto l’abbandono della nostra naturale istintività. Non di meno, se l’istinto non è il tutto, come pure, un tempo, ho erroneamente creduto, è comunque una buona porzione di noi.

Come vi ho detto, quello fu il mio ultimo incontro col mio illustre amico d’oltre Manica.

Ad esso fecero seguito un paio di corrispondenze epistolari, il contenuto delle quali non aggiungo a questi miei ricordi poiché il tema di cui vi sto parlando non ne trarrebbe alcun giovamento. Poi, la sua breve, improvvisa e letale malattia mi privò della sua amicizia.

Adesso, a distanza di anni da quel tardo pomeriggio romano, preso dalla mia ossessione che in altri tempi non avrei esitato a definire pazzia, ho sentito il bisogno di raccontarvi quell’episodio e con esso, di sottolineare quelle parole finali, non solo sagge ma vagamente profetiche. Quel suo invito a non sottovalutare la parte irrazionale del nostro essere, a non sottostimare la forza dei sentimenti, la loro capacità nel bene e nel male di indirizzare i nostri comportamenti e perfino (ahimè) di stravolgerci la vita. E poi, quell’accenno alla pazzia, madre suprema dell’irragionevolezza persino quando, per esorcizzarla, la definiamo “lucida”.

Sì, alla luce di quanto poi mi sarebbe accaduto, posso affermare che quelle erano parole profetiche.

Chi di voi ha avuto la costanza di seguire fin qui questo mio racconto, vorrà forse sapere cosa ha fatto di me, stimato professore di logica, fautore dell’assoluta supremazia della ragione e integralista del pensiero razionale, un miserabile derelitto in balia di un’ossessione illogica, irragionevole e irrazionale. Quale causa mi ha spinto (ammesso che il mio intelletto in questo abbia avuto un ruolo) a sovvertire così drasticamente il mio stato mentale. È tale il mio imbarazzo che ve lo dirò tutto d’un fiato. Anche una sola pausa, infatti, rischierebbe di soffocare questo desiderio improvviso di confessare una volta per tutte le ragioni della mia dannazione.

Fu una donna. La conobbi il giorno della Celebrazione, qualche ora prima dell’avvio della Cerimonia. Ero lì per caso, per compiacere un amico che avevo in comune con Lei, la donna da celebrare. Restai lì per sempre, la mia mente… restò lì per sempre.

Quando la vidi, tutto di lei mi piacque e, credetemi, fu un piacere sensuale, per nulla metafisico. Amai da subito la sua fronte alta, ammirai il suo naso adunco, trovai irresistibile il pallore innaturale e per me così eccitante delle sue gote. Approvai con tutto me stesso, l’altezzoso silenzio col quale Ella accolse tutti ma proprio tutti i convenuti. Raggiunsi l’estasi quando, dopo aver supplicato un omuncolo che seppi poi esserne il non degno marito, egli mi permise di sfiorarle le mani. Bianche, fredde, eteree. Così sublimemente prive di vita.