Se solo avessimo l’umiltà di recuperare la meraviglia della sconfitta, anche e soprattutto nel momento stesso della tragedia, potremmo ben rinunciare alle lacrime, e a quella tristezza brutta sostituirne un’altra, stanca eppure placida come l’abbraccio dopo il sesso – che alla fine altro non è se non uno splendido modo di perdere: perdere il controllo, perdere i confini, il tempo.
Non sarebbe affatto male. Anzi.
Ci riescono meravigliosamente i sudamericani, popolo d’emozioni intense quanto peregrine. Gli scrittori, ovvio, meglio. Su tutti: Gabriel Garcia Marquez. Non a caso un saggio su di lui reca il titolo “Un’epopea della sconfitta”. Ben si presta anche l’indole portoghese, direi: in fondo loro sono i padri, l’America ne ha ereditato il sentire, e vuoi per il retaggio del giogo coloniale o per quei grandi spazi che hanno laggiù, fa presto un certo malessere ad impennarsi come un’iperbole.
C’è poi chi ci arriva per vie dolorose, ma li si tratta di storie di dipendenza e dissoluzioni, di chi ha scambiato il dito per la luna. E con quel dito poi ci si è accecato.
I più, i normali, non ci pensano nemmeno. Non solo la rifuggono: non la considerano proprio, quell’idea salvifica di disfatta.
Perdere, perdere bene, è roba da campioni.
Roberto Baggio, per dirne uno.
Afosa estate novantaquattro, mondiale Usa: Baggio ha appena calciato l’ultimo rigore nella finale Italia-Brasile. Moviola della memoria: rincorsa da balletto, il piede quasi inciampa, poi imprime l’incertezza del passo ubriaco alla palla nella traiettoria di un fuoco d’artificio. Ma niente festa. Il tiro sorvola la traversa di un tot tale da non fare nemmeno masticare un “Merda, se fosse stata un pelo più bassa…”, e s’invola verso le stelle così in alto che non lo vedi nemmeno parabolare giù verso le stalle.
Baresi, Franco, reduce da un infortunio prematuro – ha giocato la prima partita, s’è rotto e poi, stoico, ha piegato il dolore sotto il peso della bandiera da capitano per l’ultima impresa, questa – piange.
Niente di troppo tragico, non è un pianto sguaiato, ma sono i dettagli, e i contrasti, a costruire l’epico del dramma. l’uscita zoppica perché l’orologio del fisico ha girato tutti i suoi novanta minuti più recupero e supplementari, e come fai a non fissarti su quella nuca così assurdamente arruffata nella calvizie tanto da chiedersi se una pettinata servirebbe o no? E poi lacrime di bambino, di una commozione pura di chi quella partita ha voluta giocarsela contro dottori e allibratori. Contro il fato sempre in agguato sula distanza degli undici metri. Baresi tracima sconfitta dalle palpebre: è di un’altra era, lui, anni ottanta a suon di Rocky e Rambo: l’idraulica della disfatta non era contemplata, non te la insegnavano. Se il rubinetto gocciolava, bastava ignorare il plic ploc.
Così ci arriva impreparato a quella debacle, e dare il là all’allagamento a un rubinetto cui il calcio ha allentato la guarnizione è un attimo. Allora quasi lo annuso: lo schermo spanciato di un ormai preistorico Telefunkenr scricchiola di elettricità statica e da li spira un impossibile vento che se lo porta appresso: l’odore di erba bagnata. Che a me a sempre rimescolato lo stomaco, sarà per la mestizia della pioggia.
Figurati se sono lacrime, poi.
Baggio, no. Magari lui Rocky e Rambo sa un cavolo chi siano, e non ha alcun machismo da far capitolare o, peggio ancora, sostenere. E sì che se guardi la fine – ci si ricorda sempre l’epilogo, per colpe e meriti – l’ha sbagliato lui, il rigore decisivo, e Italia out: l’equazione causa-effetto è bella che scritta. Eppure bisogna essere scemi per fare matematica con le emozioni. “Il codino” non lo è, e glielo leggi addosso: le mani sui fianchi, sembra uno studente alla lavagna dopo aver preso un cinque all’interrogazione per un errore di calcolo chissà dove, ma certo non nel finale, e allora: vabbè. Forse un “porco cazzo” gli è rimasto, educato, dietro le labbra serrate, e quanto vi si affaccia la mimica l’ha smorzato giusto in un “vabbè”. Non è scemo, Baggio, no. E i tifosi – tutti, per una volta: alleluia! – nemmeno.
È una sconfitta cocente, l’argento scotta sempre di rimpianti, ma per me, stavolta, invece di bruciare, riscalda.
Giuro. Non mi sono sentito così, in un abbraccio, nemmeno quando l’Italia il mondiale, sempre ai rigori, se l’è ripreso nel duemilasei. Dovrebbe essere il mio mondiale, quello, quello da mitizzare, che il precedente casomai avrei avuto a malapena l’età per festeggiarlo in decenza (ricordo mio padre, durante la lotteria dei calci piazzati, fremere, a lui che del calcio è sempre importato poco o niente, eppure sopprimere l’euforia con la diligente cura da genitore e dirmi:
“Mi raccomando che se succede, attento a schizzare fuori in strada all’improvviso che, se succede, parte una mille miglia che, se non stai attento, se succede, poi ti ritrovi a fare da tatuaggio alla strada, come un gatto rincoglionito nel periodo degli amori”.
D’accordo: non disse proprio così, ovvio. Ma mi piace riscriverlo in questo modo, con quei troppi “che, se succede” interrotti da troppa scaramanzia. Come è struggente far vestire panni di cinema a mio nonno, puntato sul divano col telecomando in mano, l’indice sull’off per uccidere un epilogo inopportuno prima del dolore, mentre, attraverso la nebbia acre di una MS dimenticata fra le labbra, con la cenere fin quasi al filtro che gioca una gara di equilibrio contro la gravità verso il televisore, allunga il volto ruvido e moro per sole e salsedine, per occhi due lame affilate: non è cinema western, questo?
Pare una foto. Polaroid, ovvio.
Il pezzo forte nell’album dei ricordi, quello da risfogliare e far rivedere ad amici e parenti dopo le cene con qualche bicchiere di troppo (per inciso: quell’elegia del tempo che fu, a tratti struggente, per altri insopportabile in quella dissonante celebrazione aristocratica in salotti borghesi, la rivoluzione digitale se l’è bevuta d’un sorso. E con quella anche il concetto di mito. Vorrà pur dire qualcosa, questo, su come stiamo al mondo oggi, e quanto ci stiamo (e ok, so quanto tutte queste digressioni c’entrino poco con il perdere se non il filo del discorso o l’attenzione del lettore, quindi le chiudo tutte qui))).
Adocchio la replica farsi sotto, e la dribblo: la sindrome da età dell’oro con me non attacca.
Magari può essere così per mio fratello con il duemilasei, che allora aveva dodici anni e ora venticinque, glielo chiederò, ma io – i quaranta incedono – sono ormai troppo smaliziato per farmi infinocchiare – ci sarà tempo più avanti – da un cliché della memoria. Non dal duemilasei, non dai patriottici e qui glissati Italia ’90, nemmeno dal novantaquattro (che poi, a ripensarci: in uno sputo di primavera, quell’ultimo anno, se ne andarono tre magnifici sconfitti: Bukowski, Senna e Cobain. Intravedo lì uno spartiacque sul quale un giorno dovrò riflettere più a lungo, in barba a ogni accusa di saudade).
Però: dimmi tu: Baggio cilecca un rigore con un’imperfezione meravigliosa tanto è esagerata, Grosso insacca la rete di prepotenza – esibendosi poi – Mio Dio! – nel plagiare l’icona urlante di uno storico Tardelli – e alza la coppa, ma dimmi tu: Grosso? Chi? Che ha mai fatto, poi? Non certo perdere come Baggio. E il fallimento, quella vero, credo, sta tutto lì. Non il banale saper perdere; apprezzare la sconfitta, piuttosto.
Sapessimo perdere sempre come c’è riuscito Baggio dopo quel tiro svirgolato, sarebbe davvero un bel modo di salvarsi l’anima. E così vincere la partita più importante.
E allora, dimmi tu: chi è il tuo eroe dei mondiali? Grosso? Perché ha vinto? Ma va’: impara a perdere come Baggio, piuttosto.
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Italia Brasile 1994. Elogio della Sconfitta
Articolo di Matteo Pisaneschi