Raccontare. Oggi bisogna raccontare per accrescere il consenso. Indipendentemente dal contenuto. Narrare per attirare. In qualsiasi campo. Dalla politica allo sport. Dalla moda alla cultura. Lo storytelling è diventato il nuovo campo di battaglia di oratori più o meno magici, più o meno convincenti, più o meno affabulatori.
Nessuna novità. In realtà non è nulla di nuovo. Anzi parliamo di un’attività umana ancestrale. Si pensi alla trasmissione orale che c’è stata fin dai primordi della vita sociale, quando scrittura e lettura non erano ancora a disposizione di tutti. Un fuoco, un cerchio di persone sedute e un vecchio che racconta. Un pulpito, un anfiteatro e un saggio che narra. Un altare, un ambone e un sacerdote che tiene un’omelia.
Eppure oggi parliamo di una riscoperta. O di una rinascita.
Il boom economico postbellico ha distratto le masse dal racconto. L’alfabetizzazione ha rilanciato i quotidiani e l’informazione spicciola. La diffusione della cultura tramite i libri e la scolarizzazione avevano ridotto l’analfabetismo.
Ma alla fine del millennio con la comunicazione (estrema) in rete c’è stata una riscoperta della narrazione. Si guardino le campagne elettorali di Obama che hanno fatto scuola per qualsiasi lato politico. O l’esplosione di youtuber, d’influencer, dei talkshow. È piacevole sentirsi raccontare delle storie, specie quando queste sono popolari, populiste o toccano i temi scottanti. Non devi nemmeno faticare per cercarle.
In prima serata, su facebook o su twitter in meno di 200 caratteri.
Probabilmente tutto ciò incrementa un nuovo analfabetismo, cosiddetto funzionale (spesso indicato con un neologismo caro a Enrico Mentana, “webete”). Il 28% della popolazione italiana è composta di analfabeti funzionali.
Non è un’offesa. L’analfabeta funzionale sa leggere, scrivere e calcolare le rate a costo zero per il prossimo smartphone che acquisterà. Il problema è che non sempre capisce quello che legge o meglio, non ha più gli strumenti per trarne insegnamenti, per crescere culturalmente, decidere attraverso quello che legge, ascolta o apprende. Insomma non si tratta (solo) di leggere senza capire, ma di non avere gli attrezzi per formare una propria idea originale.
Ed è qui che lo storytelling trova un primo grande spazio.
Quando il Consiglio dei Ministri in pompa magna annuncia l’approvazione della legge sulla legittima difesa, con un gran colpo di teatro, la maggior parte degli italiani festeggia ma si perde la notizia che per l’anno in corso non ci sarà crescita, bensì probabilmente stagnazione. Le tv trasmettono i visi dei ministri a ogni minuto per tutti i 1440 minuti di una giornata che parlano di successo per la difesa e di maggior sicurezza. Spiaccicando parole quali, autodifesa, arma da fuoco, sicurezza. Come se avere una pistola in casa possa donare tranquillità.
Ormai più che i contenuti quindi, conta la capacità di saper parlare (che dovrebbe essere un’arte), purtroppo non intesa come la capacità di possedere un ampio dizionario, di saper usare metafore e altre figure retoriche, bensì parlare come le persone vogliono sentire. Inutile girarci intorno, vogliamo sentirci dire quello che desideriamo. Vogliamo che qualcuno ci racconti quello che pensiamo e magari metta benzina sul fuoco alle nostre idee latenti.
Poche parole, a effetto, ripetute e inserite ad hoc in un acceso discorso, un racconto colorito e semplice contano molto più di numeri e fatti concreti raccontati con termini scientifici e complessi o da un’autorevole voce.
Basti guardare la controparte della maggioranza al governo oggi. L’unico individuo che sapeva utilizzare lo storytelling è stato silurato perché ritenuto troppo appariscente e invadente; così tutta la sinistra è caduta in un profondo tunnel, dove a ogni metro corrispondeva la perdita di migliaia di voti a favore di un (semi)partito che ha fatto della rete e della comunicazione il suo mantra e di un partito indipendentista che, invece, ha fatto del racconto popolar-populista la sua spada (dimenticando quando raccontava che l’Italia si fermava sopra il Rubicone). Si è ribattuto a Rousseau e al guerriero di Legnano con personaggi arcaici, con delle ottime idee raccontate male, con termini poco simpatici o austeri.
Per non parlare dello storytelling pomeridiano di trasmissione prestate al peggior chiacchiericcio e alla peggior cianciera che fanno da eco alle scelte politiche e su cui non basterebbero migliaia di articoli.
Ma allora dobbiamo considerare lo storytelling tutta una “fuffa”?
La cultura deve e può alimentarsi con la narrazione. Anzi, questa deve diventare la scintilla per la combustione. Deve essere proprio il racconto culturale lo strumento per la ripartenza. Per uscire dal sistema in cui si formano le fake news, si rende concreto l’odio, si raccontano le paure per accrescere il consenso.
TED (https://www.ted.com) è uno degli esempi. Un’esperienza culturale che è una goduria per le orecchie. Personaggi da ogni parte del mondo che raccontano le loro esperienze di successo attraverso la comunicazione orale e visiva. Successi che spesso partono dalle sconfitte (lo ricordi la minoranza…). Non c’è tornaconto. I narratori non ricevono ricompense. È tutto basato sulla condivisione della cultura. Ti racconto come ho fatto. Ti narro la mia storia, come da un’idea ho trovato la strada per il successo. La condivido con te. Non è detto che potrai applicarla, non ti sto dicendo che è vincente, ma voglio raccontartela. E magari ne potrai prendere spunto. Sei tu che devi andare a cercala in giro. Con gli stessi strumenti di diffusione di massa che diffondono fango e diffamazione. La stessa rete.
In Italia Montemagno (noto ai teledipendenti per la sua partecipazione alle Iene qualche anno fa e popolarissimo tra gli instagrammer) lancia perle in giro sulla rete. Sono le nostre maglie a doversi stringere per non lasciarle sfuggire. Da contenuti video di non oltre 10 minuti fino ad audionotizie di marketing e cultura del successo.
Gratis o a pagamento. Per tutti i gusti.
Le grandi aziende (Trenitalia, Eni, Hera) ormai non lesiano fondi per workshop in cui si parla, ci si racconta, s’illustrano obiettivi, strade da percorrere e si guardano gli errori commessi per migliorarsi continuamente e condividere le azioni di successo.
Insomma lo strumento c’è, è efficace e deve essere diffuso. L’utilizzo come sempre deve essere sapiente. Conoscere per decidere.
Farsi raccontare non quello che vogliamo sentirci dire, ma come stanno le cose, i processi con cui si prendono le decisioni, le motivazioni, i pro e i contro, per lasciare poi comunque a noi la scelta e la possibilità di accodarsi o no a quanto si fa. Senza rabbia e odio (ma questo è un altro articolo).