A.D. 1946 – LA SPEZIA LA PORTA DI SION – IMPRESSIONI DI UN BAMBINO

Corre l’anno 1946, La Spezia come molte città d’Italia rialza la testa e cerca di risollevarsi dalla guerra appena finita. I danni, materiali e morali sono tanti, immensi, case, fabbriche, strade distrutte, famiglie disgregate – con persone ancora disperse – che si polverizzano ulteriormente oppure si riaggregano fortunosamente. Piccole attività commerciali risorgono dalle macerie, la ricostruzione inizia faticosamente, il dramma dei prigionieri e dei dispersi che non rientrano più o rientrano con lo spirito distrutto, incombe.

Nel 1946 io ho sei anni, sono nato e vissuto con la guerra ma un po’ per le preghiere e un po’ per la fortuna, la mia famiglia ha superato senza troppi danni e senza troppi traumi la guerra. Dal maggio del 1946 la città si trova al centro di un’importante vicenda che ha rilievo internazionale e sarà materia di libri, trattati, romanzi e film. Io vorrei raccontarla da come, io bambino di sei anni, la vivo.

Si tratta del tentativo di ritornare alla Terra Promessa da parte dei profughi ebrei dispersi dalla guerra e dallo serminio. Exodus cioè, Shoa, campi di sterminio, il ritorno in Palestina, almeno sperato.

Quasi come richiamati da un tam tam, dal teatro di guerra famiglie ebree intere si dirigono verso località da cui poi tentare il viaggio verso la Terra Promessa. La Spezia è una delle più importanti. Alla fine della guerra sulle carte geografiche israeliane il nome della città di La Spezia viene scritta “Schàar Zion” La Porta di Sion.

Ricordo, ed è un ricordo ancora vivo nonostante i molti anni trascorsi, che l’intera città è attonita per un folto gruppo di ebrei che da varie parti di Europa, con tutti i mezzi, anche a piedi, giungono a La Spezia e si sta radunando al Pontile Pirelli (a Pagliari) nella zona est del Golfo nella speranza di imbarcarsi verso la Terra promessa.

La situazione è in campo internazionale complessa ma molti storici l’ hanno sviscerata e studiata; io, no, desidero soltanto raccontarla come l’ho vissuta.

Dicevo che la città è a rumore e vive la vicenda inizialmente con un certo distacco, poi piano piano superata la naturale diffidenza soprattutto per la lingua diversa, comincia a prendersi cura di quei poveretti.

Io m’informo da mio padre… cosa? …come?… perchè?, la vicenda è ingarbugliata e raccontarla ad un ragazzo non è facile. Comunque nella mia testa si raggruma un senso di simpatia per questa gente, forse mi scuote il fatto di “avere subito i tormenti dei campi di sterminio tedeschi” e di “essere lontani da casa” di questi poveretti.

Comincio a insistere con mio padre per andare a “vedere”, forse con un po’ di titubanza, di paura, quasi come andare a vedere “un circo”!. Bisogna comprendere mio padre, è perplesso, la situazione in quel luogo non è tranquilla, truppe inglesi presidiano i luoghi, la polizia italiana, a debita distanza, controlla i presidianti e tiene lontana la gente. Il rischio di disordini, con centinaia o migliaia di persone ammassate su due piccole navi ancorate al molo in una problematica promiscuità di corpi e d’idee, con la fame e la sete incalzanti, con qualche profugo esasperato che aizza la gente, è veramente probabile.

Alla fine…lo convinco.

C’è già qualche tram, ma il servizio è carente, la FITRAM ed il servizio regolare arriverà nel 1948, comunque arriviamo, probabilmente a piedi, al Molo Pirelli.

C’è un cordone di soldati britannici, con i curiosi (per me) elmetti a forma di scodella, che con rude cortesia ci tiene lontani impugnando le armi. Come ho già detto la popolazione spezzina ha preso a cuore questi poveri profughi e li aiuta quotidianamente con cibo, bevande, vestiti, sigarette, e…incoraggiamenti.

Io, quasi sfuggendo al controllo di mio padre, mi avvicino ancor più e finalmente vedo da vicino i visi e i corpi di questi poveri esseri.

Smunti, ammalati, gli occhi infossati e spesso febbricitanti, attoniti, i corpi coperti di stracci, sfiniti dai lamenti e dagli stenti, sul viso una muta supplica disperata… io non comprendo… di che cosa?… perché?, parlano solo una lingua sconosciuta ai più. Ricordo forse meglio i bambini, occhi spalancati, sbarrati, impauriti, e ritornando per un momento all’oggi, mi sovvengono gli occhi di quella bambina Sharbat Gula, quella dodicenne profuga afgana che nel 1984 fece notizia ed emozionò il mondo per quella splendida foto del fotografo McCurry che fu la copertina del National Geographic nel giugno 1985.

Il mio sguardo è attirato da un bambino che dietro un cancello mi guarda intensamente, allunga una mano ma… non chiede nulla. Mi guarda fisso, ed io lo guardo…fisso, noto (siamo molto vicini) una mosca che è ferma su una sua sopracciglia e lui la caccia ma lei ritorna, e lui la ricaccia, in continuazione. Sulla sua faccia… disperazione, smarrimento ma anche tanta rassegnazione; allora io sapendo che mio padre ha portato alcuni pani , gliene chiedo uno e glielo dò, lui lo ghermisce con una mano rapace che subito ritrae e dalla sua bocca escono parole incomprensibili ma, intuisco, riconoscenti. Conquistato il pane, il bambino arretra e si rifugia nell’abbraccio rassicurante di una donna, muta, sua madre… forse, con un volto riconoscente ma senza sorriso. Essa mi guarda incerta con un volto riconoscente sì ma nello stesso tempo dubbioso e pronuncia parole a me sconosciute. Comunque, portando lontano il bambino, continua a guardarmi… chissà!

Mio padre, timoroso che la situazione possa degenerare, mi trascina via con una certa decisione ed io lo seguo, ma anch’io ho la faccia rivolta a quel bambino. Chissà!

LA SPEZIA LA PORTA DI SION – IMPRESSIONI DI UN BAMBINO

Articolo di Carlo Federici