Manuela

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Manuela continuava a mordicchiarsi nervosamente la pelle scorticata intorno alle unghie, finché il sapore del sangue non la riportò al presente. La gamba sinistra le si era addormentata, era rimasta per troppo tempo seduta nella stessa posizione, in quella sala d’aspetto, da quasi due ore. Le pareti erano dipinte di verde e cominciavano a provocarle una piccola nausea strisciante alla bocca dello stomaco.

“Ma che cazzo ci faccio qui?” continuava a chiedersi, ininterrottamente.

Si guardava intorno muovendo la testa a scatti, nervosamente. Era uscita di casa trafelata, si era dimenticata la sua stupida borsa piena di cose inutili, non si era pettinata. I capelli biondo cenere erano lisci da una parte, mentre dall’altra le spuntavano dritti sulla nuca come corni appuntiti. Per fortuna la sala d’aspetto era vuota. Si sarebbe sentita sicuramente in imbarazzo, anche se dubitava che al momento dentro di lei ci fosse spazio per una cosa tanto ridicola e inutile come l’imbarazzo. Si era vestita in fretta, aveva una macchia scura al centro della sua camicetta bianca di seta, una macchia di caffè bevuto senza sentirne il sapore, un gesto meccanico che l’aveva aiutata a non pensare.

Quella mattina si era trascinata fino al bagno, si era seduta sul cesso  e aveva pisciato ascoltando il confortante suono della sua pipì che scrosciava lungo le pareti della tazza.

Poi si era fissata per qualche breve istante nel piccolo specchio sopra il lavandino, la superficie opaca, il riflesso distante, la luce malata del mattino bianco che inondava la claustrofobica stanzetta da bagno. Si era guardata col solito, vago, disgusto. Le notti insonni pesavano sulla sua faccia cadente e, benché avesse solo quarant’anni, sentiva il peso degli anni che solcavano il suo viso esausto. Le occhiaie erano profonde, bluastre, gravide di un passato che lei aveva nascosto proprio sotto ai suoi occhi, in quelle borse di pelle grassa e gonfia. Non si riconosceva, eppure era la stessa di sempre.

I suoi occhi erano velati, lo sguardo fisso al passato, l’aria perennemente preoccupata da qualcosa di irrisolvibile. Teneva la fronte inarcata, e questo le aveva conferito un intrico di rughe di espressione proprio in mezzo allo sguardo, il centro dei suoi pensieri che le urticavano la mente come edera velenosa.

Quella era stata solo l’ennesima nottata in bianco, passata a contemplare la vita impressa tra quelle mura domestiche dipinte di un rosa pallido, adolescenziale, inappropriato. Sì, adesso le appariva inappropriato. Aveva voluto tingere le pareti di casa di quel colore stucchevole perché le davano allegria, un’allegria che era difficile da trovare quando rincasava dopo il lavoro e tutto ciò che l’attendeva era una casa vuota, un ronzio di frigorifero, un gatto in sovrappeso che la fissava come una persona, quasi si sentiva giudicata persino da lui. Sembrava sempre che la stesse studiando, quel maledetto gatto. Un piccolo randagio venuto al mondo da poche ore, che aveva trovato, moribondo, in una cassetta per la frutta abbandonata all’angolo della strada, seminascosta da un bidone dell’immondizia. L’aveva accudito senza sentimento, non se ne era separata perché quel gatto era miserabile, proprio come lei. Valeva la pena tenerlo con sé.

All’alba, era giunta ad una conclusione, o almeno così credeva. Non sarebbe stata una buona madre, lei non avrebbe potuto essere una madre. Ricordava vagamente la sua, di madre, tutto ciò che aveva significato per lei.

Sua madre era morta da vent’anni, abbandonata a sé stessa in un appartamento fetente e squallido quasi quanto la sua inquilina. L’aveva messa al mondo per errore, e la di vita di Manuela era andata avanti proprio così, spinta dall’inerzia di quell’errore. Sentendosi esattamente quell’errore.

Sua madre l’aveva avuta da ragazzina, non era mai stata sicura dell’identità del padre. Era giovane e scapestrata, divisa tra la sua voglia di un’esistenza normale e le sue continue ricadute nelle nefandezze più oscure dell’animo umano. Sua madre, semplicemente, non ne veniva a capo. L’alcool e una depressione nera e rancida se l’erano portata giù prima che lei avesse davvero avuto l’opportunità di vivere davvero.

Non ricordava sensazioni felici legati a sua madre.

Aveva cercato, in ogni modo, di cancellare ogni sua traccia di lei dentro di sé, non accorgendosi che più si impegnava a non essere come lei, più i tratti che l’avevano caratterizzata non tardavano ad evidenziarsi. Aveva ragione di credere che sarebbe finita proprio come lei, ostaggio di sé stessa e di una solitudine soffocante come una colpa, la colpa di non aver mai amato. Di riflesso, non era mai stata amata. Era stata proprio questa presa di coscienza, quella notte, a farle prendere quella decisione. Non poteva essere una madre. Poteva solo respirare, crogiolarsi tra i suoi mostri, e continuare a credere che la vita fosse tutta lì. Questo le sarebbe bastato, ne era sicura.

Lui era sparito proprio com’era arrivato. Un approccio leggero, una notte di sesso vuoto come le loro anime, due ombre che si muovevano flessuose su un letto disfatto, cigolante come il cuore di lei.

Se n’era andato la mattina stessa, lasciandosi dietro un odore acre e un corpo singhiozzante di gemiti soffocati, quelli di lei. Baci ruvidi, mani intrecciate, occhi negli occhi fino all’orgasmo, poi più niente, solo il russare sommesso di lui. Lei non era riuscita ad addormentarsi, ancora ebbra del piacere di poco prima. Poi si sarebbe sentita sporca, come sempre, e sarebbe rimasta sdraiata in attesa dell’alba, quando finalmente il suo mondo si sarebbe ricongiunto a quello reale, di tutti i giorni.

Si erano adocchiati per tutta la sera, prima guardinghi, poi sempre più sciolti e sicuri l’uno dell’altra. Non ci avevano pensato due volte, ubriachi di eccitazione, le precauzioni relegate nel limbo della ragionevolezza, tagliata fuori dall’euforia sessuale del momento.

Manuela non l’aveva più rivisto, lui si era rivestito col favore di una luce fioca come i suoi occhi. Un veloce imbarazzo, e poi si era chiuso la porta dietro le spalle. Lei ormai non ricordava neanche più il suo viso, estraneo come il suo nome. Ancora ricordava la sensazione del suo corpo che si fondeva con quello di lui, anime incerte che si erano cercate in mezzo a una folla di mani solitarie, occhi sbilenchi, cuori di plastica.

Il sesso era stato intenso, questo lo ricordava molto bene. Era stato quel genere di sesso che ti spinge a credere che lo stai facendo con sentimento, prima che la brutalità dell’orgasmo arrivi a riportare tutto alla realtà. C’era stato calore, necessario ad ingannare sé stessa per qualche ora, e fingere di sentirsi amata, ma  in fondo sapeva che il sesso era una menzogna che durava appena il tempo di una notte.

Due mesi dopo aveva fatto un test di gravidanza, la linea blu a simboleggiare la vita nel suo grembo di madre. L’aveva buttato via, scagliato lontano, non voleva vederlo.

Quel seme senza identità l’aveva fecondata, e lei si toccava la pancia fantasticando sul frutto di quella casualità che cresceva dentro di sé, reclamando silenziosamente il suo posto nel mondo.

Non aveva voluto saperne niente sin dal principio. Dopo la linea blu era arrivata trafelata alla clinica privata, dove una sua vecchia compagna di università lavorava come infermiera da tempo. Le aveva fatto quel favore, guardandola inespressiva senza chiederle niente. Andava bene così. Niente domande, nessuna spiegazione, una leggera anestesia, la vita raschiata via dal suo utero, inadatto a covare amore.

Si guardò ancora intorno. L’orologio appeso sopra la porta della sala d’aspetto segnava le dieci e quarantacinque. Mancavano esattamente quindici minuti, poi avrebbe varcato quella soglia.

Adesso aveva paura. Aveva paura di non sentirsi pentita, dopo. Voleva pentirsi. Voleva farlo e, dopo, sentirsi pentita di quel lutto embrionale, odiare sé stessa, e poi dimenticare tutto. Fingere di farlo.

All’improvviso, un flashback le inondò la mente, scavando nei suoi occhi e costringendola a paralizzare il suo cuore per un momento. Lei, piccola e con un vestitino bianco di pizzo, sua madre appena una ragazzina. Sua madre che le prende dolcemente il viso e le dice che le vuole bene. Sua madre, incapace di dimostrare quel bene, incondizionato e inespresso. Sua madre, affogata troppo presto tra i mulinelli della sua esistenza, senza la grazia di una seconda chance. Lei l’aveva amata sua madre, e adesso era sicura che anche lei l’avesse fatto a suo modo.

Manuela ebbe uno spasmo, la sua anima si scosse come la neve posata sui rami di un albero, spalancò la bocca e le sembrò di respirare per la prima volta dopo una lunghissima apnea.

Afferrò la borsetta, e si precipitò fuori dal piccolo edificio, elegante e un po’ anonimo.

Si diresse verso il mare, il mare della sua vita, guidando piano e carezzandosi il grembo di tanto in tanto.  Rimase a guardare il mare per tutto il giorno, sorridendo a sé stessa. Si sentiva bene, adesso.