Memoria d’autunno

1911

Succedeva spesso che, nei pomeriggi d’autunno, a Trivalieri la nebbia si mischiasse a sterminati tappeti di foglie di castagno, e si poteva ammirare una meravigliosa armonia cromatica di giallo e arancio, sulla quale i bambini del paese correvano all’impazzata, avanti e indietro, senza mai stancarsi.
Da diverse settimane Liborio aveva preso l’abitudine di seguire di nascosto Agatina, non appena lei fosse uscita da casa. Passata una manciata di secondi, quando lei s’era chiusa la porta alle spalle, lui ero lì pronto ad andarle dietro con una certa discrezione e furtività, cercando in tutti i modi di non farsi notare.

Se Agatina si fermava all’improvviso, sospettando di essere seguita, allora si fermava anche lui e si appoggiava al muro di una casa, con le mani in tasca, quasi che stesse aspettando qualcuno, oppure si sedeva sulla prima panchina che gli era a portata di mano, o sostava ad una fermata d’autobus, con un collaudato fare d’attesa, o se proprio costretto dalla situazione, entrava in un negozio recitando la parte dell’avventore curioso, chiedendo qualcosa che alla fine non avrebbe mai comprato.

Una volta, così, per raccontarla,  era entrato all’improvviso (Agatina aveva avvertito la presenza di qualcuno dietro di lei, e stava per voltarsi) dentro un sexy shop. Fu più l’imbarazzo del proprietario, che quello di Liborio, ma quanto meno, Agatina non s’era accorta di niente.

Ebbene, ci si chiederà perché la seguisse. Non voleva infastidirla, o importunarla affatto.

Certo, era stancante, giorno per giorno, quale che fosse il clima lì fuori, doversi lavare, vestire e spicciarsi in tutta fretta, pur di non perdere Agatina che se ne usciva, ma ne valeva la pena. Era segretamente innamorato di lei.
Lei non lo sapeva, non lo sapeva, ma lui era innamorato.
Un pomeriggio d’ottobre, un ennesimo pomeriggio d’ottobre che Liborio le camminava dietro – uno di quelli che la bruma imperlava per bene tutte le cose e le foglie dei castagni erano finite mitragliate per terra, da una pioggia fuciliera del giorno precedente – entrambi si ritrovarono al parco comunale.
Agatina s’era seduta su una panchina, e dopo qualche minuto, bloccata con lo sguardo perso nel vuoto, aveva tirato fuori dalle tasche tante molliche di pane, da lanciare ai piccioni, i quali, nonostante la scarsa visibilità, le trovavano eccome, e si facevano coraggio l’un l’altro, avvicinandosi fin sotto ai suoi piedi – affamati com’erano tutti – pur di mangiar qualcosa.
Liborio s’era seduto di fronte a lei. “Buongiorno”, esordì.
Agatina non rispose, e continuò noncurante a dar da mangiare ai piccioni.

“Buongiorno signora”, ripetè Liborio. Agatina sollevò gli occhi, senza alcun particolare interesse.
“Le dispiace se mi siedo accanto a lei? Così, tanto per far due chiacchiere. Sembra che non ci sia proprio nessuno, a parte noi. E poi, da qui a due metri, con questa nebbiaccia malefica, non si vede quasi niente.”

Agatina non disse né sì né no, e con apparente noncuranza a quelle parole, riprese quel che stava facendo. Liborio, invece, quel silenzio aveva deciso di prenderlo come un “sì”.

Si alzò dal suo posto, e si sedette accanto a lei.

“Mi scusi se glielo chiedo: lei è sposata, ha figli? Glielo chiedo perché la vedo sempre da sola, qui…”
No…” rispose Agatina. Tuttavia, nel dar da mangiare a quei pennuti, l’anulare sinistro mostrava il segno di un anello che mancava da chissà quanto.

Liborio parlò, e chiacchierò, e raccontò buona parte della sua vita. Lo stesso identico copione, per quasi due anni. Due anni.

Praticamente aveva parlato soltanto lui. Agatina, invece, continuava sempre a dar da mangiare ai piccioni, e ogni tanto ci scappava un “sì” o un “no”.
Poi all’improvviso, passarono di corsa davanti a loro una ventina di picciriddi del paese, a fare caciara e vuccirìa, a gridare, e a ridere, e a saltare come pazzi sulle foglie che crepitavano forte forte come fossero pezzi di legno accesi, gettati al camino.
Due di loro, un maschietto e una femminuccia -più o meno dieci anni entrambi – correvano veloci, tenendosi per mano, un po’ distanti da tutti gli altri.

Agatina…ti ricordi?”, disse Liborio.

Liborio mise la mano nella tasca destra del cappotto. Tirò fuori un anello, piccolo, e facendosi nel cuore lo stesso coraggio dei piccioni, si avvicinò di più ad Agatina.

Le prese con gentilezza la mano sinistra. Agatina non disse nulla, e non si ritrasse affatto.
L’anello calzava bene, preciso preciso all’anulare.
Agatina si guardò la mano, e sembrò come risvegliarsi da un lungo torpore.
Gli occhi vitrei che fino a quel momento avevano accompagnato il suo viso, erano andati via, ed erano comparsi invece due bellissimi occhi dal verde scuro, accesi e brillanti come Liborio non ricordava da tantissimo tempo.
D’altronde, era sua moglie, da quasi sessant’anni. E Agatina, l’aveva conosciuta proprio lì, al parco comunale. Anche loro, tantissimo tempo prima: due ragazzini, che un pomeriggio d’ottobre, s’erano messi a giocare insieme, e poi s’erano presi per mano, a ridere e scherzare, e a correre come matti sui tappeti di foglie, e da allora, non s’erano mai più persi di vista o lasciati nemmeno per un giorno, e avevano trascorso tutta la loro vita insieme.

“Liborio…fa freddo…torniamo a casa?”
“Sì, torniamo a casa, Agatina.”
Liborio si tolse il cappotto e lo mise sulle spalle di Agatina, le porse il braccio, e tornarono piano piano a casa.

Camminando camminando, Liborio tirò fuori la sua solita fredduraccia dal sapore prettamente autunnale.

“Stavo pensando che…beh, se il sole d’ottobre battesse soltanto sugli sterminati vitigni della nostra periferia campagnola…i suoi raggi potremmo chiamarli raggi uva, non credi?”
Liborio…che stupidaggine…per favore!” – Agatina rise divertita.

Lo conosceva bene, Liborio era capace di queste battute terribili, e a volte, pure di peggiori, ma sotto sotto, a lei piacevano da morire.

Quanto sarebbe durata? Nessuno lo sa.
Potrà immaginarsi il “come” fosse accaduto, ma non si comprenderà mai il “perché”, quel giorno, Agatina avesse preso a ricordarsi tutto quello che nei due anni precedenti, per via della “malattia”, aveva dimenticato.

Ma in fondo, a che serve farsi tante domande?

C’è un momento in cui è utile e bastevole, per essere felici (perchè la felicità, in fin dei conti, esiste davvero, ed è un addestramento a vedere il meglio), sentire il rumore e l’odore delle cose, per accorgersi, essere consapevoli di essere qui, vivi e presenti in questo mondo.

Quel pomeriggio d’autunno, Liborio e Agatina ritornarono a casa, e danzarono allegramente per tutte le stanze, angolo per angolo, senza avvertire alcuna stanchezza, e il mondo gli apparve più prezioso, anzi, inestimabile, non soltanto per il tempo che avevano già vissuto insieme, ma soprattutto per quello che insieme potevano vivere.

La natura, frattanto, s’era messa in pausa dal suo instancabile e interminabile lavoro, dedicato ai cambiamenti. Sembrò come se l’intera compagnia dei venti, ad un tratto, avesse deciso di trattenere il respiro, e smettere i suoi compiti, ovvero portarsi via quel che trovava al passaggio, e prendere o trascinar via dai prati, dagli alberi, dai giardini, e dalle case, tutte le foglie, ovunque un soffio di brezza riuscisse a farsi strade e stradine.
Al tramonto era discesa un’inenarrabile quiete, la nebbia era scomparsa, ed anche i fili dell’erba erano stati toccati dalla rarissima grazia dell’immobilità, e le foglie erano rimaste tutte appese, senza più tremare, ai rami dei castagni.

I cuori di Liborio e di Agatina, crepitavano, crepitavano ancora, come legna al camino.

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