Mi chiamano Espresso

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°Ciao a tutti, il mio soprannome è Espresso.v

Non viene da treno espresso, quello adibito, solitamente, a viaggi internazionali, ma bensì da caffè espresso, sì, il nomignolo, o epiteto dipende, che per trent’anni mi hanno appioppato sulle calate del Porto di Genova.

Nei vari bar sparsi per il porto non chiedevo altro; magari, lo accompagnavo, il mio caffè, con un bicchiere d’acqua.

Forse un episodio di storia patria genovese potrà interessare a qualcuno.

Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, il mondo stava vivendo la rivoluzione dei porti, cioè l’avvento dei computer e dei container.

A Genova, i dirigenti del porto, per affrontare questo nuovo, alienante, sistema di sbarcare e imbarcare le merci, pensarono di affrontarlo in questo modo: “Abbiamo bisogno di una cavia. Un soggetto fuori dalla realtà, se è fuori di testa, ancora meglio”.

Dopo lunghe ponderazioni, discussioni e votazioni, all’unanimità, fu deciso che fra i tremila NON volontari candidati, il prescelto era Espresso.  Cioè me medesimo.

Il vero scopo dell’operazione, o perlomeno, uno dei più importanti era quello di inviare e ricevere i sacchi di caffè stivati in contenitori lunghi 6 metri; ma pure in quelli da 12 metri.

Ora, premesso che, allora, i capi non capivano un bel niente, io,  senza alcuna preparazione, a parte due finti corsi (il computer andava sempre in tilt), fui avviato a organizzare lo sbarco di contenitori tramite una immensa gru sulla quale, a venti metri dal suolo si trovavano due piccole cabine: una per il gruista che afferrava con uno strumento apposito, su indicazione dell’operatore del computer, cioè io (tecnico, appollaiato sulla seconda cabina), il container (provvisto di numero identificativo;) posto sulla nave e lo poneva su un rimorchio, in cui l’autista del trattore, anche lui informato dal tecnico, lo trasportava nel luogo e nella esatta posizione dove doveva essere impilato assieme a altre migliaia di container. Tutte le operazioni erano eseguite tramite computer, monitor, radio, altoparlanti e documenti cartacei. Naturalmente, rigorosamente, P & B, presto e bene.

Aggiungo che forse un po’ fuori di testa lo ero. I miei colleghi sostenevano che bevevo troppi caffè. Preciso, anche, che il caffè me lo portavo da casa in un thermos. Naturalmente si aggiungeva a quello che bevevo con i colleghi nei nostri bar.

Quella che segue è la relazione di lavoro che scrissi per i dirigenti del porto di Genova e per le organizzazioni del lavoro, ovvero, CGIL, UIL, e CISL.

Va da sé che la scrissi a modo mio; da lavoratore fuori di testa e tosco-genovese, ovvero, in stile satirico e ironico.

Irresponsabilmente saluto e faccio presente che dopo cotale esperienza, firmai perl’immediato prepensionamento.

Espresso.

Un portuale in telematica

Genova, 24/10/1988

CALATA SANITA’ ore 06:25                                1° Turno

Salgo la scala di ferro della “zampa” della gru N. 41 ed entro nella cabina operativa; sopra di me c’è un’altra cabina, dove opera il gruista il quale su mia indicazione preleva i contenitori indicatogli. Attraverso il vetro della mia cabina vedo la nave porta contenitori Sealand Peaceche incombe maestosa. La coperta colma di contenitori attende impaziente di essere liberata del suo carico.

Rapidamente mi guardo attorno per controllare se tutto è in ordine. Sul tavolo a sinistra c’è una radio sempre accesa, lo strepitio di voci e scariche elettriche mi conferma che è in funzione e così deve restare; perché in questa babele di comunicazioni tra nave e terra, tra loro due e il “cervellone” dell’ufficio centrale c’è un filtro sul quale si articolano tutte le operazioni di sbarco dei contenitori.

Questo perno è il mio computer il quale al mio segnale radiofonico ordina al gruista di afferrare i contenitori e di posarli sui rimorchi in attesa lungo la banchina a fianco della nave e di portarli nel luogo da me indicato e lì impilarli.

A destra sul tavolo c’è un piccolo “personal” sul quale devo digitare le coordinate che corrispondono alla cella esatta dove il contenitore dovrà essere collocato.

Questi dati sono proiettati su uno schermo posto fuori della cabina e i trattoristi dopo averli letti potranno dirigersi verso la loro destinazione, là un’altra gru su cui è installato un terminale, sistemerà i contenitori nella corretta cella; sulla base delle coordinate da me inviate.

A fianco al personal ci sono due microfoni, con uno comunico col gruista, con l’altro con i trattoristi in caso di un malfunzionamento del personal. Di fronte a me c’è un tabulato sul quale è elencata tutta la lista del carico e dove di volta in volta dovrò spuntare i contenitori sbarcati.

Questa è soltanto una spunta supplementare perché quella effettiva la farò sul terminale collegato alla centrale. Cioè lei, Arabella, il terminale, cuore della Calata Sanità.

Mi siedo e la guardo, non ho ancora familiarizzato con lei, m’incute un po’ di soggezione. Faccio scattare un pulsante, si accende uno schermo, digito alcuni tasti, faccio scorrere “maschere” e “menù”; infine appare la sequenza dei contenitori che devono essere sbarcati.

Ore 06:30. Afferro il microfono e chiamo lo stivatore: “Qui gru 41. Sono pronto, con la sequenza N.6, a iniziare le operazioni di sbarco. Posso ordinare al gruista di procedere a sbarcare i contenitori? Stivatore mi senti? Passo.”

“Qui stivatore comincio con il primo contenitore che il gruista può sbarcare come da programma. Gru 41 puoi avviare le operazioni P&B . Passo.”

Il primo contenitore è caricato sul rimorchio che è sottobordo; Purtroppo c’è un intoppo, perché i trattori preposti al trasporto sono diversi da quelli programmati sul terminale, perciò tramite una tavola di conversione devo digitare il N. originale sul terminale e quello reale sul personal (perciò anche sul display) perché altrimenti non capirebbe che si riferisce a lui. Tutto naturalmente P&B.

Nel frattempo il secondo contenitore è pronto sul rimorchio successivo.

Poi il terzo.

E così via.

Ore 07:55. Arabella sta elaborando da oltre tre minuti invece dei soliti due o tre secondi. Le maestranze a bordo e in terra mi guardano impazienti, le operazioni sono ferme. Comunico con l’ufficio centrale; m’informano che ci sono delle ”difficoltà tecniche” ma che le hanno superate. 

Ore 07:59. Arabella esita l’ultimo contenitore rimasto in sospeso e mi propone il prossimo, il 36°. E’ una buona media nonostante tutto.

Ore 10:14. Arabella è andata in tilt, salta da un contenitore all’altro incessantemente; mi premuro di chiamare il tecnico. Questi dopo otto minuti di tentativi ha interrotto i flash di numeri, ma adesso si susseguono simboli e lettere alfabetiche straniere: &&& WWW YYY eccecc

 Questa volta i trattoristi mi guardano con odio: rischiano di perdere il premio di produzione.

Domando al tecnico se posso provare io. Mi chiede cosa ho. Niente. Cioè, solo un po’ di tosse nervosa. Inizio a digitare lentamente evitando accuratamente P&B.

Da bordo, dall’ufficio centrale, da terra, via radio le voci s’incrociano freneticamente, vogliono sapere che cavolo sta succedendo.

Mi viene in mente Charlot che dopo una giornata ad avvitare bulloni continuava a “avvitare” i bottoni della gente che incontrava: due alla volta, due alla volta…

Ed io in tutto questo che c’entro? All’età di quarantasette anni mi hanno ficcato in questo cubicolo ad avvitare cioè a operare con dodici tasti alla volta, dodici azioni alla volta…E tutto P&B. Presto e Bene.

Speriamo bene…

Ore 10:00. Arabella non mi ha deluso. Funziona di nuovo. E mi presenta il 61° contenitore, certamente sotto la media, ma forse possiamo farcela.

Ore 11:21. L’ufficio centrale mi ordina di “uscire dal programma” (vale a dire di fermarsi) perché devono operare loro senza interferenze. Io guardo con la massima attenzione il mio tabulato, e “non sento” la gente che da fuori mi urla la sua rabbia e chiede lumi.

Ore 11:31. “Gru 41. Gru 41! Mi senti, Mi senti? Rispondi!”

Prendo il thermos, bevo un sorso di caffè, mando giù una compressa per l’ulcera e rispondo: 

“Qui gru 41. Sento male e indistinto. Passo.”

“Qui ufficio centrale. Puoi riprender le operazioni. P&B.”

Ore 13:00. Finalmente l’ultimo contenitore è stato sbarcato, 121, uno in più del numero programmato.

I portuali soddisfatti per il raggiunto premio di produzione si affrettano ad andarsene. E così faccio io, anzi, torno indietro sconnetto Arabella e me la metto sottobraccio, raggiungo la mia auto, avvio il motore e raggiungo la stazione marittima.

È qui che hanno arrestato me e Arabella. E non capisco perché.

Sul verbale compilato dalla polizia c’è scritto:

“…il soggetto fermato era trovato in atteggiamento sospetto, seduto su una panca con un computer sulle ginocchia con il quale intratteneva un rapporto orale (sic!). A domanda rispondeva con dei suoni incomprensibili senza peraltro giustificare la provenienza del suddetto computer”.

Lo giuro non ho fatto niente di male. Stavo soltanto parlando con Arabella, volevamo emigrare in Sud America ma non avevamo deciso ancora dove esattamente. Beh, può darsi che io le abbia fatto una carezza, forse le ho dato un bacetto, ma niente di più. Possono testimoniarlo i numerosi passanti che ci sorridevano con simpatia.

I poliziotti, invero molto gentili e garbati, ci hanno invitato in questura “per una formalità”; poi da qui al pronto soccorso, quindi in neurologia.

Qua un dottorino di scuola freudiana dopo diversi inutili tentativi mi consigliava di mettere per iscritto gli avvenimenti che hanno preceduto il mio ricovero, dice che sarà utile a entrambi.

Sono preoccupato, da 24 ore non ho notizie di Arabella.

Chiedo un caffè.

Siccome sono legato al letto dalla vita in giù, domando con la dovuta reverenza a Sua Santità Giovanni XXIII, il mio vicino di letto, se per cortesia vuole leggermi la mia cartella clinica. Spero di uscire da qui P&B. Presto e Bene.

Diagnosi: Computerite acuta cum delirium.

In fede Espresso

Articolo di Giovanni Bertini