Ombre

Una delle ombre, la mia, prese a muoversi indipendente e ci chiamò.

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Anni fa mi trovavo di passaggio in un piccolo e dimenticato paesino greco i cui confini erano colline a ulivi e costa rocciosa. Quel giorno stavo all’ombra del patio di una locanda e guardavo gli uomini bere ouzo mentre parlavano di politica. I greci hanno sempre amato discutere di politica.

Ero in giro a visitare vecchie pietre e aspettavo che le ore più calde della giornata svanissero per potermi muovere, quando vidi stagliarsi sull’ingresso battuto dal sole estivo la figura in controluce e scura di un uomo magro e alto. Tutti si voltarono per un attimo a guardarlo entrare e poi tornarono ai fatti loro.
Andò al banco, ordinò da bere e dopo aver dato con lo sguardo intorno si avvicinò al mio tavolo, l’unico con ancora una sedia libera, chiedendomi di potersi sedere. Non parlavo greco, capivo qualcosa. Gli risposi in inglese e lo invitai a sedersi, ma specificai subito di essere italiana.

Mi disse: «Una faccia una razza!».

Sorrisi. Il giovane era mezzo turco e mezzo greco e girava come me in solitaria. Stringemmo amicizia.

Una notte esplorammo una spiaggia a cui si poteva approdare solo dal mare e della quale, però, lui conosceva un passaggio nascosto per arrivarci via terra. Era un viottolo minuscolo e impervio, così a strapiombo sulle rocce battute dall’acqua che, se lo avessi percorso di giorno, non avrei avuto il coraggio di sfiorarlo. Ma la notte cieca e appena nata allontanava ogni mio timore nascondendo il senso e la profondità della morte in agguato, e mi aiutavano i suoi passi sicuri e svelti che io ricalcavo fiduciosa.
Emergemmo dal bagno notturno mentre sorgeva la luna, sempre più alta e luminosa man mano che il tempo passava. La contemplavo splendere avvolta dentro a un grande asciugamano. Dietro a noi, sedute vicine, si allungavano le nostre ombre come amici in ascolto.

Fu lui a rompere il silenzio cominciando a parlare con toni lenti e bassi.

Cominciò a recitare una cantilena incomprensibile e la sua ombra avvolse la mia, finché Dimitri non mi chiese di fissarle. All’inizio non capivo, alle ombre non avevo mai dato importanza, mi parevano scontati riflessi di luce morta. Lui smentiva dicendo, invece, quanto fosse importante meditare sulla loro consistenza. Allora mi alzai in piedi e anche la mia ombra si alzò e, volgendomi verso di lui, mi imitò, come sempre fanno le ombre di tutto il mondo.
Ma poi successe qualcosa di strano e d’un tratto mi decisi a dedicargli attenzione perché fui assalita da un senso di curiosità struggente.

Una delle ombre, la mia, prese a muoversi indipendente e ci chiamò.

Mi feci di ghiaccio. Alzava un braccio in quel gesto semplice che si fa per chiederci di seguire, e quando feci per sporgermi in avanti pronta a farlo, ipnotizzata, Dimitri mi fermò. Mentre si allontanava, lei sembrava ridesse di questo gioco assurdo quando, all’improvviso, si staccò del tutto da me e prese a girare su se stessa, come un sufi in orazione. Sentivo Dimitri immobile, eppure vidi la sua ombra seguire la mia e cominciare a girarle intorno con i passi che si fanno ballando il sirtaki, mentre lei continuava a girare su se stessa.

Non so per quanto tempo andò avanti lo spettacolo del ballo. Persi ogni senso del tempo e dello spazio, apparvero mille volti e mille colori, seppi di storie e popoli mai sentiti, ascoltai il suono di lingue sconosciute, vidi me stessa bambina giocare dietro casa. E l’ultima cosa che ricordai fu una spaventosa luce gialla e voci allarmate e frettolose. Urgenti. Sentii mani dure su di me. Ero nata.

Questo racconto è World © di Tea C. Blanc. All rights reserved

4 COMMENTS

  1. Mi è piaciuto perchè adombra tutta la nostra storia, la filogenesi biologica e culturale che ci dà forma. Siamo fatti di ombre, delle innumerevoli vite che sono sbiadite prima di noi, ma che vivono in noi.