POPULUS NIGRO (Il Pioppo Nero)
So che a molti è capitato di incontrarla per caso. Ho ascoltato racconti provenienti da bocche affidabili che mi hanno indotto a dubitare fortemente della serietà del Grande Manovratore, fino a farmelo apparire un buontempone, irriverente, sottilmente beffardo e ironico.
E così, vi dicevo, c’è chi l’ha incontrata fra la folla pur avendo vissuto una vita solitaria. Chi, invece (e inorridisco al pensiero dell’ossimoro), ha fatto la sua conoscenza nell’attimo che sublima l’amore e dunque, per antonomasia…la vita.
Di più, so di appuntamenti programmati con largo anticipo e poi, all’ultimo momento inspiegabilmente rinviati, io credo sempre per quella beffarda ironia di cui credo sia colmo Lui, il Grande Manovratore.
Ma non voglio tediarvi con le mie personalissime convinzioni.
Se vi ho pregato di leggere queste mie righe, non è certo per esse che l’ho fatto. Piuttosto, per raccontarvi (stavolta non qualcosa de audito bensì frutto di esperienza personale) non tanto l’incontro che pure ebbi con Ella (ché quello non mi è ancora ben chiaro, avvolto qual è da una luce argentea che non pare attenuarsi nonostante il tempo trascorso e che non me ne permette invero una chiara e definitiva visione), quanto il paesaggio che fu teatro di esso.
Il paesaggio più tristemente allegro che i miei occhi abbiano mai trasmesso al mio intelletto e, assieme, quello più foscamente soave arrivato nel mio animo.
Mi trovavo, per insistenza di certi amici, in un bosco nel quale alberi dai tronchi alti e sfacciatamente sottili, si ergevano chini quel tanto da raccogliere quanta più luce possibile senza spazientire la forza di gravità.
Gli arbusti, avevano tutti un’unica tonalità, quella contrapposta allo zero assoluto del bianco, quella in grado di assorbire il pur minimo accenno di luce. Quel “non colore” che solo per sciatteria e approssimazione ci ostiniamo a definire “nero”.
Su ciascuno di essi, i rami formavano alla loro base, intrecci che neppure il più paziente dei saggi avrebbe potuto sbrogliare. Da essi, da quel coacervo di nodi e filamenti, si lanciavano svettanti, imprevedibili steli dai quali emergevano fitte, le foglie più belle che io avessi mai visto. Cuori di color verde, cuori finemente tessuti, cuori vegetali morbidi e soffici.
Per centinaia di metri, i miei passi e quelli dei miei amici, calpestarono quel suolo benedetto dal cielo e dalle acque che lì intorno, mi dicono, scorrono abbondanti. Fu lì, proprio lì, in quella sorta di Eden naturale e selvaggio che io, uomo di asfalto e cemento, plastica e metallo, andai incontro al “MIO INCONTRO”. In una porzione di mondo così diversa dalla mia, dove adesso io…muoio.