Quando Luisa gli aveva detto “quest’anno, amore, ti farò passare delle vacanze indimenticabili”, Luigi non aveva pensato che le cose potessero andare così. L’idea sembrava allettante. Un trekking leggero con gli sherpa in una zona himalayana incontaminata, ignorata dai turisti e nota per il suo clima idilliaco.

Al secondo giorno di cammino aveva capito perché le agenzie non proponevano mai quella valle. Non aveva mai visto nulla di così triste. Un paesaggio desolato, una temperatura prossima allo zero, sherpa scontrosi e sempre pronti a chiedere denaro.

Alla mattina del terzo giorno, dopo che la sera precedente si era rifiutato di pagare un nuovo supplemento, si erano svegliati e gli sherpa non c’erano più.

Con pochi viveri di scorta e non conoscendo i sentieri, avevano deciso di tornare indietro. A metà strada erano stati sorpresi da una improvvisa tempesta di neve.

Era stata la goccia, o meglio, il fiocco che aveva fatto traboccare il vaso.

“Ma non doveva essere una zona con un clima meraviglioso?” chiese sarcasticamente a Luisa.

“E tu non potevi pagare quei dieci euro in più? Dovevi proprio fare il solito spilorcio? E io che speravo che la spiritualità di que…”

La lite si bloccò sul nascere perché il fiume di parole di Luisa venne interrotto da un urlo che non aveva nulla di umano.

“Luigi, cosa era?” disse lei impaurita.

“Amore, non saprei. Forse un animale, anche se la guida dice che qui non ce ne sono di pericolosi. Però è meglio se allunghiamo il passo e restiamo in silenzio. Potrebbe anche essere frutto della nostra immaginazione. Siamo nervosi e stanchi. Pensa che mi sembra persino di vedere un castello lì in fondo”.

“Ma cosa stai dicendo? Un castello? Qui? Tu sei malato! All’andata non c’era. Quando lo avrebbero costruito?”.

“Alla fine del secolo scorso” disse una voce alle loro spalle in un perfetto italiano.

Si girarono contemporaneamente e videro una figura alta quasi due metri, con il volto nascosto dal cappuccio di una tunica.

“Scusatemi” proseguì la voce, “vi ho spaventato? Non era mia intenzione. Dalla finestra della mia umile dimora vi ho visti e non potevo permettervi di proseguire con queste condizioni atmosferiche e nella direzione sbagliata”.

“Sbagliata?” lo interruppe Luisa, “te l’avevo detto Luigi che il sentiero mi sembrava diverso”.

“Ma se hai fatto strada tu!” rispose Luigi infastidito “ma ormai non ha nessuna importanza. Piuttosto dobbiamo ringraziare questo gentile signore che è venuto a salvarci. A proposito, non ci siamo presentati. Noi siamo Luigi e Luisa Rossi, e lei?”

“Io sono Frank Einstein, lieto di conoscervi e sono io a ringraziare voi. Sapete, qui non ho mai occasione di parlare con qualcuno, soprattutto in italiano”.

Einstein? Parente del famoso scienziato?” chiese Luisa.

“Sì, era mio padre” rispose l’uomo fattosi improvvisamente triste.

“Albert era suo padre?” domandò Luigi perplesso.

“Albert chi?” rispose l’uomo.

“Albert Einstein” ribadì Luisa.

“Questo nome è a me ignoto” disse l’uomo. “È forse uno scienziato moderno? Sapete, è da tanto tanto tempo che vivo qui in solitudine”.

“Ha sempre vissuto da solo qui?” chiese Luisa.

“Non esattamente. Nel corso degli anni ho avuto la compagnia di alcuni fedeli servitori, ma nessuno con cui parlare liberamente, nessuno che gradisse passare in mia compagnia le lunghe e buie notti invernali. Solo visitatori curiosi e inopportuni che ho sempre fatto fuggire travestendomi da mostruoso animale selvatico, quello che mi dicono aver poi chiamano yeti. Anzi, vi chiedo scusa, quel verso che avete sentito era mio. La forza dell’abitudine”.

“Ma perché si è isolato così? Non può tornare in Italia, o in Europa? Credo che lei provenga da lì visto che parla così bene la nostra lingua”.

“Non posso, mi piacerebbe ma non posso, e non so neppure come spiegarvi il motivo…”

In quel momento una raffica di vento fece scivolare il cappuccio della sua tunica.

Luigi svenne immediatamente. Luisa rimase in silenzio a fissarlo. Il volto dell’uomo non era umano. Era il viso di un mostro. Un mostro che stava piangendo.

“E ora che mi avete visto, scapperete anche voi” disse singhiozzando.

“No, signor Einstein. Io non me ne andrò. Verrò nel suo castello e mi racconterà tutta la sua storia” disse Luisa. “La prego, però, di aiutarmi a trasportare quel fifone di mio marito. Lo conosco. Non si riprenderà fino a domani”.

Luisa passò tutta la notte a parlare con quella creatura dopo avergli giurato che non avrebbe mai rivelato nulla di quanto gli fosse stato raccontato.

Il mattino seguente, uscì di buon’ora e, con l’aiuto di Frank, trasportò Luigi lontano dal castello e lo mise a dormire nella tenda.

Rimase ancora a parlare per un paio d’ore con il suo nuovo amico. Poi, salutatolo, svegliò Luigi.

“Amore, smettila di russare. È una giornata stupenda e dobbiamo tornare alla civiltà”.

Luigi si stiracchiò e si guardò intorno stupito. “Ma siamo in tenda” gli disse. “Sai che ho fatto un sogno stranissimo? Ho sognato che incontravamo un mostro, che incontravamo Frankenstein”.

“Tesoro, questa vacanza ti ha fatto male. Ti ha stressato troppo. Ti meriti un po’ di riposo. Quando torneremo in Europa passeremo un bel fine settimana al lago”.

“Ottima idea. Dove mi porterai?”

“Sarà una sorpresa. Lascia fare a me” rispose Luisa, pensando a come convincerlo ad andare a Loch Ness.

Non poteva non portare i saluti di Frank a sua cugina Nessie. Glielo aveva promesso e lei manteneva sempre le sue promesse.


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