Ero lì, non molto lontano da lei, ci separava qualche sedile, distanza questa sufficiente per vedere il suo volto deturpato dalla rabbia, devastato dalla tristezza.

Poteva avere all’incirca sessant’anni o poco meno, quella donnicciola tanto piccola e forte, robusta e poco truccata, di ritorno dal lavoro in quelle 19:00 di sera di un lunedì difficile da scordare.

Era immobile, fissando il finestrino accanto a lei e, rasenti, le sue lacrime ben nascoste si esprimevano nel temporale che imperava nel cielo.

Non batteva ciglio, non parlava, respirava solo molto profondamente, tanto che dal suo respiro si scorgevano i pensieri che la devastavano, le azioni che aveva trattenuto per dignità, fierezza, maturità di una gran donna, quale è.

Vi chiederete ora quale sia il fatto scatenante quelle sue reazioni, o forse no perché porsi l’interrogativo è irrilevante; non c’è motivo di ingerirsi nelle vite altrui, di “farsi i fatti degli altri”, ed è proprio per questa ragione che qui, questa storia verrà raccontata.

Una storia di poche battute, che verrà dimenticata presto, una come tante, narrante le vicende di una vita comune, di un quartiere limitrofo normale, di una penisola, di un mondo consueto.

Già, è così. E prontamente allora si rinviene la spiegazione dell’apatico, ipocrita silenzio dei passeggeri di quell’autobus e si capisce perché, invece, quello scricciolo di donna in silenzio non ci sia stata.

Autobus per Lambrate, 19:00 di sera, lunedì.

Ad una fermata due donne di difficile qualificazione umana, la cui vita -senza che si voglia giudicare con pregiudizio- può essere tratteggiata per sommi capi, urlano smodatamente, davanti all’autobus che si ferma.

Dovevano essere madre e figlia, grandi entrambe, malconce e trasandate, gridavano l’una contro l’altra rivolgendosi epiteti ingiuriosi facilmente immaginabili.

La più giovane delle due saliva sul veicolo, imprecando senza destinatario contro chiunque le capitasse sotto tiro, inveendo contro l’autista che, su ordine di lei, non doveva fare entrare quella p*** della madre. Chiuse finalmente le porte, tra gli sguardi omertosi e spaventati degli astanti, l’autobus riprendeva la sua corsa, subito interrotta da quella stessa donna lasciata fuori che, gettatasi per terra davanti all’autista, annunciava di volersi ammazzare.

E seguivano le urla accondiscendenti del proposito di quell’altra “buonsignora” che sul veicolo, di grazia, era salita.

Un rumore, di colpo, fa sobbalzare ancor di più i passeggeri, noi tutti: io, la donnicciola del racconto, gli altri.

Passano pochi minuti e l’autista con abili manovre riusciva a discostarsi e riprendere il viaggio, con tutti in silenzio, mentre le bestemmie urlatrici di becera vita della “buonsignora” continuavano a rendere movimentato il nostro tempo.

Tutti indispettiti, anzi no -diciamolo chiaramente-: scoglionati, stavamo con lo sguardo basso senza proferire parola, ma quella donna dell’est, con coraggio parlò.

Che importa sapere l’origine della signora? Importa, perché gli insulti presi da quell’essere che umano non si può dire, donna tanto meno, erano particolarmente colorati di razziale sfumatura.

Quella piccola donna si era semplicemente girata chiedendo che smettesse di urlare, perché quelle grida spaventavano e turbavano ingiustamente la quiete comune. Con educazione proferite, quelle parole furono controbattute come ben si immagina.

Certo, sarebbe potuta stare zitta -si dirà- tanto quella “pazza” è un rifiuto umano, sarebbe scesa. Massì, perché intervenire, non è affare nostro tutto ciò che direttamente non ci tange!

Poche parole, cordialmente proferite, sono bastate per i più bassi epiteti, perché, straniera, deve morire, perché a priori non paga il biglietto – e, signori e signore, aveva LEI l’abbonamento-, perché è meretrice, perché fa schifo, perché si deve fare i c*** suoi e (omissis…).

Nessuno che l’avesse difesa, nemmeno io. Passa un’altra fermata, la “buonsignora” scende, ne passano due, e scende anche quella povera vittima di un’ignoranza che è sempre più dilagante. E va bene così.

Ciò che stupisce è che nessuno si fosse interessato del suo stato d’animo in quei minuti, minuti interminabili in cui lei, ora sì, in silenzio guardava il finestrino con il cuore che piangeva con la pioggia.

La guardavo e pensavo, volevo dire qualcosa che avesse senso, che potesse farla stare meglio.

Si vedeva ogni sofferenza in quello sguardo fiero, che non aveva reagito allo scempio parolaio dell’essere, si vedeva la rabbia di chi, dopo tanti anni in quest’Italia, aveva partecipato da cittadina più dei nati dalla terra, quella che per sola fortuna e non per merito aveva dato a quell’altra la “cittadinanza”. Chi ne abbia ad oggi più diritto, sta a voi dirlo.

Ma al di là delle questioni politiche, dei giudizi sulla condizione dello straniero, un fattore da evidenziare rimane: tutti zitti.

Nessuno che si interessi dell’altro, di quell’altro che è in difficoltà, che è nel giusto, nessuno che si batta, senza guerreggiare come i potenti del mondo, per piccole battaglie di giustizia quotidiana.

Stiamo zitti, con il telefono in mano, ottima scusa di distrazione per non assumersi la responsabilità di esseri umani.

Rimane solo questo: che quella povera donna ha visto un mondo crollare, momentaneamente spero, su di lei, che io sono stata inerme come tutti, che qualcosa si può sempre fare.

Il coraggio di difendere la vita, di difendere l’uomo dall’altro, quello che si è dimenticato cosa sia l’umanità.

Forse però noi non siamo più umani di quell’essere dato il nostro comportamento!