Tutto quello che dovete sapere sulla implantologia dentare

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Che cos è la implantologia dentare?

I denti sono piccoli organi adibiti alla masticazione. In un dente osservato in sezione sono individuabili quattro tipi di tessuti, due superficiali, lo smalto ed il cemento, e due profondi, la dentina e la polpa. Lo smalto riveste la parte visibile e sporgente dalla gengiva del dente, ovvero la corona, mentre il cemento la parte non visibile e di forma appuntita, cioè la radice, contenuta negli alveoli dentali (cavità dell’osso mascellare); inoltre, entrambi sono sottesi dalla dentina. Si individua poi la polpa, contenuta in una cavità centrale che si estende dalla corona alla radice e che comunica con il parodonto (a livello di radice) tramite un foro apicale. Il confine tra corona e radice è costituito dal colletto.

Dal punto di vista funzionale ed embriologico il dente va considerato insieme ai tessuti di sostegno: quindi smalto, dentina e polpa risultano veri e propri tessuti del dente, al contrario di cemento, legamento periodontale e gengiva, che sostengono invece il parodonto (i tessuti parodontali presentano caratteristiche strutturali proprie).

Nell’adulto, considerando l’avvenuta eruzione dei denti del giudizio, i denti sono in tutto 32, 16 per arcata: quelli dell’arcata mascellare sono detti superiori, quelli dell’arcata mandibolare inferiori. Ulteriore distinzione è quella fra denti di destra (superiori e inferiori) e di sinistra (superiori e inferiori). Per ogni metà dell’arcata ci sono 8 denti ordinati secondo la seguente successione: 2 incisivi, 1 canino, 2 premolari e 3 molari. Incisivi e canini formano i denti frontali, premolari e molari quelli laterali.

La dentatura definitiva, che si raggiunge solitamente al 17°-21° anno (nell’arco di tempo che va dai 6 ai 12 anni si forma la dentatura mista) e dà un assetto definitivo all’occlusione, è preceduta da quella decidua, costituita da 20 denti. Nella cosiddetta formula dentale i denti decidui sono numerati con numeri romani, quelli definitivi con numeri arabi, i superiori con segno + e gli inferiori col -. 

La morfologia e la disposizione su arcate dentarie rispondono all’esigenza funzionale di mantenere stabile il dente e di proteggerlo dalle strutture esterne. Per esempio, se i molari avessero forma cuspidata, le forze di masticazione agirebbero in un verso tale da provocare compressioni dannose

I tessuti del dente

Lo smalto è un tessuto di origine epiteliale privo di vasi e terminazioni nervose; è acellulare e si consuma con l’età (gli ameloblasti, una volta completata la produzione dello smalto, si atrofizzano); è inoltre molto duro (è il più duro nel corpo umano) a causa dell’elevata mineralizzazione; esso è composto per il 96 % di materiale inorganico, formato in gran parte da cristalli di idrossiapatite organizzati in prismi di smalto, e per il 3-4 % di acqua.

La dentina, separata dallo smalto tramite una linea ondulata e irregolare (la giunzione smalto-dentina) è un tessuto avascolare (fibre collagene) mineralizzato che circoscrive la cavità pulpare: sottende lo smalto a livello di corona ed il cemento a livello di radice. E’ un tessuto più duro dell’osso compatto, con sostanza intercellulare la cui componente prevalente è inorganica. La formazione della dentina è preceduta dalla deposizione e successiva mineralizzazione della predentina, sostanza non calcificata e perennemente presente nel dente in modo tale che la produzione della dentina risulti continua.

La polpa è l’unico tessuto connettivo lasso, altamente vascolarizzato e innervato, contenuto nella cavità pulpare della corona e dei canali radicolari. Si differenzia rispetto agli altri tessuti connettivi per la presenza degli odontoblasti (le cellule della dentina adibite alla produzione della sostanza intercellulare); in essa è inoltre contenuta la polpa dentaria, ricca di collagene.

Il parodonto

Il cemento ed il tessuto osseo alveolare (tessuti duri), il legamento periodontale e la gengiva (tessuti molli) costituiscono il parodonto, che concorre alla stabilità del dente nell’arcata alveolare.
Il cemento è un tessuto calcificato di copertura alla radice e non va erroneamente considerato come un tipo di tessuto osseo poiché avascolare.
La gengiva è una mucosa che circonda il colletto e riveste i processi alveolari, insinuandosi tra i singoli denti a formare la papilla gengivale; verso l’apice dei dente si trova poi la mucosa alveolare, ben distinguibile dalla gengiva fissa per il colorito rosso più intenso.

Il legamento periodontale occupa lo spazio periodontale tra la superficie radicolare e la parete della cavità alveolare, confinando in alto con la gengiva e in basso con la polpa. La sua funzione è quella di legare le proprie fibre collagene (in fasci) al cemento e all’osso alveolare; tali fibre presentano anche vasi e nervi, risultano quindi sensibili alle sollecitazioni pressorie, dalle quali il legamento provvede a proteggere adeguatamente il dente. In questo tessuto ci sono molte cellule diverse, come cementoblasti, osteoblasti, fibroblasti.

L’IMPLANTOLOGIA

I tentativi sperimentali di sostituzione di denti mancanti e dei loro tessuti di appoggio (osseo e gengivale) mediante impianti artificiali sono stati condotti fin dall’antichità, ma soltanto verso la metà del Novecento, specialmente negli ultimi tre decenni, è stato compiuto il passo verso il raggiungimento di un’implantologia odontoiatrica basata su precisi fondamenti scientifici. Negli anni ’80 l’implantologia è entrata a far parte della medicina odontostomatologica, e non è più stata considerata una disciplina specialistica a sé stante.

Precedenti agli impianti sono gli utilizzi di protesi mobili o fisse, che hanno però lo svantaggio di danneggiare i denti vicini. Oltre alla sostituzione di una singola radice, un impianto può servire per mantenere ancorate dentiere instabili (l’uso delle protesi mobili è rimasto valido in questo senso).

L’implantologia si pone come settore di collegamento tra la chirurgia e la protesi: essa non rispetta l’integrità ectodermica, cioè la continuità del rivestimento epiteliale ininterrotto a livello delle superficie corporea, in quanto introduce direttamente materiali alloplastici in ambiente biologico.

Poiché persino con gli autotrapianti l’integrazione non risulta così immediata, l’introduzione di un corpo estraneo è un fenomeno delicato che presuppone un’elevata capacità rigenerativa da parte dei tessuti dell’organismo.
Gli impianti non sono inseriti completamente nei tessuti (impianti chiusi), come avverrebbe per esempio con una valvola cardiaca, ma sono aperti ed interrompono la superficie epiteliale. Gli impianti chiusi sono di raro uso: in essi il rivestimento epiteliale viene sospeso in occasione dell’inserimento e ripristinato dopo l’intervento mediante suture.

L’applicazione di un impianto risulta positiva se nel paziente si trova tessuto osseo a sufficienza, mucosa aderente estesa ed epitelio sottile. Nella pratica chirurgica l’intera operazione comprende due fasi distanti fra loro nel tempo dai tre ai sei mesi, per consentire un’osteointegrazione di successo.
In un impianto vi sono tre componenti il corpo dell’impianto (fixture), il moncone (abutment) e la vite del moncone. La parte sporgente sulla cavità orale è l’esostruttura (sulla quale verrà posta la sovrastruttura), la parte immersa l’endostruttura *2+.

La classificazione degli impianti

Gli impianti possono essere distinti in cinque tipologie:

1- Impianti sottoperiostali: una struttura metallica viene posta chirurgicamente tra la superficie ossea e il periostio, quindi subito sopra l’osso; i pilastri dell’impianto trapassano in alcuni punti la mucosa che lo ricopre. Questi impianti vengono raramente usati, data la forma poco similare alle radici naturali, quindi meno riproducente il giusto stimolo all’osteointegrazione, e presentano percentuali alte di insuccesso.

2- Impianti endossei: l’impianto è inserito nell’osso in modo diretto; mentre quelli chiusi, posti sotto il periostio, non possono comunicare con la cavità orale, quelli aperti sono dotati di un pilastro avente tale funzione; la maggior parte degli impianti endossei è proprio di quest’ultimo tipo; c’è un sottotipo di impianto endosseo destinato a rimanere al di sotto di uno strato epiteliale integro per parecchi mesi (fase di cicatrizzazione) e che viene esposto all’esterno soltanto in un secondo tempo. Sono gli impianti relativamente più diffusi, per la maggiore semplicità delle tecniche
chirurgiche e per la possibilità di applicare un nuovo impianto nel caso di fallimento.

3- Impianti endossei sottoperiostali: sono una combinazione tra le due tipologie precedenti (una parte è sopra l’osso, una parte è dentro di esso).

4- Impianti transossei: sono specifici della mandibola e la attraversano verticalmente.
Impianti transdentali: sono anche denominati endodontici in quanto stabilizzano i denti nei quali sono posti: è come se avessero una sorta di “collare biologico” per l’ancoraggio tra il sigillo di separazione con il cavo orale e il parodonto del dente naturale.

5- Impianti intramucosi: sono inseriti nella mucosa di rivestimento tramite fissazione ad una base protesica; poiché non perforano l’epitelio di rivestimento e non rimangono permanentemente nella sede dell’impianto, risultano più adatti a rientrare nell’ambito protesico classico piuttosto che in quello implantare.
Un’altra suddivisione, in quattro classi, prende in considerazione la sede dell’impianto, andando dal caso della perdita di un singolo dente all’edentulia completa (si potranno quindi applicare, a seconda dell’esigenza, corone, ponti o overdenture).
Diversi tipi di impianti. A partire da sinistra, endossei a forma di radice, un sottoperiostale e un transosseo.

Successo e durata degli impianti

Studi sempre più approfonditi hanno permesso di poter evitare il più possibile il rigetto degli impianti, fenomeno che avveniva in passato, viste le conoscenze ancora carenti in ambito osteointegrativo: si è oggi passati ad impianti con la capacità di integrarsi interamente nel tessuto naturale. La prognosi a lungo termine viene determinata dalle caratteristiche biologiche e biomeccaniche dell’osso, oltre che dall’altezza numerica dell’osso che circonda l’impianto.

Il successo di un impianto può essere decretato in seguito al soddisfacimento di determinate condizioni:

  •  le funzioni fonetica, estetica e masticatoria migliorano;
  • l’impianto sotto carico risulta funzionale per almeno cinque anni, ossia non provoca dolore ed è clinicamente stabile;
  • il parodonto è clinicamente stabile e non sanguina;
  • non si riscontra, dal punto di vista radiologico, nessun aumento della distruzione ossea; la perdita di osso non comprende ovviamente l’atrofia fisiologica che si può verificare come in tutte le protesi convenzionali; non si ha radiotrasparenza (limitata capacità di attenuazione dei raggi X);
  • le salute del paziente non viene alterata.

I fattori di insuccesso in campo implantare non presentano differenze tra i due sessi e, al contrario di quello che si potrebbe pensare, non sono così strettamente correlati all’età:

  • sede errata per l’impianto, senza osservare le dovute controindicazioni;
  • scelta non appropriata del tipo di impianto, per quello che concerne la forma e il materiale;
  • inserimento non buono (tecnica chirurgica sbagliata), con conseguenze intraoperatorie e post-operatorie;
  • mancata immobilizzazione o infezione dopo l’operazione;
  • carico eccessivo oppure carico insufficiente, entrambi non favorevoli all’osteointegrazione;
  • quantità o qualità ossea (es. osteoporosi) non appropriate;
  • complicanze di salute nel paziente e scarsa igiene orale.

I sintomi principali che compaiono in conseguenza al fallimento di un impianto sono: mobilità (già durante il primo anno), formazione di tasche e infezione (le tasche accolgono infatti la carica batterica), dolore da compressione, distruzione dell’osso, osteite, disturbi della sensibilità, parti di impianto scoperte, sinusite mascellare . Più l’impianto è mobile, più profonde sono le tasche che si formano e più aggressiva risulta dunque la reazione infiammatoria. Si viene a creare una sorta di “circolo vizioso” tra mobilità, demineralizzazione e riassorbimento osseo.

L’insuccesso immediato è legato alla distruzione rapida del contatto tra osso e innesto, tale da creare subito la mobilità dell’impianto; quello tardivo è legato all’avanzare del riassorbimento
osseo, alla profondità dell’inserimento nell’osso, all’inadeguatezza del tessuto o della superficie di partenza, e provoca mobilità solo dopo alcuni anni. In una situazione ideale, non si dovrebbe verificare né mobilità immediata, né tardiva, ed è auspicabile una prevenzione da infezioni dell’ambiente attorno all’impianto (periimplantiti), che purtroppo si rivelano più frequenti negli impianti a superficie ruvida, maggiormente diffusi per le loro proprietà osteoconduttive

L’OSTEOINTEGRAZIONE

IL TESSUTO OSSEO

Il tessuto osseo è un tessuto connettivo che si identifica fisicamente per la combinazione tra sostanza inorganica e sostanza organica, unite a formare una sostanza fondamentale amorfa.

I componenti della parte organica sono osseina e osteomucoide (una glicoproteina). Nella sostanza inorganica, che nell’adulto costituisce circa il 60-70% della massa totale ossea, si trovano fosfato di calcio (86%), carbonato di calcio (12%), fosfato di magnesio (1.5%), fluoruro di calcio (0.5%) e ossido di ferro (in tracce). Elasticità e resistenza alla trazione sono fornite dalla componente organica, rigidezza e durezza da quella minerale (per l’importante presenza dell’idrossiapatite): tali caratteristiche rendono il tessuto ideale per funzioni strutturali e di sostegno. Dal punto di vista delle proprietà meccaniche, un aumento del contenuto minerale rende l’osso fragile e friabile, una diminuzione lo rende più tenero e deformabile.

Si possono presentare due tipi di struttura, lamellare e non lamellare, entrambi dotati di cellule ossee e di sostanza fondamentale, orientati però in maniera precisa solo nel primo tipo.

La gran parte delle ossa del corpo umano sono costituite da tessuto lamellare: l’organizzazione è in più lamelle ossee, le quali hanno una parte organizzata in fibrille collagene parallele e con disposizione in strati concentrici sovrapposti; la parte libera è in sostanza amorfa, mentre una sostanza cementante ha lo scopo di saldare le lamelle fra loro. Il rimodellamento dell’osso a lamelle concentriche (a partire dalla pubertà), sia nell’osso compatto che in quello spugnoso, porta alla formazione di una struttura sempre lamellare ma discontinua, con frammenti incastrati fra loro e detti osteoni (un canale di Havers li percorre al centro). Le lamine ossee, costituite da lamelle sovrapposte, danno origine al tessuto spugnoso; il compatto si origina invece dall’unione di più lamelle e presenta dei canali non orientati con vasi o tessuto connettivo.

Per quanto riguarda l’osso mascellare, di particolare interesse per gli obiettivi di questo lavoro, è circondato esternamente dal periostio, al di sotto del quale si trova osso corticale compatto; internamente si ha invece osso spugnoso, il cui orientamento, al contrario del corticale, “varia al variare della funzione”.
Osteoblasti, osteociti e osteoclasti sono le cellule del tessuto osseo: mentre le prime due appartengono alla linea delle cellule osteoprogenitrici (mesenchimali), gli osteoclasti discendono dai preosteoclasti, imparentati coi monociti . Le cellule osteoprogenitrici sono presenti specialmente durante l’accrescimento (in misura minore nell’adulto), in quanto producono fattori di crescita e di differenziamento; dalla loro differenziazione hanno origine gli osteoblasti.

Gli osteoblasti si occupano della sintesi della sostanza intercellulare organica e prendono parte alla calcificazione (produzione di osteonectina e osteocalcina), essendo dotati di molti ribosomi e di un apparato di Golgi voluminoso; si appiattiscono sulle superfici ossee in via di sviluppo a formare lamine; partecipano al riassorbimento per via indiretta tramite stimolazione degli osteoclasti (produzione di TGF-β e BMPs), per via diretta attraverso la secrezione di enzimi proteolitici come la collagenasi.

Gli osteociti costituiscono parte degli strati ossei depositati e concorrono al mantenimento dell’osso maturo, in quanto sono osteoblasti che hanno terminato il loro compito (sono pronti a ritrasformarsi in osteoblasti se le condizioni lo richiedono). Sono pure dotati di prolungamenti ramificati e disposti nelle lacune e nei canalicoli ossei, un sistema ramificato di cavità comunicanti dove avvengono gli scambi metabolici e gassosi.

Al riassorbimento osseo sono adibiti gli osteoclasti, di dimensioni più grandi rispetto agli altri due tipi di cellule, plurinucleati e ricchi di ribosomi e lisosomi; essi liberano infatti idrolasi acide per la dissociazione dei sali minerali e la distruzione delle fibre collagene; insieme ad osteoblasti ed osteociti contribuiscono allo scambio di calcio tra osso e sangue, oltre a prendere parte al rimodellamento osseo con gli osteoblasti; la loro azione viene regolata da paratormone e calcitonina (mantengono l’equilibrio della calcemia).
Nel tessuto osseo è necessario un continuo bilanciamento tra l’attività di deposizione e di riassorbimento, al fine di mantenere costante la massa ossea e di ottimizzare le prestazioni dal punto di vista del carico.

L’OSTEOINTEGRAZIONE IN AMBITO IMPLANTARE

L’origine del concetto e l’innovazione della scuola svedese di Brånemark
Il campo della riabilitazione di pazienti edentuli è stato arricchito dall’innovazione introdotta, a metà Novecento, da un professore svedese, Per-Ingvar Brånemark, il quale ha avuto il merito di elaborare una metodica implantare basata su criteri ben definiti e su previsioni affidabili. Alla scuola svedese si deve la nascita del concetto di osteointegrazione, definita come “l’unione strutturale e funzionale diretta fra osso vitale e superficie di un impianto sottoposto a carico” (Brånemark, 1985).

Nei primi anni ’60 è stata studiata la risposta dell’osso midollare ai traumi e alle manovre clinico-chirurgiche: tre decenni di ricerca e di sviluppo, consistenti in studi clinici e laboratorio, hanno permesso di stabilire una tecnica implantologica “in grado di sostituire i denti naturali mancanti con elementi analoghi alle radici dentarie” . La scoperta che ha portato alla definizione dell’osteointegrazione consistette in uno studio dell’osso mediante microscopia ottica in vivo: si incorporò una camera ottica metallica, in titanio, nella tibia di un coniglio. Dopo l’osservazione della rigenerazione conseguente a difetti ossei indotti, si andò a rimuovere la camera e si notò che essa si era “incorporata” nell’osso. Vi era inoltre una perfetta adesione tra il tessuto apposto e le irregolarità della superficie titanica.

Gli esperimenti successivi portarono alla realizzazione di impianti dentali, le viti in titanio, e si verificò che in esse non avveniva osteofibrointegrazione o riassorbimento osseo. Era palese l’affinità dell’osso nei confronti del titanio e dello strato di ossido che si forma sulla sua superficie, più che per altri metalli fino a prima utilizzati. Legami diversi, come le forze di van der Waals, i legami a idrogeno e i legami chimici locali, hanno la capacità di unire le biomolecole allo strato di TiO2 nel caso di appropriati trattamenti. Gli impianti osteointegrati, fin dalle prime indagini, mostrarono risultati promettenti anche in pazienti parzialmente o totalmente edentuli, sebbene oggi la sperimentazione sui risultati a lungo termine non sia ancora terminata.

Per quanto concerne l’applicazione del carico, se l’impianto viene sottoposto ad uno stress precoce, si rischia di causarne la mobilità, provocando l’interposizione di uno strato fibroso periimplantare. L’apposizione di nuovo osso e la conseguente guarigione devono perciò avere deitempi minimi di attesa, 4 mesi per la mandibola e 6 per la mascella (tempi definiti dallo stesso Brånemark). La metodica svedese ha definito un modello di distribuzione dello stress equilibrato e accettabile sotto il punto di vista biologico, favorendo una corretta spartizione dei carichi occlusali sull’osso che circonda il sito dell’innesto, onde evitare di fare pressione su zone non desiderate.
Anche i controlli regolari e un’adeguata igiene orale contribuiscono ad evitare il fallimento del processo osteointegrativo.

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