Un’ombra in carne e ossa

Un’ombra in carne e ossa


Riserva naturale di Debrecen, 10 settembre 1999. Quel giorno pioveva a dirotto, come succedeva da sempre durante il periodo autunnale eppure, Heléna si trovava lì. Non le importava essere avvolta da quel immenso manto umido e abbastanza freddo, da farle coprire il capo.

Quello era l’unico posto dove, durante una giornata come quella, avrebbe trovato della pace interiore. Era lì, da sola con le molteplici e piccole gocce che le cadevano addosso. Si guardava intorno e tentava di intravedere il suo riflesso, nell’acqua tintinnante del lago. Da quando ne aveva memoria, si recava sulle sponde del lago Békás a cercare il suo riflesso, qualunque tempo atmosferico ci fosse stato. Se ne stava lì, ferma e in silenzio mentre il resto della città viveva. Quando la pioggia iniziò a cadere in modo incessante, simile quasi a lame pesanti, Heléna incominciò ad avviarsi verso casa.

L’esile e lievemente infreddolita Heléna, di statura non superante il metro e settanta, camminava il più svelta che potesse e a ogni passo, il suo impermeabile si mimetizzava con quel luogo circostante.

Per quanto non fosse difficile uscire da quel luogo, le sembrava ogni volta dover cercare l’uscita di un grande labirinto, fatto di sentieri identici tra loro. Degli starnuti non mancarono ad arrivare e diversamente dalla calma con cui era arrivata, ne uscì correndo. Giunta finalmente fuori, i suoi occhi blu come gli abissi di un grande oceano, notarono la macchia urbana a cui era legata da quasi un’intera vita. Camminando tra la gente, si accorse della sua infinita e tanto amata solitudine. Quest’ultima era così detestata dalla gente. Essere soli rispondeva automaticamente all’essere tristi ed emarginati da quella società tanto evolutasi dal Big Bang. Eppure, per lei non era mai stato così e non aveva mai avuto bisogno di nessuno.

La sua idea di compagnia non sarebbe stata capita in nessun contesto di amicizia e per Heléna Horváth, venticinquenne originaria di Sárvár, il detto “meglio soli che mal accompagnati” era da sempre un mantra giornaliero. Era stata mal accompagnata per tutta la sua vita o almeno era questo che albergava all’interno della sua testa, dove i pensieri venivano coperti dai lunghi capelli biondo cenere. Sárvár, situata nella parte nord-occidentale dell’Ungheria l’aveva vista nascere, precisamente il 7 agosto del 1974. Da madre a lei ignota ma conosciuta in quel piccolo paese grazie alle sue medaglie di alzatrice di gomito e affettuosità garantita, a uomini di passaggio.

Non le dissero mai il suo nome e Heléna neanche lo chiese, quando iniziò a parlare.

Partorita in casa e abbandonata davanti all’ospedale finì in quella che veniva definita come “casa famiglia”, in cui di familiare non vi era nulla. Le piaceva ripensare al suo passato di tanto in tanto, quando camminava in mezzo a tutte quelle persone viventi nella sua stessa città ma non curanti della sua presenza. Nessuno avrebbe davvero messo da parte la propria storia per capire la sua, per questo la compagnia non era qualcosa che le interessava. Persino gli interessi amorosi cercava di tenere alla larga, tanta la paura di finire come la donna che l’aveva portata in grembo e poi regalata, al miglior offerente.

Solo lei avrebbe potuto aiutarsi, in un mondo quasi vicino a un altro secolo ma con la mente ferma.

Percorse le vie di Debrecen, attraversò strade e marciapiedi per poi giungere all’ultimo semaforo prima di casa sua. La pioggia ormai era cessata e un vento non troppo freddo le fece sventolare le ciocche di capelli, uscenti dal cappello di lana rossa. Attese pazientemente la trasformazione di quella piccola luce verde, col potere di arrestare la città appena fosse diventata rossa. Avrebbe voluto lei stessa possedere tale dono, fermare tutto e tutti a suo piacimento e farli ripartire appena fosse stata pronta. «Ferma! Vuoi ucciderti? Perché così creeresti solo dei problemi ad altri…» Le disse una sconosciuta afferrandole il braccio sinistro, con una tale forza da farla tornare indietro. Il semaforo non era ancora scattato e una vettura l’avrebbe investita, senza l’aiuto della donna accanto.

Il conduttore alla guida della trabant rossa suonò il clacson violentemente e Heléna non reagì, rimanendo ancora incredula per qualche secondo.

Senza guardare ma solo osservando la parte opposta della strada, si era accinta ad attraversare. Quando ritornò in sé, l’auto per un momento sua possibile assassina, si era già persa nel traffico e guardò la donna accanto a lei in modo confuso. «Grazie… Io, io sarei morta credo ma lei… Lei mi ha salvata. Signora… Signora?» disse Heléna, ancora disorientata e con gli occhi quasi fuoruscenti dalla orbite. La sua salvatrice la osservò in modo curioso e non sicura che la ragazza stesse davvero bene. Attorcigliando un po’ le labbra disse a Heléna, con voce pacata ma sicura: «Sì, direi proprio che ti ho salvata. Signora Susanna, anziana che ancora guarda dove cammina. Stai bene ragazza? Ormai la luce del semaforo è verde ma lasciandoti qui da sola ho seriamente paura che tu possa fermare il traffico!» Heléna la ascoltò attentamente e osservò quella strana signora Susanna e il suo abbigliamento. Era molto magra, quasi non mangiasse abbastanza e indossava una pelliccia nera i cui pelucchi svolazzavano grazie al vento.

Quell’indumento, le sembrò troppo pesante per un venticello così mite e tale pelliccia trasformava quella apparente gentile signora in un lupo mannaro. Alle gambe portava delle calze rosse e le sue calzature erano delle semplici scarpe nere inverniciate. Aveva un taglio di capelli molto corto e due piccoli ciuffi, simili a corna, le scendevano sulle guance.
Grandi occhiali dalla montatura tonda le adornavano il viso, quasi a prenderne tutto lo spazio. Non indossava lenti, gli occhiali ne erano privi e tante, tante rughe erano presenti come cicatrici sul suo volto. Al collo infine, indossava una collana fine di perle con al centro un giglio bianco. Non era un abbigliamento ordinario, tuttavia quella donna le sembrò familiare. «Allora? Mi hai sentita Heléna?» le chiese Susanna, avvicinandosi a lei.

«Come sa il mio nome? Io non gliel’ho detto…

Comunque sto bene ma devo tornare a casa!» le rispose con aria misteriosa. Quell’eccentrica signora di città conosceva il suo nome e Heléna non capiva come ciò potesse essere possibile. Non era sua amica, non era sua conoscente e a Debrecen vi erano troppe persone affinché quella Susanna avesse indovinato un nome casuale. «Oh cara, io conosco molte Heléna… Non sei l’unica. Torna a casa, guarda dove cammini e riposati. Hai tutta la vita davanti!» le disse Susanna, voltandosi dall’altra parte e percorrendo un’altra strada. Heléna non fece in tempo a risponderle che si voltò e la sua salvatrice si era persa nella folla delle persone venute ad attraversare la strada, nel suo stesso punto.

Provò una strana sensazione, una sorta di déjà vu ma non ci fece troppo caso e si perse anche lei, in quel gregge umano. Un raggio di sole si fece spazio tra le nuvole e la ragazza giunse a casa, sana e salva. Aprì il portone, guardandosi intorno dato il troppo silenzio intorno a lei. Amava la quiete o forse la osannava ma quella sensazione non la lasciava andare. Entrò e si tolse i vestiti umidi, rimanendo con solo la biancheria intima addosso e indossando un accappatoio sopra di essa. Heléna era ancora scossa da quello che le era accaduto, il mancato incidente inoltre era passato in secondo piano nonostante fosse stata la cosa più grave. Quella donna però, quell’essere così diverso da quelli che vedeva ogni giorno, le era entrata in testa e non riusciva a dimenticarla.

Solo un bagno caldo la fece rilassare e quasi dimenticare, ciò che aveva vissuto.

Heléna non era mai stata una persona impressionabile o timorosa, nemmeno quando la madre affidataria Ágnès l’aveva rinchiusa al buio in cantina per dodici ore, solo per aver osato mangiare i biscotti di sua figlia, la perfetta Edit. Nonostante avesse avuto 7 anni all’epoca del fatto, non aveva avuto paura. Questa volta invece, qualcosa la stava spaventando e sembrava provenire dal tanto “gioioso” passato. «Perché quella signora conosce il mio nome? Non ho fatto in tempo a chiederle spiegazioni, avrei dovuto fermarla! Qualcosa in lei non mi convince… Come se avesse saputo che ero lì…» pensò Heléna, sdraiata sul divano con in mano una bollente tazza di tè, con retrogusto ai mirtilli rossi. Il suo preferito. Quella donna c’era stata, l’aveva salvata ma era sparita in un istante e si era persa nella confusione della grande città ungherese.

Era stata un’ombra in carne e ossa. In mezzo a tutti questi pensieri e domande, Heléna si addormentò profondamente.

La mattina seguente si svegliò di soprassalto. Ebbe l’impressione che qualcuno o qualcosa la stesse osservando da fuori la finestra del suo salone, illuminato da un sole pallido. Heléna si alzò immediatamente, facendo cadere a terra la tazza della sera precedente, rimastale appoggiata sopra al busto. I cocci fecero un gran rumore e la bellissima tazza di porcellana rossa, con decorazioni floreali bianche sul dorso, si divise in mille pezzi e nel raccoglierli, si ferì alle mani. Heléna si bendò le ferite, andò subito in bagno, si lavò, si vestì e controllò il tempo atmosferico prima di aprire il portone. Si accorse tuttavia, osservando il calendario al lato della porta, l’essersi sbrigata per nulla. Era sabato mattina e non sarebbe dovuta essere in biblioteca, dove lavorava ormai da tre anni.

Dimenticava spesso che quel lavoro la teneva lontana dalla sua abitazione quattro giorni su sette.

Decise comunque di uscire di casa, quelle persone da cui tanto cercava di stare lontana le avrebbero fatto compagnia, in un sabato più insolito degli altri. Uscì e chiuse la porta dietro di sé. Coperta in modo leggero ma ancora accompagnata dal suo fedele cappello, si diresse verso la biblioteca dell’università. Frequentare il luogo di lavoro in un giorno di riposo, l’avrebbe distratta o questo era quello che pensava. Non ci mise molto a raggiungere la sua destinazione e questa volta, stette attenta al traffico e a non farsi investire né tantomeno farsi salvare da nessuno. Quella donna, il suo strano viso e la sua aura le mettevano ancora soggezione e solo entrando nella grande biblioteca, riuscì a smettere di guardarsi le spalle. Heléna era incredula, sembrava sudare freddo e tremare di fronte al nulla.

I tanti studenti, suoi coetanei, le passavano di fianco senza vederla e giunta nell’atrio non trovò nessuno alla scrivania d’accoglienza.

Nessuno che la stesse sostituendo nel suo giorno libero. Lo trovò curioso ma pensò: «Sicuramente sarà in bagno… Mi sceglierò qualcosa da leggere e cercherò di rilassarmi. Mi sto comportando come una bambina, devo smetterla di pensare a quella Susanna.» Non era un’amante del genere fantasy, né dei gialli o dei romanzi rosa. Heléna leggeva quasi sempre degli horror o dei noir, aventi trame complicate e personaggi elaborati. Libri che non riusciva mai a finire data la sua pigrizia ma solo a cominciare, aventi storie così reali. Le sue mani toccarono vari testi ma alla fine scelse “Il reparto”, un romanzo horror che aveva letto tempo prima ma di cui non ricordava quasi più la trama.

Era un grande libro, dalla copertina rossa con illustrata sopra una camicia di forza bianca.

La biblioteca sembrava infinita, nonostante ciò, Heléna era in quella stanza di lettura da sola con la sua voce interiore che leggeva attentamente. Da un angolo nascosto di uno scaffale qualcuno la fissava, controllando ogni suo respiro. Heléna si accorse di quello sguardo, pesante come ferro su di lei e innalzando la testa rivide la tanto bizzarra Susanna. Il cuore le si fermò, era solo una signora avente forse sessant’anni ma quegli occhi castani scuri, dietro gli occhiali senza lenti, la fecero alzare immediatamente da quella sedia beige a cui era seduta. «Ci rivediamo anche oggi Heléna, come stai? Ti sei ripresa spero!» le disse Susanna, avvicinandosi con indosso una tuta da ginnastica e la sua solita pelliccia nera e ingombrante.

«Come sa il mio nome? Chi è lei? Mi sta perseguitando?

Perché se è così deve smetterla o lo dirò alla polizia!» le urlò Heléna, quasi terrorizzata. Quella donna le aveva salvato la vita il giorno precedente ma non si fidava di lei, sembrava conoscerla e forse pericolosa. «Shhh! Non vedi che siamo in un luogo pubblico? Non puoi urlare, devi stare in silenzio cara. Non avere paura, sono qui per te. Ti ho salvato dopotutto.» le disse Susanna, avvicinandosi a lei lentamente. Heléna si innervosì, chiuse il libro con furia e cercò di andarsene dicendo: «Chi sei tu? Cosa vuoi da me? Stammi lontana, io non ti conosco!» Susanna l’afferrò nuovamente per il braccio, mostrandole i segni di legature ai polsi e le ferite alle mani, dicendole: «Heléna, non puoi scappare.

Questo non è il tuo mondo, questa non sei tu. Io sono la vera te, tu sei solo una mia fantasia Heléna.

Una falla del sistema» Heléna si fermò e spaventata guardò Susanna. Subito dopo, guardandosi riflessa al vetro di uno degli scaffali, vide Susanna in lei. Si toccò il viso con le mani tremolanti e ruvide, per poi urlare ed entrare con violenza dentro quel suo riflesso. Heléna, il cui vero nome era realmente Susanna Kossuth, si ritrovò sdraiata in un letto d’ospedale immobile, legata da una camicia di forza. I suoi occhi erano aperti e notarono uno schermo, accanto al suo letto. La sua pressione veniva visualizzata come 40/70 e le era stato impedito di parlare, data la moltitudine di calmanti prescrittigli. Nella sua stanza, si presentò la paziente del letto di fronte, la donna dagli abiti stravaganti e indossante una suntuosa pelliccia nera.

Si avvicinò a Susanna e le spiegò cosa aveva sentito dall’infermiera Edit e dalla psichiatra, la dottoressa Ágnès Horváth, venuta apposta da Debrecen per seguire il suo caso. Nella sua casa di Sárvár aveva tentato il suicidio, tagliandosi i polsi e le mani, dopo che sua sorella Heléna era stata investita da una donna ubriaca, mentre andava al lavoro. Il mezzo era una trabant rossa, targata UKD 199. Quel grave incidente aveva generato un forte trauma nella sua memoria, facendole rivivere una realtà alternativa in cui aveva vissuto la vita della sorella Heléna, circondata dalle storie delle persone presenti nel reparto. Delle lacrime scivolarono sulle sue guance, incastrandosi tra le molteplici rughe. Nella sua mente aveva vissuto una vita che non le era mai appartenuta, quella della sorella ormai morta.

La vita di un’ombra in carne e ossa.