La gente, che lo ammetta o no, odia prendere il treno. È un dato di fatto inconfutabile, soprattutto a Napoli: le attese, il frastruono, le complicazioni varie.
Non lo prendo mai il treno, io. Oggi ho dovuto.
Alla fermata c’erano due bambini; la femmina era più grande, il maschio più piccolo. Ridevano, scherzavano e si rincorrevano, fino a quando la loro madre non gli ha intimato di star tranquilli, fermamente ma con l’amore negli occhi.
La bambina si è portata un dito alle labbra per zittire il fratellino, e ha iniziato a parlare con lui tramite sussurri; il bambino ha imitato il suo parlar piano all’istante.
Un piccolo uomo ha seguito l’esempio di sua sorella, la sua guida, e non ha smesso mai di farlo, nemmeno quando la sua mamma ha detto, sorridendo:
“Guardate che potete parlare!”.
Ho passato cinque minuti ad osservare quei bambini, prima che il treno arrivasse. Ho visto quanto amore c’era fra di loro, e in quei cinque minuti li ho amati.
Io, che i bambini non li amo mai.
Ma non ho amato solo loro.
Salita sul treno, mi sono accorta di una ragazzina – di qualche anno più giovane di me – costretta su una sedia a rotelle.
Il paragone è stato inevitabile: nei bambini avevo visto innocenza, serenità, voglia di vivere e di imparare soltanto cinque minuti prima.
In quella piccola donna e in sua madre, invece, ho visto una grande ingiustizia e una quantità indefinibile di dolore. Ma – perché un ma c’è sempre – ho anche letto nei loro occhi l’amore sconfinato che c’era fra loro, come quello tra i due bambini.
Ho tremato per l’intensità di quel sentimento.
Quarantacinque minuti. Un intero mosaico di tipi umani. Amore, dolore e gioia che si intersecavano, come pezzi di un grande puzzle.
Ho scoperto il mondo interiore degli esseri umani, io che il mondo non l’ho capito mai.