Noi: ragazzi di oggi

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Etichettati dall’Economist “generazione di esausti”, rappresentati da Venier con la “generazione mille euro”, raccontati da Serra attraverso la “generazione di sdraiati”, identificati dall’ “innominabile” con la “generazione di – bamboccioni – trentenni che vive ancora a casa con i genitori”, noi ragazzi di oggi, non siamo altro che noi.

Siamo una parentesi, una zona cuscinetto. Stiamo a metà tra la generazione dei nostri genitori e quella dei nostri fratelli e sorelle più piccoli.

Mentre a 35 anni ci chiediamo se è giunto il momento di spiccare il volo fuori dal nido di mamma e papà, i nostri fratellini si inventano nuove professioni, usano i social per lavoro, vivono da soli da un pezzo.

Noi, stoici, crediamo nel contratto a tempo indeterminato, che oggi non vale una “cippa”. Il Matteo nazionale ha compiuto il maleficio: è riuscito a rendere precario l’unico contratto che non lo era.

Nel frattempo nostra sorella ha già aperto e chiuso almeno due partite iva. E oggi si avvia a costituire una s.r.l.s.

Ma noi siamo speranzosi. Fidiamo nell’indeterminato, requisito indispensabile per un mutuo trentennale, garantito da un rene di mamma e una cornea di papà, possibilmente vincolato a dovere da una firmetta della nonna ultraottantenne che percepisce la pensione grazie ai versamenti Inps – gestione separata – dei nostri fratellini.

Ma noi perseveriamo. Perché se c’è una cosa in cui siamo bravi, forse eccelsi, è sicuramente l’arte dell’attesa. Attesa di che cosa ancora non l’ho ben capito.

Forse l’attesa di vincere un gratta e vinci per comprare casa a Cortina, diventare vicini di casa di Vacchi e aspirare a fare le comparse nelle sue coreografie, per poi etichettarci imprenditori.

E allora aspettiamo pazienti che il contratto a progetto – ormai abrogato dalla legge – ma non dalla consuetudine si trasformi in un contratto a tempo indeterminato.

O che la stronza in maternità che sostituiamo abbia una depressione post partum e quindi la nostra sostituzione si prolunghi.

Alcuni sperano ancora che il loro stage decennale si trasformi in un contratto a tempo determinato, che comunque è meglio di niente. Perché alla fine, noi, oggi, siamo la generazione per cui l’importante è avere un pezzo di carta. Quale che sia è indifferente. L’importante è che ci sia. Poi se non ci pagano lo stipendio, poco male, tanto comunque abbiamo un contratto in mano.

Tra i pezzi di carta da possedere la laurea è sicuramente over the top. Una laurea serve sempre. Un po’ come il greco e il latino che al liceo aprono la mente.

Una laurea resta a prendere polvere mentre noi finiamo il nostro turno da Bershka, batte 10 a 0 il lavoro di nostro fratello (non laureato) che usa hashtag per vivere.

Mentre la domenica mattina ci rigiriamo nel letto in hangover, dalla sala arrivano voci di genitori preoccupati che come un disco rotto ricordano i loro 30 anni: casa di proprietà, figli, seconda macchina erano già stati spuntati dalla lista e si veleggiava lisci verso la casa di vacanza.

Noi generazione cuscinetto siamo bloccati in un limbo: niente contratto indeterminato, niente casa; niente casa, niente figli; niente figli, nessun esigenza della seconda macchina.

Per ora di macchina ne abbiamo una e, 99 volte su 100, abbiamo finanziato un’automobile di tendenza a nome nostro, ma ogni mese papà ci “giroconta” il corrispettivo.

In piena linea con il concetto di vita e società liquida di Bauman, ci affanniamo per essere inclusi nel gruppo.

Rateizziamo la tv 60 pollici curva, la borsa griffata e anche le vacanze perché, insomma, passare l’estate a Celle Ligure non è così di tendenza come un viaggio attraverso il Laos e la Cambogia.

E così, giorno dopo giorno, mentre la nonna ci loda per la nostra perseveranza a rimanere sotto padrone nonostante le difficoltà, mentre la mamma ci chiede quando finalmente convoleremo a nozze con la persona che ci ha accompagnato negli ultimi 10 anni, ecco che ci scatta quello che io definisco “imprinting”.

Di colpo realizziamo che i 40 sono vicini, che avvisare i genitori se si sta fuori il sabato notte è fuorimoda, che forse il capo non ci prenderà sul serio se non siamo ben radicati anche a livello familiare.

E così scatta la corsa alla stabilizzazione. Di corsa a cercare una casa sufficientemente grande per ospitare dolce metà, due figli, cane, gatto e due macchine, abbastanza vicino alla casa di mamma e papà perché comunque 8 mani sono meglio di 4.

Mentre incaselliamo ogni singola vittoria, ecco che il Jobs Act ci punisce e l’azienda ci dà il benservito, infiocchettandoci un cocomero e un peperone.

Corriamo dalla nonna, che comunque ci loda a prescindere perché siamo i primi laureati della famiglia. Andiamo da papà che ci tranquillizza promettendoci di aiutarci a far fronte alle rate del mutuo. E alla fine andiamo dai nostri fratelli che senza farci troppe domande, ci offrono una collaborazione all’interno di quel mondo così lontano che noi neanche capiamo bene a cosa andiamo incontro.

Una volta rimessi in carreggiata, le prospettive non sono poi diverse. Le prospettive non ci sono, perché noi siamo la generazione della comodità: nessuno “sbattimento”, nessuna voglia di improvement.

Solo estrema tranquillità e 8 ore di lavoro.

Neanche le questioni politiche ci toccano davvero dal profondo, unico vero motivo di scontro con i nonni. Loro che un tempo si facevano sentire e che scendevano in piazza.

Noi, ragazzi di oggi, che a malapena sappiamo il nome del presidente della Repubblica.

Noi ragazzi di oggi siamo come l’isola che non c’è: una brutta evoluzione delle generazioni precedenti e un pessimo spunto per le generazioni future.

Per trovarci, “seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino”.