Ambrogino d’oro a Chiara Ferragni e Fedez. Un capitale d’idee espunte dalle sensazioni dei corpi.

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MILANO. Il comune destino di due personalità – ritenute tra le più influenti della città meneghina – si accorda al privilegio di ricevere, nello stesso giorno, la massima onorificenza, concessa a quanti si trovano a rappresentare – in quel momento o in quella stagione – il volto rigoglioso della città, quella cerebralità creativa, culturale e produttiva di quanti ne hanno fatto la storia – assicurandole la gloria – e di tanti che ancora oggi seguono a vivere in un rapporto di continuità con la modernità, attraverso le carriere e il talento che certo non si trasmette, ma viene alimentato dalla passione e dal rapporto con la tradizione, quand’anche questo si dovesse rivelare in tutta la sua conflittualità o in una forma di aggressività che ci chiede oggi di prendere posizione sulla guerra (così come noi ne chiedemmo ragione ai nostri educatori, con la superbia dell’età e le intemperanze, che certo non mancarono)  e non mi riferisco appena ai tanti focolai di guerra, che sono propri dell’avventura di paesi per nulla estranei all’idea della pace, ma alle nostre guerre personali che c’impediscono di ragionare come giustizia vorrebbe e quindi di riconoscere l’onere di chi accetta di darci credito perché convinto del buon successo di una storia comune che costa disistima, sfiducia e anche discredito, a bilanciare il timore e l’esitazione tipica del mondo contemporaneo.

I Ferragnez ricevono così l’Ambrogino d’oro, dalle mani del sindaco Sala, nel corso di una cerimonia molto suggestiva che li vede impeccabili nel loro abito scuro, con l’espressione del viso che lascia trasparire l’imbarazzo e l’ansia coperta dal pudore e dal contegno del momento solenne.

Si premia cosa?

L’umana animalità vestita dell’artificio della regressione fantastica, che esaurisce, fino a spegnerla del tutto, la cerebralità dell’uomo in cammino lungo un finto itinerario formativo, che lo condanna a fare molti mestieri per dimostrare la sua stupidità e l’inutilità necessaria a vivere nel crogiuolo delle leggi della materialità, dove gli è dato di distinguere l’ironia, che sembra conveniente, quando non lo è, dalla leggerezza che dimostra quando in realtà è restio a tollerare lo scherzo, la piacevolezza e l’arguzia di una frase fatta (la più classica delle gaffe) che fa crollare certezze e illusioni, che rendono padroni del momento, se a fare da cornice mancano i riferimenti magici e alchemici tipici della cultura rinascimentale italiana.

L’attimo è un’avventura che culmina nei tanti fallimenti che preparano una storia nella quale il mondo moderno ha la possibilità di specchiarsi e di rispecchiarsi, in un modello di vita basato sull’identità nascosta o ignorata che sarà rivelata alla storia in forma solenne.

Quando accade? Quando viene rilasciata la patente di guida? Quando andiamo a ritirare la nostra prima autovettura? Quando raggiungiamo la maggiore età? Quando andiamo a votare la prima volta? Quando si definisce il rapporto con i moderni? Ma si definisce una volta per tutte?

Bella domanda. Io credo di no, ma esiste un momento in cui si concretizza e diventa chiaro e leggibile da tutte le latitudini. La crisi epocale nasce da questo vuoto nella storia che porta a soccombere alla superiorità dei moderni. Una superiorità che conta e  che è stata la spina nel fianco per la generazione dei millennial. E non è un caso – voglio dire- se questa generazione va dal 1981 al 1996, trascinandosi i nativi digitali e le generazioni che seguiranno.

E quanto pesa la superiorità dei moderni adesso che la pandemia li ha chiamati a raccolta?

Beh, almeno quanto la nostra stessa presunzione, direi, e quanto  l’ ambizione di vivere un viaggio unico, in una vita nella quale c’illudiamo di riuscire cambiare gli altri, le cose o addirittura il mondo per essere padroni della nostra storia, quando questa ci chiede rinunce che cominciano a rasentare la follia. Una storia infinita, a quanto pare. Una storia che ha un prezzo e che, tante volte, ci chiede di essere meno equilibrati e raziocinanti di quanto ci sforziamo di essere per motivi legati alla superbia e alla vanità.

A tal proposito, penso che siamo destinati a restare uomini e donne ideali. Certo, ci è chiesta una buona dose di fede e di pazienza per tenere botta, come si soul dire, per parare i colpi del destino e la malvagità bella e buona, ma sempre terribile a vedersi, che apre alla grazia, tardi o presto.

Addirittura i Ferragnez, che pure non sembrano avere nessuna familiarità con Ulisse, scelgono di conservare quell’aurea mediocritas che porta a vivere con misura una grandezza del tutto apparente, fatta di narcisismo e provocazioni. La tragedia e la commedia classica, in uno stato di diritto, rappresentano un limite per gli spettatori ideali che tuttavia devono conservare il diritto di poter raccontare e questo diventa possibile attraverso l’epopea omerica e tutto un discorso sull’agnizione che rende plausibile il disvelamento dell’identità e la moltiplicazione dei significati e di costrutti.

La storia di un lettore medio, ma anche una storia in linea con i principi della civiltà cattolica. Un’altra storia, evidentemente. Una storia rara, ma sicuramente utile, a giudicare dal rapporto difficile con la provincia, che resta un ottimo banco di prova per rimettere apposto la trama. La storia di Chiara e Fedez è una storia per la provincia. Anna e Marco. Qualcuno li ha visti tornare tenendosi per mano.

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Ambrogino d’oro a Chiara Ferragni e Fedez. Un capitale d’idee espunte dalle sensazioni dei corpi.