Ho sempre amato la letteratura sudamericana, sin da quando lessi per la prima volta il libro capolavoro di Gabriel Garcia Marquez “ Cent’anni di solitudine “.

Dinnanzi a me si spalancò un mondo intero, cominciai a viaggiare con la mente lungo quel continente enorme, ricco di immagini, natura, misticismo e costellato di personaggi molto accattivanti.
Mi spostai da un paese all’altro, percorrendo le carrettiere più polverose al mondo, soffermandomi, con estrema curiosità, nell’arido deserto di Atacama. Ero in Cile, non nella decadente ed affascinante Santiago, né tanto meno nella rigogliosa Valparaiso ma in una miniera di salnitro.

L’incontro con Hernan Rivera Letelier fu fatale. Il primo libro che lessi fu “La regina cantava rancheras” appena uscito in Italia tradotto nella nostra lingua.

Le descrizioni dei luoghi, la polvere acre che si respira, i personaggi descritti con assoluta dovizia di particolari, rendono i suoi testi assolutamente palpabili ed organolettici. Figure umane che vivono ai confini del mondo, in apparenza ai limiti della trasgressione e dell’anarchia ma che possiedono un profondo senso dell’umanità.
Lacerati dal luogo in cui vivono, negli asfittici spazi cavernosi, bevendo alcolici scadenti in bar improvvisati o consumando l’amore in postriboli costruiti con lamiere , tutti, nessuno escluso, edificano quella complessa struttura che si chiama vita.
Le sovrastrutture sono del tutto assenti, ogni personaggio è ben delineato nella sua cruda identità ed è per questo che il lettore viene immediatamente attratto.
Questo genere di narrazione trasporta nell’inchiostro della penna dell’autore tutte le molecole di un vissuto che, verosimilmente, possono appartenere ad ognuno di noi.

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