Voglio parlarvi di Aïcha. Padre Italiano e madre Algerina. I genitori si erano conosciuti a Pavia sotto agli archi di Piazza Vittoria.
Lui cameriere, lei figlia del titolare del ristorante, e fu subito amore. I nonni venivano da Tipaza che era una colonia Romana. Li sono ancora visibili le rovine di Tipasa (Così chiamata dai Romani). Di fede cristiana si trasferirono in Italia negli anni 50. Si fermarono prima a Roma qualche anno e poi si stabilirono definitivamente a Pavia chiamati colà da un cugino. La famiglia di Aïcha in Algeria era proprietaria di un avviato centro di vendita di cammelli. Il nonno aveva preso parte più volte alla corsa dei cammelli alla quale partecipavano tutte le tribù del Sahara meridionale, del Niger e del Mali e che si tiene a Tamanrasset e aveva vinto diverse gare, l’ultima a settant’anni suonati. Ma l’avvento dei mezzi di trasporto aveva di molto ridotto l’uso del cammello e l’azienda, un tempo florida, si stava avviando ad un rapido ridimensionamento.
La mia amica l’ho conosciuta molti anni fa a teatro, eravamo andati a vedere Jesus Christ Superstar, il Musical. Ci accomunava la passione per la musica dal vivo ed entrambi adoravamo i Queen. Lei li amava a tal punto che andò, appena maggiorenne, a vederli a Londra nel mitico concerto di Wembley. Il coro di 100mila persone accompagnò il gruppo dall’inizio alla fine del concerto. Il brano che più la colpì fu quello eseguito da Brian May con la chitarra acustica e Freddie Mercury che cantò Love of My Life. Durante la canzone Freddie si fermò e lasciò cantare a squarciagola il pubblico per buona parte del brano, e fu l’apoteosi.
Questa canzone fu scelta da Aïcha come colonna sonora della sua vita.
Tornò a casa afona, successivamente si fece incidere sul braccio la data del 12 luglio 1986 e “Love of My Life”.
Tutto questo e altro me lo raccontò durante i nostri incontri. Siamo usciti molte volte e abbiamo provato anche a metterci insieme, ma ci accorgemmo che non funzionava e così siamo diventati amici, inseparabili.
Io le racconto la mia vita e lei fa altrettanto. Molto semplicemente spogli, senza maschere, l’uno di fronte all’altra.
Ci ritagliamo un po’ di spazio tra un amore, il lavoro e i problemi della vita e andiamo a passeggiare oppure a fare un aperitivo, una cena, e ci raccontiamo con le parole che vengono dal cuore.
Sapete, l’ho abbracciata molte volte, ne aveva bisogno. Anche lei mi ha abbracciato molte volte, ne avevo bisogno. E questo è successo a lei e a me, senza nemmeno chiedere.
Aïcha è anche master Reiki, fa le costellazioni, meditazione, una streghella insomma.
Ve la descrivo:
È alta circa un metro e settanta, con una massa imprecisa di capelli ricci che circondano un bel viso ovale con due occhi verdi. Si, avete letto bene, verdi come lo smeraldo! Occhi, belli e dolcissimi, occhi che agli sconosciuti incutono timore mentre ad alcuni li fa impazzire d’amore.
Con il suo aiuto, dopo diversi corsi, sono arrivato al terzo livello Reiki. Sono molto richiesto dagli amici con i quali faccio calcetto, ho anche il sospetto per non dire certezza che sto in squadra perché ho questa “peculiarità”.
Di professione mi occupo di informatica, pc, reti etc. Anzi mi occupavo, oramai da gennaio 2019 sono andato in pensione. Per hobby faccio teatro da 4 decadi. L’ho scelto per difendermi dal mio lavoro che a volte era molto arido.
Tra un corso teatrale e l’altro ho conosciuto molti amici con i quali di tanto in tanto ci ritroviamo in giro per l’Italia. La parte più gioiosa è la sera quando tutti insieme andiamo a cena. Ricordo che a una di queste partecipò anche Aïcha, come infiltrata.
E così tra una portata e l’altra si faceva amicizia, ci si conosceva. Dopo poco la mia amica si trovò contesa tra due ragazzi i quali rimasero affascinati dalle sue doti affabulatorie. La streghella gli stava facendo girare la testa come una trottola e l’atmosfera era di grande complicità.
Lei era reduce da una convivenza finita, purtroppo, con la morte del compagno che si era ammalato del morbo della mucca pazza. E anche se agli altri si mostrava gentile, brillante e dolcissima, il suo cuore non era disponibile per nessuno.
Si chiamava Federico, avevamo frequentato lo stesso istituto in anni diversi. Quando lui si diplomò io iniziai il primo anno. Stonato come una campana fu ribattezzato da lei in “Freddie” in onore del cantante dei Queen al quale rassomigliava soprattutto per la dentatura sporgente e il viso squadrato. Più volte a carnevale aveva indossato i panni del mitico cantante per far piacere a Aïcha. A casa loro c’era un poster dei Queen che occupava una parete, e Freddie Mercury era in primo piano con il suo inseparabile microfono con mezza asta, il suo giubbino giallo e i pantaloni bianchi con le strisce rosse. Federico era sornione, divertente, affettuoso e mai banale e lei era la sua giusta metà. Si conobbero in un Pub, lei raccontava agli astanti la sua notte a Wembley quando dal tavolo vicino un ragazzo si avvicinò e disse che anche lui era li quella sera e fece vedere il braccio con inciso la data e la frase “Love of My Life”.
Tra i due l’amore crebbe subito e si mantenne fortissimo, indissolubile. Si capiva da come si cercavano con gli occhi quando cantavano la loro canzone a squarciagola, come erano complici nella loro relazione, come passeggiavano l’uno nella mano dell’altra.
Ella lo aveva riposto nel suo cuore con i ricordi strazianti degli ultimi giorni. Da quando successe il fatto, una volta la settimana, andava al cimitero a trovarlo e a portare fiori freschi. Dopo la morte del compagno ci vedemmo parecchie volte. Probabilmente ero l’unica compagnia che sopportava. Cercai di fare il possibile per tirarla su. Lei mi sorrideva quando provavo a fare lo scemo, ma i suoi occhi erano pieni di un oceano di tristezza. Quando ascoltava la sua canzone alla radio inevitabilmente scoppiava a piangere.
Io? Non stavo granché bene, ogni mattina indossavo la mia maschera e poi via al lavoro.
Il ritorno a casa era la cosa che più mi faceva male. Non sentivo la voce di mia figlia, o i suoi passi, le sue attenzioni, le carezze, i bacini.
Tutto era finito con un divorzio e tanta rabbia, rivolta principalmente a me e poi alla mia ex moglie. In aggiunta a tutto questo si unì il dolore che provai nel vedere la mia amica così duramente colpita negli affetti dalla morte del compagno.
Aïcha ereditò, tra le altre cose, dieci ettari di terreno coltivati a olivi. La storia di questo terreno è molto antica. Nel 1830 il Conte, proprietario dell’oliveto, assunse un giovane di nome Dario, trisavolo di Federico, il quale nel corso degli anni si fece così ben volere che divenne in pochi anni il fattore della tenuta. Il conte aveva diversi vizi e tra questi quello del gioco. Per far fronte ai debiti fu messa in vendita la proprietà. Dario non aveva tutti i soldi per poterla acquistare e fece un patto con il nobile. Avrebbe versato tutti i suoi averi e in cambio, alla morte del conte, il terreno sarebbe diventato di sua proprietà.
E così fu, Dario dopo qualche anno divenne il legittimo proprietario di quel terreno.
Un giorno accompagnai Aïcha all’azienda. Le maestranze la conoscevano bene, del resto lei si occupava anche della contabilità. Tutti gli operai si fecero incontro per porgerle le condoglianze. Sentivo che si stava lacerando in lei una ferita mai chiusa completamente. La presi delicatamente per un braccio e la portai a passeggiare sotto i rami degli ulivi centenari.
Il sole era al tramonto, striature di rosso intenso ci accompagnavano lungo il sentiero.
Mi accorsi quasi subito che quelli erano passi già percorsi, con il suo compagno, e non era stata una buona idea portarla li. Lei però volle continuare a camminare sotto quelle fronde. Ogni tanto ne accarezzava qualcuna, come se quel gesto potesse ricordarle un momento felice trascorso con lui.
Arrivammo sulla spianata di una collina. Da quel punto si poteva ammirare la valle sottostante coltivata perlopiù a vite e olivi, in fondo l’argenteo mare, a destra il campanile di una chiesa.
Ci sedemmo su un vecchio tronco messo li apposta per fare da panchina chissà da chi.
Le ombre serali si stavano allungando. Rimanemmo a lungo silenti, chiusi nei nostri pensieri, poi le presi la mano e la racchiusi tra le mie. Lei togliendosi gli occhiali mi guardò e disse:
“Sai anche se lui, oramai, è solo nel mio cuore, vorrei che questo nostro amore fosse fonte di un ricordo eterno. Si, eterno, o almeno… sino a quando io vivrò.
Sai come lo chiamavo a casa?”
“No, non me lo hai mai detto.”
Lo chiamavo il puffo delle olive perché lui era innamorato dei suoi olivi, li accudiva e li faceva crescere con la stessa cura che un genitore mette nel crescere un figlio ed è per questo che il suo olio era così apprezzato.
Quando volevo sfotterlo lo chiamavo “Freddino”, lui che era un vulcano. Faceva anche finta di arrabbiarsi, ma lo sapeva che l’amavo con tutta me stessa.
Rientrammo in macchina che era buio. La salutai con un abbraccio e un bacio sulla guancia davanti alla sua abitazione.
Dopo qualche settimana ricevetti un pacco da Aïcha, lo scartai e dentro trovai una lattina d’olio e un biglietto su cui c’era scritto:
“Ho trovato il modo, Aïcha” e niente altro. Non capì subito cosa volesse dire. Stavo per chiamarla al telefono quando per caso guardai la lattina. Sotto la scritta del produttore, “Corradi Federico” dentro un cuore stilizzato c’era scritto “Love of My Life”.