Alla luna.
O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge lʼanno, sovra questo colle
io venia pien dʼangoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, che travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar lʼetate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che lʼaffanno duri!
– là dove il poeta si rivolge alla luna – da lui definitaʻpiena di graziaʼ – ricordandole la sua venuta di un anno prima in cima al monte Tabor, vicino a Recanati, a contemplarla in preda al tormento, mentre era sospesa in cielo sopra il bosco che illuminava, e illumina ancora, col suo chiarore. Ma ai suoi occhi, a causa del pianto nascente, il volto della luna gli appare velato e tremolante, poiché la sua vita era, e ancora lo è, dolorosa. Eppure il ricordo di quellʼangoscia gli giova, come il fatto di calcolare la durata della sua sofferenza. E allora prorompe: “Oh, quanto mi torna caro, allorché la speranza è accesa e si ha poco da rammentare, il ricordo delle cose giovanili, anche se sono tristi, e anche se persista il travaglio!”.
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