Dante, Beatrice e Gemma

1818

Firenze, casa di Dante Alighieri.

È il mattino inoltrato di una giornata qualunque dell’a.D. 1283. Chino sullo scrittoio già da qualche ora, il poeta sta componendo un sonetto, perché il suo pensiero, malgrado le imminenti nozze con Gemma Donati, è tutto per quella ragazza che il giorno prima ha rivisto per strada dopo ben nove anni. Evento per lui tanto straordinario, che lo porterà al sogno della notte precedente, di cui chiede una spiegazione allegorica agli amici poeti, invitandoli a ciò appunto con quella composizione, che sarà nota con il titolo di A ciascun’alma presa e gentil core, inserita poi nella Vita Nuova.

D’un tratto si sente chiamare; la finestra dà sul vicolo che sfocia su Piazza san Martino, il rione che ha visto la sua nascita – e quella della sua promessa sposa, dall’età di dodici anni.

Si affaccia e la vede. E, vedendola, le sorride, ma è un sorriso che è quasi una smorfia.

È Gemma, il cd. angelo del focolare, che lo accudirà fino all’esilio, mentre lui sarà affaccendato in varie faccende sì letterarie, ma anche politiche, quelle che lo travieranno. Vogliamo parlarne un poco?
Cominciamo. Di costei non si sa quasi nulla circa la sua nascita – si ritiene nel 1265, lo stesso anno del futuro marito – figlia del cavaliere Manetto dei Donati (gli Alighieri e i Donati erano vicini di casa). Come non è dato conoscere l’esatta data del matrimonio, anche se i più concordano nel pensare che sia stato celebrato tra il 1283 e il 1285. Per cui è legittimo ritenere che la sola data di cui si può fare affidamento è quella del 1277, anno in cui furono stretti gli accordi dotali tra le due famiglie.

Da questo matrimonio nacquero Giovanni, Iacopo, Pietro – futuri chiosatori dell’opera di cotanto padre – e Antonia, ritiratasi in giovane età nel monastero di santo Stefano degli Ulivi in quel di Ravenna, con il nome, chissà se casuale, di suor Beatrice.

Dai più si crede che si trattò di un matrimonio per niente felice – com’è facile immaginarsi. E forse dopo l’esilio del poeta tale infelicità si acuì, fino a portare alla reciproca indifferenza.
A tal proposito, Boccaccio qualche anno dopo scrisse: “Certo io non affermo queste cose a Dante essere avvenute, ché non lo so, come ché sia vero che, o simil cose a queste, o altre che ne fossero cagione, egli, una volta da lei partitosi, che per consolazione dei suoi affanni gli era stata data, né mai dove ella fosse volle venire così tutto che di più figliuoli egli insieme con lei fosse parente”.

Dopo la morte di Dante, Gemma poté annualmente pretendere dalle autorità cittadine, sui beni di lui sequestrati dal Comune a seguito alla condanna precedente alla cacciata dalla città, i frutti della sua dote di cui ai patti del 1277, che ammontava a 200 fiorini piccoli. Frutti che poté godere fino alla sua morte, accreditata, sempre dagli studiosi, nel 1349.