Il muretto

133

Il muretto


Era un caldo afoso, non mi muovevo e sudavo nelle pieghe del collo. Un Luglio così non l’avevo mai visto. Era sera circa le otto ed ero a casa . l’unica cosa che mi andava di mangiare era anguria accompagnata da acqua fresca naturale. Mia madre in cucina friggeva, quindi per non sopportare quel odore me ne uscii in terrazzo dove avevamo un grosso tavolo di quelli in plastica, modello estivo da esterno, in quanto nel centro e sotto aveva la predisposizione per infilarci l’ombrellone. Al tavolo erano annesse sette otto sedie sempre bianche, sempre il plastica. Barbecue, un pallone e mille altri oggetti finivano di arredare quella terrazza. Abitavamo in un palazzotto di quattro livelli, garage più tre piani con annesso un bel giardino. In quel palazzotto ci abitavamo da soli.

Per i capricci di mia madre, da qualche anno, eravamo passati dal piano terra al primo piano.

La costruzione era nuova e molto bella, un po’l’invidia del quartiere. Misi i piedi sul tavolo mi stesi e iniziai a guardavo le stelle che iniziavano ad apparire. Mangiavo anguria, bevevo acqua e guardavo le stelle, non mi andava nient’altro. Si unì a me prima mio fratello poi a seguire mio padre con mia sorella e ognuno portava con se qualcosa da mangiare. Nell’aria c’era qualche moscerino e tanti pipistrelli. E proprio a proposito dei pipistrelli mio padre inizio con una specie di monologo, su quanto fossero brutti ma altrettanto utili. Sia io che io miei fratelli annuivamo ma pensavamo ad altro. Mio fratello era più piccolo rispetto a me di 12 anni e mia sorella di 6, io quell’anno compivo 16 anni e quell’anno frequentavo il terzo anno dell’istituto tecnico per geometra a Napoli, centro storico e avevo portato due materie a settembre, italiano e chimica.

Per la prima me la cavavo pure da solo ma per la seconda ero a ripetizione da Caputo un tipo alto un po’ gobbo e con gli occhiali, per i miei gusti un po’ tontolone.

E quindi eravamo tutti a casa a fare quella sorta di cena improvvisata, l’aria iniziava a raffreddarsi a man mano che la luna prendeva il suo posto. Pensavo di fare qualcosa, ma che cosa? E mentre ero assorto nei miei pensieri, fantasticando un falò su una bella spiaggia, vicino un abbronzatissima ragazza sudamericana e un cameriere che chiamandomi mi portava cocktail da sogno con tanto di ombrellino e frutta fresca, fui riportato alla realtà da mio fratello che con uno strattone mi indico la casa di fronte. Riavendomi mi resi conto che la ragazza vicino a me era mio padre e che a chiamarmi non era il cameriere con mega fantastici cocktail ma era Michele, mio fraterno amico d’infanzia e di mille avventure.

Michele di un anno più grande di me, lo conoscevano un po’ tutti in paese. Da sempre abitavamo in due costruzioni, una di fronte l’altra a distanza di strada e cioè saranno stati sei al massimo sette metri. Suo padre, sempre in paese, aveva il negozio di calzature più grande e più fornito e lui, spesso, dopo la scuola, era destinato li ad aiutare suo padre. Aveva un cane, un pastore tedesco, di nome Lupo, un bellissimo esemplare con il quale avevamo fatto mille passeggiate nella montagna, il parco del Vesuvio, che ci sovrastava. Andare in giro in compagnia del cane, mi esaltava e mi confortava, in quanto pauroso com’ero, con Lupo a proteggerci, mi sentivo al sicuro. Varie leggende soprattutto, di licantropi girovaghi, si narravano sul conto di quelle montagne.

Subito mi levai dalla mia comoda posizione, abbandonando sia la sudamericana che i cocktail, e andai alla balaustra in ferro verniciato grigio scuro che delimitava il nostro terrazzo. E’da precisare che il nostro palazzotto, per via del daltonismo di mio padre, era tutto grigio nelle tonalità chiare e scure. Michele, appoggiato alla sua di balaustra, mi mise a conoscenza che d’accordo con gli altri della nostra comitiva, io la chiamavo la comitiva della strada, avevano deciso che da lì a un paio d’ore, e più o meno alle ventidue e trenta, si sarebbero visti per fare una partita a calcetto. Il campo predestinato, sarebbe stato il campo del muretto.

Il campetto, altro non era che il piazzale antistante ad una carrozzeria ed era a circa duecento metri da casa, sulla provinciale SS68 che collegava Napoli a i paesi vesuviani. Era un rettangolo di circa duecento metri quadrati di dimensioni, circa di dieci metri per venti. A terra non c’era la solita erbetta, verde e morbida che si vede in tv, ma duro cemento di colore grigio, alternato ad un disegno, che riproduceva il susseguirsi di tanti archi, in sanpietrini in marmo di colore bianco.

Sul perimetro, il campetto, aveva sui due lati lunghi, da un lato la strada provinciale, molto trafficata e delimitata dal marciapiede in porfido e dall’altro la carrozzeria con i suoi due portoni alti circa tre metri, in ferro, scorrevoli e di colore verde e sulla carrozzeria, l’abitazione del carrozzaio. Bella costruzione, molto nuova e che aveva a perimetro dei terrazzi molto larghi. Sui lati corti poi il campetto aveva da un lato l’ingresso al piazzale, grazie ad una traversa dalla provinciale e poi un supermarket.

Per finire sull’ultimo lato, c’era un muretto in tufo, alto quanto i portoni della carrozzeria e continuo, lungo come tutto il campetto e cioè circa dieci metri. Il muretto era intonacato di colore grigio e a tratti l’intonaco era scrostato, rovinato dal tempo, dallo smog, ma anche dalle mille pallonate ricevute durante le nostre partite e in quei punti metteva in mostra la sua struttura in pietra, tagliate regolare, gialla vulcanica, molto comune nelle zone vesuviane. Oltre il muro, nel lato posteriore, c’era un rovo, pianta infestante molto fitta e cespugliosa, con canne dritte molto spinose alto quasi il doppio del muretto mentre in orizzontale si era esteso a tutta la sua lunghezza.

Perché in primavera eravamo abituati a scavalcare il muretto per mangiare le more, sia quelle rosse che quelle nere, tra il muretto e il rovo, si era creato un sentiero molto stretto e un po’buio largo più o meno cinquanta centimetri. Oltre il rovo il bosco fitto.

Il muretto dalla parte usata per scavalcarlo presentava i segni delle nostre salite e delle nostre discese, praticamente degli affossamenti, i quali ci permettevano di infilare i piedi e scavalcarlo.

Michele dopo un po’che restammo a chiacchierare, mi convinse di partecipare alla partita e poi portò Lupo a fare un giro. Io continuai la mia pseudo cena, e parlai con i miei per ancora per un po’. Circa alle nove senti il citofono e dopo un po’mia madre mi disse che c’era Michele giu e mi cercava. Io avvisai i miei della partita al campo del muretto, misi le scarpette e scesi. Lungo la strada, e quasi di fronte al campetto, chiamammo Marco un altro della comitiva, e dopo facemmo l’ultima sosta dai fratelli Caggese, Sandro, Genny e Pierluigi. Sia Marco che i tre fratelli avevano le case visibili dal campetto . Ci riunimmo, eravamo già in sei e aspettammo il resto dei componenti.

Eravamo seduti di fronte al campetto su delle panchine in pietra messe li dalla merceria Rosaria, un bazar che vendeva di tutto, ci potevi trovare dallo spillo al carro armato. Di lato alla merceria c’era una sorta di deposito, un anfratto molto lungo e molto stretto che la merceria usava per depositare i vuoti, piccole e grossi scatoloni in cartone, ma anche pallet in legno.

Dopo circa mezz’ora e più o meno all’orario prestabilito, vennero fuori Luca e Marcello, figli del proprietario del supermarket che avevano l’abitazione sul retro dello stesso supermarket e infine arrivarono, scesi dall’abitazione che sovrastava la carrozzeria, Paolo e Salvatore, figli del carrozzaio.Tutti a eccezione di me e di Michele abitavano a confine con il campetto. Eravamo in dieci, di età compresa tra gli undici anni di Pierluigi, il più piccolo dei Caggese e i diciassette di Salvatore il figlio più grande del carrozzaio. Restammo seduti alle panchine mentre Salvatore e Marcello i ragazzi più grandi del gruppo organizzavano le squadre. Erano circa ventidue trenta e quella sera non si capiva bene se a illuminare il campetto erano i lampioni lungo la statale o la luna, che quella sera era bassissima, piena e super luminosa.

Una sera da licantropi. Eravamo soliti a non fare una sola partita, ma a organizzare dei tornei per vincere tre gare su cinque. Quindi prendemmo postazione in campo, le porte naturalmente erano i portoni del carrozzaio e il pallone era in fallo laterale, solo quando scendeva il marciapiede della statale o quando saliva quello del market. Iniziammo a giocare e tutto sembrava molta tranquillo, la serata si era un po’ rinfrescata ma comunque faceva caldo. parecchi di noi erano in pantaloncini, scarpette e torso nudo.

E la luna, quella magnifica luna che quella sera più volte fu protagonista dei nostri discorsi era sempre lì, un po’ spostata ma sempre padroneggiava sulla serata e su di noi, era cosi forte che quasi non c’erano ombre sul campetto. Una serata da favola. Era scoccata la mezzanotte quando iniziammo a disputare l’ultima delle cinque gare ed eravamo sul due a due quando Salvatore svirgola il pallone che deviato da Pierluigi rimbalza sullo spessore del muro, finisce sempre rimbalzando contro il rovo e poi cade giù nel sentiero stretto lungo e buoi che poco prima vi ho descritto.

Volarono un po’ di imprecazioni e sarebbe toccato a Pierluigi andare a recuperare ola palla, ma con i suoi undici, sarebbe, con il nostro aiuto, riuscito a salire per poi scendere dall’altro lato, ma non sarebbe riuscito a tornare. Quindi si arrivò all’accordo che doveva essere uno della stessa squadra di Pierluigi a fare il recupero. Ci riunimmo, Pierluigi era in squadra sia con me che con Michele e ci mettemmo a cerchio per fare la conta. Lanciammo le mani.

Contammo le dita.

E mentre eravamo con il fiato sospeso per vedere a chi toccava scavalcare il muro e scendere poi nel buio retrostante, qualcosa disegno una parabola nel cielo per poi toccare terra rimbalzando. Quel qualcosa era la nostra palla che qualcuno o qualcosa aveva rimandato dalla nostra parte. La palla non ebbe nemmeno il tempo per compiere il secondo rimbalzo che tutti i ragazzi erano già chiusi nelle loro vicine abitazioni. Restammo sul campetto, ancora con le mani a mo’ di conta, Io e Michele, paralizzati, congelati.

Io non riuscivo nemmeno a pensare e non avevo il coraggio di guardare verso il muro per la paura che qualcosa mi potesse assalire. Michele, che già di suo era molto più pauroso di me, chiuse addirittura gli occhi e mi prese una mano, implorandomi di non lasciarlo solo. Dopo circa un interminabile minuto, parlando come dei mimi o per dirla bene, sussurrando come dei mimi, decidemmo di correre verso l’anfratto buio accanto alla merceria. Riuscimmo a trovare la forza, corremmo verso il nostro luogo di salvataggio. Ci infilammo dentro e ci spingemmo fino in fondo, nascondendoci dietro a dei grossi cartoni.

Restammo fermi, immobili e iniziammo a scambiarci qualche parola, solo dopo un quarto d’ora.

Trovammo poi il coraggio di farci avanti e fare capolino da quel budello e guardare si verso il muro per notare qualcosa di strano, ma dovevamo guardare anche verso la strada di casa che correva parallela al campetto. Nessuno dei due aveva il coraggio di passare davanti a quel maledetto piazzale.

Dopo un po’ trovammo una soluzione. Decidemmo di metterci in due scatoloni, fare davanti due fori per gli occhi, e camminare li sotto. Michele però ebbe paura di restare da solo e quindi dovemmo cercare e per fortuna c’era una scotola molto più grande che ci contenesse entrambi. Dopo mille ripensamenti e con addosso delle sensazioni mai provati in vita, confusi e impauriti, iniziammo il lungo viaggio della speranza nel nostro personale cavallo di Troia. Erano da compiere circa 60 metri bisognava superare la merceria, tutto il campo del muretto e poi ancora una ventina di metri. Per tutto il tempo durato circa quaranta minuti, ci dicemmo delle cose senza senso, su come avremmo affrontato l’essere se ci avesse attaccato, e sul perché la vita ci avesse destinato una morte così assurda.

Il culmine del terrore lo raggiungemmo quando ci trovammo a perpendicolo con il muretto.

Invece di correre, li, facemmo la sosta più lunga. In quel punto, forse dalla paura o dalla suggestione ma forse o forse fu solo una macchina che senti qualcosa muoversi all’interno del rovo che comunque ara a più di sei metri, mi si paralizzarono le gambe e siccome ero alla guida del nostro cavallo di troia, fermai anche la marcia. Michele in preda al panico prese lo scatolone da sotto e con tutte le sue forza lo fece volare in aria poi mi prese per i capelli e mi incitò a correre. Lo scatolone non aveva ancora ritoccato terra che noi eravamo già nella traversa. Corremmo verso gli ingressi delle nostre abitazioni, io presi dallo zerbino, la chiave ed entrai. Non ci salutammo nemmeno e il giorno dopo, dalla paura, non uscii nemmeno in terrazzo.