IL (QUARTO) POTERE LOGORA
… chi non lo sa
Nel 1787, durante una seduta della Camera dei Comuni del Parlamento inglese, il deputato Edmund Burke esclamò rivolgendosi ai cronisti parlamentari seduti nella tribuna riservata alla stampa: “Voi siete il quarto potere!“
Ormai è un assunto che i mezzi di comunicazione di massa siano diventati strumenti della vita democratica, accanto ai poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. In questa fase di globalizzazione accelerata però, in quella che Manuel Castells definisce “l’età dell’informazione” siamo in balìa di nuovi media che ci sommergono di informazioni non sempre facili da decrittare. Sempre citando l’autorevole sociologo catalano: “accesso all’informazione e accesso alla disinformazione sono inscindibili”. Questo vale anche per i nostri figli, seppur considerati nativi digitali, molto abili invece nei processi di coding. Il problema principale è che si è sempre data maggiore importanza all’innovazione tecnologica piuttosto che ai contenuti, alle modalità di trasmissione piuttosto che al linguaggio.
Già 60 anni fa in Italia si guardava con occhio polemico alla televisione, quando era ai suoi esordi ed ancora esisteva solo un canale; quando la triade di riferimento era: INFORMARE, EDUCARE, INTRATTENERE. Allora si trattava di una televisione di Stato e di impostazione pedagogica, in cui anche il più commerciale dei contenuti, la pubblicità, seguiva una formula edulcorante e d’intrattenimento. In America si parlava addirittura di “intrattenimento stereotipato”.
Col tempo, dopo la Rivoluzione industriale e borghese, il boom economico e l’affermazione della società di massa, la diffusione delle TV private e in seguito della Rete, il mondo dell’informazione e della comunicazione si sono completamente trasformati. Alcuni filosofi della Scuola di Francoforte, come Adorno e Horkheimer nella loro teoria critica della società hanno introdotto la nozione di industria culturale, proprio per sottolineare l’aspetto massificante e mercificante della comunicazione di massa, che favorisce l’accessibilità ai prodotti culturali dell’arte da un lato, ma dall’altro fa inevitabilmente perdere valore all’oggetto artistico.
Le comunicazioni di massa sono sempre state sotto un monopolio: o dello stato o del mercato, tranne Internet. La Rete infatti non ha una vera governance, non ha un controllo, e anche le istanze sociali più periferiche si possono inserire nella vita politica e sociale, nel bene e nel male. Questo ha portato progressivamente alla crisi della democrazia tradizionale e alla nascita di una sorta di democrazia diretta, fondata su base carismatica. Il carisma è certamente una dote personale, ma soprattutto nel periodo dei totalitarismi è stata rafforzata dai mezzi di comunicazione di massa, in particolar modo dall’uso massiccio di radio e cinema. Lo stesso Mussolini si era reso conto della penetrazione dei mezzi di comunicazione di massa, tant’è che quando fondò Cinecittà nel 1937, fece apporre una targa con scritto: “il cinema è l’arma più potente”. Prima di lui Napoleone disse che “quattro giornali ostili sono da temere più di centomila baionette”.
La televisione in questo senso è arrivata più tardi, ma già nel 1960 Marshall McLuhan considerava radio e televisione come appendici dell’uomo, esattamente come erano considerate a fine Ottocento la bicicletta e l’automobile.
La società di massa e i suoi comportamenti furono studiati anche da filosofia e psicologia all’inizio del Novecento. In particolare Gustave Le Bon analizzò l’irrazionalità del comportamento di massa, il cui primo elemento caratteristico è l’uniformazione degli individui. Parlava addirittura di un’anima collettiva, i cui comportamenti sono diversi da quelli che avrebbe ogni individuo preso singolarmente nella medesima situazione.
Freud invece si discostava da questa visione, sostenendo che lo stato di sudditanza dell’individuo non sia una condizione temporanea, ma permanente.
I media in questo contesto sono determinanti: riescono irrimediabilmente ad orientare l’opinione pubblica e a creare una sorta di dipendenza. Un grande contributo alla formazione dell’opinione pubblica si deve sicuramente ai giornali, sviluppatisi nel Seicento ma diventati quotidiani solo nell’Ottocento, ai caffè, alle taverne e ai bagni pubblici.
Oggi le idee circolano molto più velocemente di allora, ma il vero problema è che circolano le idee di chiunque, senza un filtro. L’utente quindi si trova a navigare tra falso, vero e verosimile, immerso in una cultura fatta da tutti e per tutti, in serie, come nella grande industria di stampo fordista, in cui “lo scemo del villaggio ha lo stesso diritto di parola di un premio Nobel” (Umberto Eco). Ancora il grande semiologo e scrittore Umberto Eco nel 2014 parlava così agli insegnanti: “Lasciate pure che i vostri studenti usino la rete per le loro ricerche, ma costringeteli a confrontare almeno dieci siti diversi, in modo che le contraddizioni che incontreranno possano sviluppare in loro un atteggiamento critico”.
Questa modalità di fruizione dovrebbe essere promossa dalla famiglia e dalla scuola, secondo strategie e compiti diversi, per esempio inserendo la media education tra le materie canoniche, non solo come insegnamento trasversale alle altre discipline, per cercare di superare l’analfabetismo comunicativo in cui siamo immersi.
Decondizionare è il compito formativo più urgente e necessario; restituire centralità alla coscienza del soggetto e poi aprire tale coscienza alla lettura di sé stessa, dei suoi bisogni reali. Oggi siamo in una condizione in cui i bisogni invece ci vengono calati dall’alto e allo stesso tempo ci vengono dati gli strumenti che ci aiutano a soddisfarli. Ma ci siamo mai fermati a pensare se realmente abbiamo quei bisogni? Fondamentale è mettere al centro CONOSCENZA e RICERCA, per analizzare la nostra quotidianità e capire quale progetto stiamo davvero elaborando: se il nostro o quello di altri.
Certo è difficile smontare il modello persuasivo, se pensiamo che pervade il campo della comunicazione dai tempi della retorica classica. Persuadere significa convincere qualcuno a fare qualcosa, rinunciando alla propria capacità di giudizio. La vera persuasione però è quando l’individuo arriva a credere che sia giusto fare come gli dicono, con una sorta di rassegnazione e senza una vera riflessione personale.
Come sosteneva Mark Stefik, famoso ricercatore della Scuola di Palo Alto: per inventare qualcosa di veramente significativo, l’uomo deve affidarsi alla sua fantasia e non alla tecnologia.
In effetti ciò che contraddistingue l’essere umano dagli altri è la sua capacità di immaginare quello che non c’è. Immaginare un mondo esterno mai sperimentato. Le nuove tecnologie sono fondamentali in questo processo. Pensiamo per esempio al chirurgo che può agire sul corpo umano attraverso disposizioni impartite ad una macchina. Le tecnologie da sole però non bastano. Il cambiamento deve avere un’anima sociale, progettuale, non digitale.
L’attuale approccio alla realtà, però, sta creando delle masse inconsapevoli, sempre più disorientate, che non vanno oltre l’immediatezza; menti pigre che aderiscono in modo acritico alle idee dominanti pur di sentirsi parte di qualcosa. Ma questa sperequazione massmediatica non verrà mai avvertita come un problema, finché darà al cittadino quel senso effimero di inclusione, che prima seleziona in base a criteri, poi modella e infine appiattisce. Anzi, potersi esprimere sempre e comunque è un passo fondamentale per ottenere visibilità e approvazione sociale, attraverso la promozione frenetica e non autentica del sé narciso e autoreferenziale.
Certo, nessun medium è da demonizzare. La televisione e la radio ci danno intrattenimento; possiamo tenerle in sottofondo quando non sopportiamo l’assordante silenzio della casa o di un lungo viaggio in auto. Grazie alla Rete possiamo accedere ad un bacino sterminato di dati, possiamo comunicare con amici e parenti in ogni parte del globo in tempo reale o possiamo seguire corsi universitari altrimenti inaccessibili. Le tecnologie pervadono ogni aspetto della vita, proprio come la comunicazione, ma come spiegò Edgar Morin alle soglie del 2000: “nel momento in cui la comunicazione sembrava trionfare su tutto, permaneva l’incomprensione generale”.
Il problema quindi non sta negli strumenti che abbiamo a disposizione, nemmeno nell’uso che ne facciamo (dopotutto ogni strumento viene concepito per un utilizzo specifico), ma nel grado di consapevolezza con cui li approcciamo. Comprensione e conoscenza sono elementi necessari.
Il rischio è quello di rimanere vittime della necessità incessante di informazioni e di farci schiavizzare da quella Rete che noi stessi abbiamo contribuito ad imbastire, senza capire che Internet non può sostituirsi alla conoscenza, né il computer al nostro cervello. Educare i nostri ragazzi in questo senso dovrebbe essere un impegno costante e condiviso di genitori e Istituzioni. Forse si arriverebbe anche ad un ridimensionamento dell’informazione in senso meno sensazionalistico e scandalistico. Credo inoltre che ci vorrebbe meno resistenza da parte degli intellettuali. Essi hanno un compito politico ed istituzionale e il “mondo massmediatico” necessita di una loro maggiore partecipazione. Come scrisse Pasolini nelle sue Lettere Luterane: «il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l’Italia». Si riferiva alla società degli anni Settanta, ma il problema persiste. Nessuno quindi dovrebbe restare passivo. Consapevolezza e atteggiamento critico sono i metodi fondamentali per gestire il “quarto potere”; aggiungerei una buona dose di curiosità e di dubbio.