Un selfie

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I due ragazzi volontari hanno appena finito di caricare tutti i mobili che ho donato all’ente benefico per il quale lavorano. Mobili di mia madre, scomparsa quattro anni fa, ricordi di tutta una vita. Osservo il camion che si allontana.

Consegno le chiavi all’acquirente della casa: l’ha chiesta completamente vuota.

Da quattro anni mi sono trasferito al sud e, pur essendo tornato a Milano tante volte, non sono più passato dalla casa di mamma; l’affittuario che l’ha abitata in quegli anni non ha mai avuto bisogno di me.
Carico in macchina uno scatolone, dentro ho sistemato tutti gli oggetti più cari di mia madre.
Prima di andarmene entro ai giardinetti di fronte e mi siedo su una panchina. È agosto e fa caldo, in un sol fiato bevo tutta la bottiglietta d’acqua.
Rivolgo un ultimo sguardo nostalgico al vecchio palazzo dove sono cresciuto, dove abitavano gli amici, i ragazzi con i quali ho diviso sogni e aspettative, ragazzi che ora non so più dove siano.

«Scusi lei è italiano?»
«Sì.»
«Posso sedermi un po’ e fare quattro chiacchiere con lei? Mi sento sola.»
«Certo.»

La signora penso che abbia tra i quaranta e i cinquant’anni. Mi dice di chiamarsi Aisha ed è siriana.

Poi aggiunge, in un buon italiano: «Vivo, anzi, sopravvivo, in Italia dal 2013, da quando sono stata costretta a scappare per colpa dell’ISIS. Ho un dottorato in Teoria Economica dei Paesi Emergenti e ora campo grazie alla Caritas perché non trovo un lavoro. Arrivata in Italia sono andata a vivere a Roma. A Raqqa tutti quelli che conoscevo sono morti…» fa una pausa e dice a voce bassa: «anche il mio fidanzato. Qui non ho amici e spesso mi sento sola.»

Io, stupidamente, le rispondo che dobbiamo imparare a stare bene con noi stessi…

«Ha ragione…»
Capisco che a quella risposta voleva aggiungere il mio nome.
«Mi chiamo Armando, puoi darmi del tu.»
«Hai ragione Armando, ma certe volte, quando si superano certi limiti, è difficile mantenere questo autocontrollo e continuare a sperare.» Poi aggiunge con un tono più pacato: «Sai, qual è una delle cose più difficili per me? Alzarmi al mattino e sapere che non c’è nessuno al mondo che ti chieda come stai.»

Ci siamo tenuti compagnia quasi un’ora. Aisha mi racconta della sua grande speranza: forse l’avrebbero assunta alla lega Araba. «Me l’hanno promesso…» aggiunge.

Aisha porta in testa un foulard di seta ormai scolorito, lo sistema e lo lega sotto al mento.

«Non vedo l’ora di tornare a casa…» dice sottovoce.
E io, ancora stupidamente: «Eh, purtroppo questa guerra…»
«No, vorrei tornare a Roma, a me Milano non piace. A Roma avevo un buon amico, si chiamava Gianni. Non l’ho più visto.»
«Perché sei venuta a Milano?»
«Mi avevano detto che qui si trova lavoro più facilmente, un anno fa avevo trovato un posto come badante, ma ora la mia signora è morta.»
«Allora Aisha, ho un’idea. Adesso ci facciamo una foto, un selfie. Così quando sei triste e sola, sai che c’è un tuo amico che ti ricorda con affetto, e che ogni tanto guarderà questa foto e si chiederà: Chissà come sta Aisha? Chissà se è tornata?»
«Sì, mi farebbe molto piacere, Armando.»
«Bene… guarda qui… pronta? Sorridi…  Guarda, ci mettiamo anche la data di oggi, 8 agosto.»

Poi mi alzo e le dico di aspettarmi un attimo. Vado in auto, dallo scatolone prendo un cellulare, mia madre lo usava solo per le emergenze: uno di quelli a conchiglia con i numeri grandi.

«Tieni te lo regalo. Contiene la vecchia SIM di mia madre; se per caso qualcuno telefona e chiede di Elena rispondi che ha sbagliato numero.»

Ci salutiamo.

   Mesi dopo suona il mio telefono, guardo lo schermo: “mamma” …
È Aisha. Mi dice che sulla SIM sono il primo nome della rubrica. Dice anche che ha comprato un cellulare nuovo, moderno. Mi chiede se le posso mandare la foto, il selfie, ora che ha imparato come funziona. «Sarà per sempre un bel ricordo!» aggiunge contenta.
È tornata a Roma. È stata assunta dalla Lega Araba.
Mi ha anche invitato al suo matrimonio.