Millenovecentosessantacinque

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Millenovecentosessantacinque. 1965

Il 20 luglio 1965 è una splendida giornata di sole. Gabriela sta per dare alla luce una bambina, sono io, mi chiamo Laura. Fa caldo a Roma.
Mio padre macina chilometri in autostrada alla guida della sua seicento nuova di zecca. Aveva lavorato fino all’ultimo, poi, la telefonata tanto attesa.
Mia madre sta per entrare in sala operatoria. “Parto pilotato”, veniva chiamato.
Mio padre, finestrini al vento, autoradio a palla.
Presto mi vedrà, questa figlia che resterà unica, tanto, tanto desiderata.

Millenovecentosettanta. 1970

Frequento l’asilo tenuto dalle suore. Amo stare insieme agli altri bambini, giocare con loro, cantare nel coro improvvisato Quarantaquattro gatti e Il caffè della Peppina.
Unico neo il momento del pranzo: i miei amichetti mangiano velocemente e poi subito a giocare. Invidio Agnese che porta con sé da casa solo una mela e dopo la minestrina corre fuori anche lei, in giardino.
Mia madre mi obbliga da sempre a mangiare e anche all’asilo, malgrado sia terra neutrale, la sua presenza si materializza improvvisamente all’apertura del paniere azzurrino, in una fettina di carne oramai fredda e stoppacciosa.
La mensa si svuota a poco a poco, alla fine resto sola.
Anche le suore si affrettano e sparecchiano.
In un momento di distrazione riesco a gettare la carne sotto le ceneri del camino che troneggia in fondo al refettorio.
“Finito!” esclamo fiera di me, le suore annuiscono, siamo tutti contenti e finalmente corro anch’io verso lo scivolo.

Millenovecentosettantacinque. 1975

Improvvisamente cambio casa.
Questa casa in campagna è bella a detta di tutti, “un po’ troppo nuova”, penso io.
Mi sento come un’estranea, la moquette della mia cameretta puzza di colla, soprattutto mi manca il sole che entrava dalla mia finestra ed il paesaggio di mille colori diversi che tante volte avevo impiastricciato con i colori a tempera.
Nella nuova casa mia nonna viene ad abitare con noi ed ha una stanza tutta per sé nella quale non vuole niente delle nostre cose, in realtà rifiuta tutto e tutti, lei che era abituata a vivere nel traffico e passava il tempo contando le auto che si fermavano al crocevia sotto casa e certamente non si accontenta delle pecore che si vedono nel prato dei vicini.
I problemi economici sono tanti, e mia madre smette di cantare mentre fa la pasta.
“Tutta colpa di questa casa se siamo così infelici”, penso io.

Millenovecentottantotto. 1988

Roma. A ventitré anni scopro l’amore per la prima volta con l’uomo di cui sono follemente innamorata, anche lui musicista.
Marco insegna al Conservatorio dove frequento gli ultimi anni di corso, ci unisce una visione tragica e tormentata del mondo ed ogni volta che ci vediamo che ci vediamo porta in sé la disperazione che la potrebbe rendere l’ultima.
Sottofondo ai nostri incontri le note dell’Adagietto di Mahler, le sonate di Scriabin, i préludes di Debussy. Ha una casa calda, assolata, piena di libri, spartiti ovunque, mobili severi.
In cucina, nel frigo, solo fragole e alcolici.
Ed io, mentre l’accompagno alla stazione durante i lunghi mesi invernali, lo guardo allontanarsi avvolto dal freddo nel suo cappotto grigio, e mi appare interamente quell’uomo così fiero, nella sua aria d’uomo d’altri tempi, eppure così fragile, così solo.

Millenovecentonovantadue. 1992

Alessandro. Da Alessandro imparo il mestiere di musicista.
Le fatiche dei concorsi, la disciplina costante dello studio, lo stress dei concerti malpagati, la conservazione quasi maniacale del materiale artistico nelle buste dei raccoglitori e il timbro con la dicitura “copia conforme all’originale” sui documenti. L’amore? Quello c’entra poco o niente, anche se quattro anni sono lunghi da passare insieme.
Al risveglio della coscienza mi decido e dopo avergli concesso un’ultima vacanza insieme come ottima opportunità per risollevare le sorti di un rapporto dove ognuno in realtà aveva già preso la propria strada, lo mollo.
Come in una perfetta partita a scacchi, lui sfoggia un’adeguata contromossa e tenta di tagliarsi le vene con un taglierino, poi esce in strada urlando “m’ha lasciato, m’ha lasciato” e sviene.

Al pronto soccorso, nella confusione, cerco di tranquillizzare un po’ tutti, lui che mi chiama dalla corsia, i miei rimasti a casa, mentre vorrei disperatamente che qualcuno calmasse anche me e nel frattempo affondo le labbra in un bicchiere d’acqua, forse destinato a qualcun altro.
Dopo una settimana si presenta nuovamente a casa con una rosa e i polsi fasciati, spaventando a morte mia nonna che mi avverte di stare attenta, che Alessandro ha gli occhi da spiritato.
Mi scrive delle lettere, lui che non ha mai scritto una parola in vita sua.
Mi fa telefonare dagli amici, si fa vivo perfino Carlo da New York.
Ma è finita.
Sono sulla soglia dei trent’anni e l’idea della solitudine non mi sfiora neanche lontanamente.

Millenovecentonovantaquattro. 1994

Stefano si è offerto di ospitarmi a Cremona per tutta la durata del corso. E’un bell’impegno, così decido di andare un mese da lui ed un mese da Francesco.
Stefano è la mia rinascita spirituale, il mio amore platonico, visto che dopo un po’, ma un bel po’, mi accorgo che è omosessuale. Nel frattempo, Francesco si è innamorato di me. Così stiamo sempre insieme e formiamo uno strano trio.
Stefano mi insegna sul campo come essere cembalista, trasportare uno strumento caricandolo sulla station-wagon, che ha il finestrino incrinato proprio sul lato dello spigolo del cembalo, “un caso, semplicemente una coincidenza”, afferma sorridendo.
Ride quando racconta che le cantanti con cui collabora hanno programmato insieme la nascita dei loro figli a seconda delle date dei concerti, e forse si sente un po’ papà anche lui.

Vive in simbiosi con la madre, usano la stessa tazza della colazione senza neanche sciacquarla.
Con me è gentilissimo, ogni sera mi accende la termocoperta e la stanza è satura del suo profumo, Davidoff.
Mi racconta com’è tranquilla la vita sulla pianura, mi parla dei suoi nonni, della ritrosia dei contadini padani verso gli stranieri, dei piccoli borghi rurali dalle estati interminabili, di come da bambino osservava l’avvicinarsi dei temporali estivi. Sono incantata dalle sue parole.
Viviamo in pura empatia questa relazione profonda di cui tutti si accorgono. Perfino Francesco tifa per me. Gli altri ci guardano perplessi, ammiccanti e sorridenti, e ci lasciano stare.

Millenoventonovantotto. 1998

Roma. Sono in bagno mentre Fabrizio sta suonando il mio strumento e mi urla da fuori: “Laura, lo senti? Come ti sembra?”. Forse l’emozione di terminare il mio primo cembalo è stata troppo intensa e ha messo a dura prova il mio colon irritabile.
Dopo due anni di lavoro, è finalmente in grado di emettere dei suoni, è terminato e Fabrizio lo sta provando al posto mio.
Pochi giorni prima aveva detto a Chiara che se non avessi deciso di continuare a costruire strumenti, tutto il suo impegno nei miei confronti sarebbe stato inutile.
Fabrizio è un tipo schivo e riservato e in molti si erano stupiti che avesse deciso improvvisamente di aiutarmi a costruire un cembalo, visto che non voleva nessuno tra i piedi quando era al lavoro.

Ormai, quando la mattina arrivo da lui capisco immediatamente che aria tira: negli ultimi anni ha avuto una storia d’amore complessa, e poi è leggermente ipocondriaco oltre ad essere un comunista disperato per aver perso le elezioni.
Io, comunque sia, sono una musicista che voleva uno strumento e non imparare a costruirne, anche se è stata un’esperienza straordinaria ed ho provato sulla mia pelle che anche il mestiere del liutaio è pura Arte.

Duemila. 2000

Inizio a suonare con Lucia.
E’una creatura strana, piena d’energia che non riesce a controllare, non per niente ha tutti gli uomini del mondo ai suoi piedi.
E’così strascinante che trascorriamo giorni e giorni sempre insieme, e ne prendo coscienza quando mi chiede “stasera dove ceniamo, da me, da te o al cinese?” E’convinta che per suonare insieme si debba avere lo stesso respiro, gli stessi pensieri, praticamente la stessa vita. La mattina mi sveglia la sua telefonata, si fa colazione insieme e si va per comuni a procacciarci concerti. Tra pranzi e cene si prova, si va a teatro, ai cinema d’essai, lei è sempre aggiornata su qualsiasi avvenimento, ed abbiamo un’agenda e una rubrica in comune.

Poi, la sera, a casa sua, si crolla sul divano. E’ il tempo delle confidenze notturne, i suoi lineamenti sono trasfigurati dalla luce del camino e la visione delle cose cambia totalmente in un’intimità che la luce del giorno successivo faticherà a riconoscere. È talmente alto il carico di adrenalina che quando finalmente torno a casa mia, prima di addormentarmi inizio a scrivere delle poesie, per fissare la differenza tra un mondo di realtà e di sogni, di immagini vere e di trasfigurazioni perché il limite è un filo che sento che si assottiglia fino a svanire.

Duemiladieci. 2010

Sì che gli anni bisestili portano sfiga, ma con me forse hanno esagerato.
Il primo si portò via mia nonna, il secondo mia madre, il terzo mio padre.
Per il prossimo è prevista la fine del mondo, ma, io penso a volte, già è tanto non essere impazziti o sprofondati nella depressione.
Credo che vivere alla giornata sia l’unico mezzo per tirarsene fuori, da qualsiasi problema. Che poi ci si debba attaccare al versetto di Matteo “Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di sé stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno” tanto da impararlo a memoria, poco importa. Qualsiasi espediente è buono per trovare un pizzico di felicità, ed a tozzi e bocconi, magari arrancando, magari pensando che qualsiasi cosa succeda si cadrà sempre in piedi, aiuta non poco.
Sono rimasta sola, ma il sole splende alto nel cielo.

Duemilaquarantacinque. 2045

Muoio d’improvviso, ipertesa da anni, me lo sarei dovuto aspettare. Mia nonna diceva “muoiono più agnelli che pecore” e, in effetti, ero ancora giovane.
Nel 2045 cosa vuoi che siano 80 anni, se vissuti bene.
I miei parenti fanno a gara nello spartirsi le mie cose, e certo non si spiegano la presenza della confezione di Davidoff sulla mensola del bagno.

Ma sento il dovere di dirvi che poi nel 2012 non venne la fine del mondo, ma solo un insieme di avvenimenti che ci trasportarono in una dimensione diversa, quella che io avevo già iniziato a sperimentare, quella fuga dalla cosiddetta realtà, quel senso di straniamento, e tutti ne fummo colpiti.
Rimase solo un mondo parallelo, un sentire sotterraneo e nascosto venne a galla, come un enorme rigurgito, uno tsunami e l’Arte, così trascurata per anni,  ci travolse.
Poi iniziò a dettare le sue leggi ed a guidare la gente in una specie di rinascita spirituale.
Fu come vivere con la perfezione in sé, in armonia con gli elementi dell’Universo.
Così posso dire di aver vissuto, vissuto pienamente, e posso anche andar via senza rimpianti, migrare chissà dove, ma felice.