Ricordi di guerra
In una bella giornata di primavera del 1943, una bambina e una giovane donna, con in braccio una bimba di pochi mesi, percorrono un viottolo di campagna.
Il percorso è accidentato, il rumore assordante di un aeroplano che sfreccia in cielo copre ogni altro suono: il cinguettio degli uccelli, il gracchiare delle rane, il fruscio delle foglie, lo scoscio delle sorgenti che scendono dalla montagna.
Gialli sono i fiori delle ginestre, gialli i raggi del sole, gialli i piccoli fiori campestri che coprono i prati. Sento sopra di me un aeroplano che vola a bassa quota; sento fragori assordanti e vedo lingue di fuoco a terra che si aprono come grandi corolle: sono bombe che vanno a conficcarsi nel terreno molle, tutto intorno a noi.
Mia madre urla e mi trascina con sé correndo all’impazzata, senza sapere quale direzione prendere; la mia piccola sorella, svegliata da tutto quel fracasso, piange disperata; io taccio: sono attratta unicamente dai fiori bianchi che coprono le prode del viottolo e la cui fragile corolla evapora al più piccolo alito di vento e guardo quegli strani spazzi di luce con la stessa ammirata curiosità con cui osservo i fuochi di artificio per la festa del Patrono del paese.
Sono tornata a casa dopo un soggiorno in campagna, si susseguono giorni di relativa calma dopo i bombardamenti.
E’ una giornata estiva, fa caldo, indosso un abito leggero di lino; ai piedi calzo dei sandali di vero cuoio.
Appena esco di casa me li tolgo e li tengo in mano; le mie amiche non hanno scarpe; cammino scalza anch’io per non sentirmi diversa da loro, scalze per necessità.
Per imitare i grandi vado a fare il bagno in un laghetto artificiale che raccoglie le acque gelide di tre sorgenti; il fondo è melmoso, non so nuotare e mi tengo rigorosamente a riva.
Ho tenuto il mio vestitino estivo, ma ho lasciato sulle proda del laghetto i miei sandali; non li troverò più.
Fanno il bagno anche due soldati tedeschi; un bimbo annaspa: sta annegando; un tedesco si tuffa e lo salva. La notizia si sparge per il paese; tutti lo sanno ma nessuno ringrazia.
I Tedeschi si sono ritirati e sono scesi dalla montagna i Partigiani. Siamo alla fine del 44; finalmente sono arrivati “liberatori”.
Indossano un divisa verde oliva con grandi tasche e un elmetto simile a quello dei nostri fanti della prima guerra mondiale; la popolazione li applaude: sono le truppe dell’esercito rimaste fedele alla Francia di Charles de Gaulle, comandate dal generale Juin.
E’ un’armata costituita da Tunisini, Algerini e Marocchini. I sorrisi della popolazione si spengono in un senso di smarrimento e di paura, quando i soldati, non appena preso il controllo del paese, mostrano la loro natura di esercito di occupazione, abbandonandosi ad ogni eccesso e violentando alcune donne: si guadagneranno una triste fama per le loro efferatezze.
Io sono una bimba di sei anni; un uomo dalla carnagione scura, forse un marocchino, mi afferra, mi spinge nell’atrio di una casa , non so dire di quale abitazione si tratti, l’immagine è sfocata; mi blocca contro la parete dell’androne, mi solleva le vesti ma qualcuno entra nell’andito e l’uomo fugge. Non capisco cosa quel marocchino volesse fare; non mi rendo conto del pericolo corso; nella mia ingenuità di bimba non recepisco le nefandezze dei grandi; mi aggiusto la veste e corro a giocare in strada a “campana” con i miei amici di sempre.
Milano, 12 dicembre 1969
Mio marito viene a prendermi all’uscita della scuola dove insegno; insieme ci rechiamo in piazza Fontana, dove alcune ore prima, dentro la Banca Nazionale dell’Agricoltura, piena di gente, è scoppiata una bomba che ha fatto una strage.
La piazza è transennata e nessuno può accedervi; si intravedono macerie; i poveri corpi dei morti e dei feriti sono stati rimossi.
Tutto intorno è sgomento, la gente, che si assiepa intorno alla piazza, è allibita, sconvolta.
Quell’atto terroristico segna l’inizio di una lunga strategia della tensione, culminata con la morte dell’Onorevole Aldo Moro, ma non finita e conclusa solo con l’uccisione del docente e giurista D’Antona, nel 1999: un incubo durato per più di 30 anni.
Assistemmo ad una serie di omicidi, sequestri, gambizzazioni e stragi di massa, ad opera delle Brigate Rosse e delle Brigate Nere, in una follia collettiva, di una violenza inaudita.
Brescia, 28 maggio 1974
In piazza della Loggia, una bomba, nascosta dentro un cassonetto dell’immondizia, esplode durante la manifestazione contro il terrorismo neofascista, procurando la morte di 8 persone e di 102 feriti: tra i morti ci sono anche alcuni insegnanti.
Apprendo la notizia mentre faccio lezione in una piccola scuola media della Val Camonica: mi sono trasferita da poco con mio marito a Brescia.
Durante la cerimonia commemorativa, in piazza della Loggia, parlano il sindaco della città, Boni, ed alcuni politici che vengono fischiati, ma al funerale cui partecipa una folla commossa di cittadini non si sente volare una mosca.
C’è un silenzio assoluto, rotto solo dal rintocco delle campane a morto; non un brusio, non un commento, solo persone, migliaia di persone mute, in una protesta corale, che proprio per quella assenza di suoni diventa tangibile e compatta.
Anche il mio bambino, che segue con me e mio marito il funerale, resta silenzioso per tutto il tempo come se capisse, pur così piccolo, la solennità e la commozione del momento
La seconda guerra mondiale con il suo immenso carico di morti, le sue brutalità, i suoi odi di parte, le sue privazioni e tanto altro non può essere paragonata al periodo buio degli anni di piombo.
Va detto però che io avevo vissuto il grande conflitto mondiale da bambina; mi era scivolato via con la stessa incoscienza e levità con cui mio nonno, andato fuori di testa, aveva assistito a tutto il passaggio del Fronte, affacciato alla finestra del primo piano della casa, mentre le bombe seminavano distruzione e morte .
Vivevo invece il triste periodo delle Brigate Rosse e della Brigate Nere da adulta e pienamente consapevole di quello che succedeva e quello che succedeva mi terrorizzava. Non era una guerra nel senso stretto della parola, ma della guerra che porta lacrime e sangue aveva tutte le sembianze.
Era una guerra subdola perché il nemico non aveva un volto ma decine e decine di volti, che si mimetizzavano dietro le più svariate sigle delle lotta armata.
Poteva essere un amico, o un amico dei tuoi amici, una persona all’apparenza per bene e in realtà un assassino.
Ti poteva capitare di prendere un treno e morire come successe con le stragi dell’Italicus e la strage di Bologna o restare sull’asfalto, senza un perché.
Fu un periodo di grandi paure, di insicurezze che mi fecero capire ciò che non avevo capito prima: l’assurdità delle guerre.
Ricordi di guerra
Testo di Impera Romani
Eh sì