Di rado resto a corto di parole, ma mi capita quando mi si chiede cosa si prova nello scrivere e perché uno lo fa. Non conosco e non credo esista un motivo particolare, ma so cosa succede nel farlo. Racconti, divaghi, ti abbandoni alla fantasia, poi rileggi e, su quelle pagine, ci sei incredibilmente tu. Dopo tanto lavoro, dopo esserti immedesimato in personaggi e situazioni immaginarie, ti accorgi che hai confidato a te stesso la tua essenza, le tue delusioni e i tuoi sogni. Quello che era un tuo racconto lontanissimo dalla realtà, parla di te, del tuo modo di vedere le cose, del te stesso che meno conosci forse solo perché lo dai per scontato.

Puoi essere colmo di allegria e ritrovarti ad avere pagine piene di malinconie e rimpianti o viceversa, come se il tuo scritto godesse di una sua vita che se ne fotte delle tue apparenze.

Una sera tardi, tardi quanto basta da vedere spuntare i pensieri da una strana nebbia, un personaggio di un mio racconto se ne è uscito con un pensiero più o meno così:

“Mi stupisce quanto poco sia rimasto delle mie certezze col trascorrere del tempo.

Guardo al passato e vedo un’infinità di credenze di comodo figlie dell’impotenza che, seppur smentite dalla ricerca scientifica, restano indelebili nelle menti plasmate da insegnamenti fantasiosi e dettami politici, religiosi o pseudo-scientifici. Facciamo branco per sentirci nel giusto e lasciamo che pochi ricerchino la verità sostenibile. Il tramandato attenua il dubbio e la necessità di comprensione, lasciando spazio alla cieca presunzione del sapere. Tutto per quell’anomalia della “democrazia” che fa ritenere corretto un pensiero se è largamente condiviso, senza farci avvertire il bisogno di verificarlo. Nella fantasia ci sono i sogni e le speranze di ognuno di noi, ma è la realtà la più grande delle illusioni.”

Doveva essere proprio stanco anche lui, così l’ho lasciato lì e sono andato a letto, la mattina seguente non c’era più e non l’ho mai rivisto.