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L’ appartamento tedesco: l’Erasmus e la scoperta di sé stessi

Una volta ho letto in un libro una frase che mi colpii molto: sosteneva che nella vita di ognuno di noi esistessero dei momenti impercettibili e insignificanti all’apparenza, ma che dopo anni si sarebbero rivelati come quelli che ci avrebbero totalmente e in maniera irreversibile cambiato l’esistenza. Lì per lì pensai fosse una cavolata da romanzo rosa, una di quelle frasi da incorniciare e mettere su una foto di Instagram per fare gli pseudo intellettuali. La realtà, invece, mi ha smentita. Uno degli episodi che ha deciso gran parte della mia vita avvenne quando avevo all’incirca 11 anni. Ero una bambina curiosa, che amava leggere e stava iniziando ad appassionarsi al cinema.

Era il periodo dei primi canali tv a pagamento e un sabato sera, mentre i miei genitori giocavano a carte con gli amici nella stanza accanto, fui attratta da un titolo all’apparenza banale: “L’appartamento spagnolo“.

Chissà che aveva di così particolare quell’appartamento in Spagna tanto da essere scelto per una sceneggiatura.

La trama informava che si basava tutto sull’esperienza Erasmus di un ragazzo francese. Che diavolo era questo Erasmus? Qualcosa da mangiare, una bevanda esotica, un lavoro strano? Presa dalla voglia di scoprirne di più chiesi ai miei se potessi pagare e mi misi comoda. Fu in quelle due ore esatte che tutto cambiò e dopo essere stata incollata allo schermo seguendo le avventure di Xavier e dei suoi amici a Barcellona capii quale sarebbe stato il mio sogno da realizzare: andare in Erasmus.

Dopo quel sabato la vita andò avanti e non pensai più a quel progetto. Gli anni trascorsero, diventai grande, terminai il liceo e a 19 anni me ne andai di casa per iniziare l’avventura dell’università.

Ero partita con l’idea di frequentare Medicina o Logopedia, ma poi mi ritrovai alla facoltà di Lingue. Sin da bambina avevo la passione per il francese e l’inglese, me la cavavo bene in entrambe, desideravo più di ogni altra cosa viaggiare e conoscere culture nuove…riflettendoci bene non poteva andare diversamente. Il primo giorno i professori pronunciarono una parola a me familiare, ma che ormai era finita nel dimenticatoio: Erasmus. Balzai sulla sedia e per poco non urlai dalla gioia: come avevo fatto a non pensarci prima? In maniera inconsapevole avevo seguito il mio sogno scegliendo di studiare le lingue straniere: quasi ti obbligavano a partire per un soggiorno studio all’estero perché era il metodo più veloce ed efficace per imparare una lingua! Da quel giorno iniziai ad impegnarmi al massimo per avere più chance di essere selezionata.

La scelta più semplice sarebbe stata quella di andare in Francia o in un paese di lingua inglese, ma ho sempre amato le sfide e optai per la Germania.

Fino al primo anno di università non avevo mai preso in considerazione quella lingua così ostica e difficile, la vedevo come un qualcosa di lontano dal mio mondo e avevo dichiarato più volte che non l’avrei mai studiata. Ma mai dire mai… così arrivai al secondo anno e al colloquio per ottenere una borsa di studio per la patria di Goethe. In 16 mesi di apprendimento sapevo a fatica comporre qualche frase di senso compiuto e il colloquio fu uno dei momenti più umilianti mai vissuti. Il professore che se ne occupava mi insultò dicendo che gli stavo facendo perdere tempo e mi mandò via in due minuti.

Pochi giorni dopo avrei saputo chi fosse stato accettato e passai quelle ore in preda alla disperazione più assoluta: il sogno di una vita buttato nel cesso da un tizio che neanche sapeva che l’Erasmus servisse ad IMPARARE e PERFEZIONARE una lingua, non ad andare in un paese quando già la si parla fluentemente.

Il giorno X arrivò, le graduatorie erano state appese in segreteria e mi incamminai a piedi con estrema calma, volevo ancora gustarmi per qualche minuto la speranza di poter partire.

Arrivata di fronte alla lista incriminata scorsi tutti i nomi per poi arrivare alla fine. Quando trovai i miei dati e la scritta “accettata presso l’Università di Bamberg-Germania” vicini non ci potei credere: ce l’avevo fatta! Scoprii poi che il professore mi aveva dato un punteggio bassissimo, ma la differenza l’aveva svolta la media degli esami sostenuti. Se mi chiedeste cosa ho mangiato oggi a pranzo faticherei a rispondere subito, ma se mi domandaste come passai la mezz’ora precedente e successiva a quel responso vi potrei descrivere ogni minimo dettaglio come se lo vivessi ora: è tutto indelebile dentro me.

Passata l’euforia mi concentrai sulla destinazione, Bamberg.

Ok, sapevo si trovasse in Germania, ma esattamente dove avrei trascorso ben 10 mesi? Di solito quando si scelgono le tre mete possibili per l’Erasmus tutti dicono che devi fare attenzione alle facoltà presenti in quella città, alla corrispondenza degli esami italiani con quelli stranieri. Ebbene, io tra le tre destinazioni ne scelsi due con cognizione di causa e una perché due amiche me l’avevano consigliata senza neanche sapere in quale regione si trovasse. Indovinate Bamberg a quale categoria appartenesse…

Ho provato a spiegare cosa significhi l’Erasmus decine di volte e sono giunta ad una conclusione: non puoi spiegarlo, devi viverlo.

È un’esperienza totalizzante, che ti cambia per sempre. Ti trovi a centinaia di km da casa, totalmente solo, in un paese dove nessuno parla la tua lingua e magari fai fatica a capire gli altri e a farti comprendere. I primi giorni sono devastanti, ma una volta superate le difficoltà iniziali vieni catapultato in un mondo parallelo dove anche una birra al pub o una serata di chiacchiere si trasforma nella cosa più eccitante e divertente che tu abbia mai vissuto. È come se ti trovassi dentro ad una bolla dove tutto si amplifica. Sperimenti cosa voglia dire davvero essere libero: dai genitori, dalla solita routine, dal tuo paese o dalla tua città. Sei tu, te stesso e nient’altro e ogni giorno diventa una scoperta perché non fai mai la stessa cosa e anche se ripeti delle azioni assumono sempre un sapore diverso.

È facile associare l’Erasmus a parole come alcol, sesso, feste, divertimento o zero studio e in effetti potrei raccontare di serate memorabili, feste ai limiti dell’assurdo e molto poco sobrie o avventure uniche ed irripetibili.

In realtà, però, una delle parole che associo all’Erasmus è solitudine. Sembra un paradosso, ma per me quell’avventura ha anche avuto una funzione catartica. Vivevo in uno stabile composto da tre edifici con studenti provenienti da tutto il mondo, ma non avevo una coinquilina e in 18 metri quadri erano concentrati cucina, bagno, salotto e letto. Bastava aprire la porta o andare nella sala comune per ritrovarsi in compagnia di qualcuno, ma inevitabilmente c’erano dei momenti in cui ti trovavi sola. Sono stata costretta per ore intere ad avere a che fare unicamente con la persona dalla quale non possiamo mai separarci: noi stessi.

E così quei mesi mi hanno permesso di comprendere alcune cose fondamentali del mio carattere. Ad esempio, che saper stare da soli non è da tutti perché la maggior parte delle persone si circonda di gente tutto il tempo per paura di avere a che fare con sé stessi.

D’altronde la solitudine è anche una delle più grandi paure dell’essere umano.

Mi sono resa conto che scappare dal dolore non serve a nulla, ma anzi, tutti i ricordi più brutti tornano a galla e la sofferenza raddoppia. Sono partita con l’idea che l’Erasmus avrebbe cancellato per sempre un grave lutto che avevo subito qualche anno prima e che mi aveva devastata. Mai proposito si rivelò più sbagliato di quello. La fuga è complice del dolore e peggiora la situazione perché capisci solo una volta arrivata a destinazione che il tarlo che ti fa stare male si trova dentro te. Se sei triste la tristezza è la prima a mettersi in valigia insieme ai vestiti, se hai vissuto un trauma pesante la causa non risiede nella routine quotidiana, ma nella tua testa. Il passato ti insegue e non lascia scampo.

Nonostante ciò l’Erasmus mi ha aiutata a superare quel lutto.

Ho pianto per non so quante sere, mi sono maledetta per averlo pensato come ad una medicina contro la depressione, ma dopo alcune settimane sono giunta ad una conclusione: ero partita con dei cattivi propositi, ma visto che c’ero dovevo vivere ogni giorno al massimo, sempre col sorriso sulle labbra ed esplorando cose nuove perché mi era stata data un’opportunità unica. Un altro dettaglio importante che ho compreso in Germania è stato che io ero meglio di come pensassi. Sono stata sempre molto insicura, neanche sapeva il significato della parola “autostima” e invece ho imparato che non ero una fallita come credevo. Quanti problemi ho dovuto affrontare tra la difficoltà della lingua, la maleducazione della gente, l’imbarazzo dovuto alle differenze culturali e le questioni burocratiche.

E sapete grazie a chi sono riuscita a superare tutto indenne?

A me! Infine, la solitudine in Erasmus mi ha fatta rendere conto quanto siano preziosi i rapporti interpersonali. Non è importante la quantità, ma la qualità. Quante persone conosco che si vantano di avere decine di amici, ma poi quando hanno bisogno di una spalla su cui piangere si ritrovano in mezzo al deserto. L’Erasmus annulla le distanze fisiche, crea dei legami indistruttibili che anche a distanza di tempo si mantengono saldi nonostante ci si senta poco o non ci si veda. Un’amicizia sincera cresciuta in quei mesi dura per sempre.

Inizi ad apprezzare di più i tuoi genitori perché ti ritrovi in maniera inconsapevole a sentirne la mancanza.

Fai una selezione nella tua compagnia perché quando parti gli amici si dividono tra quelli che ti scrivono spesso e ti vogliono davvero bene e quelli che “scusa se non mi sono fatto sentire, ma non ho avuto un minuto libero”. Siamo nel XXI secolo con Skype, WhatsApp, Facebook, Instagram e Messenger e tu mi vuoi dire che non hai avuto neanche 60 secondi liberi per scrivermi come stavo? Quando sei piccolo pensi di essere più figo se sei circondato da più gente possibile, crescendo quando pensi agli amici e li conti nel palmo di una mano realizzi che sei la persona più felice del mondo perché sai che su di loro puoi davvero contare.

L’Erasmus non è dunque né qualcosa da mangiare, né una bevanda esotica o un lavoro strano, ma l’esperienza più bella, magica, strana, indimenticabile, unica, sorprendente, difficile, divertente che un ragazzo possa fare nella propria vita. Quella stessa vita che dopo non sarà mai più come prima e sarà caratterizzata anche dopo anni dal cosiddetto “mal d’Erasmus”. Ma questa è tutta un’altra storia…

Valeria Verdini

28 anni, marchigiana. Laureata in Lingue, in passato agente di viaggio e impiegata in un ufficio comunicazione. Attualmente laureanda di International Tourism and Management. Aspirante scrittrice, lettrice incallita. Tra i miei hobby: viaggiare, fotografare paesaggi, imparare le lingue, guardare ogni tipo di sport (tifosissima del Milan).

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