Ifigenia, la giovane figlia del comandante dell’esercito acheo Agamennone, è condannata da una profezia a venire immolata dalle mani dello stesso padre per permettere all’esercito di salpare verso Troia.
È un mito che proviene dalla lontana cultura greca, arrivato fino a noi tramite le parole del tragediografo Euripide. Una storia vecchia quasi 2500 anni che, alle orecchie di noi contemporanei, non sembra dirci più molto. Spedizione contro la città di Troia per strapparne la bellissima Elena rapita al re di Sparta Menelao? Indovini e oracoli che ordinano di sacrificare vittime (anche umane!) del tutto innocenti per conto di un dio? Tutto ciò è lontano da noi anni luce.
È stata questa la sfida raccolta dal regista Carmelo Rifici e della drammaturga Angela Dematté che hanno debuttato giovedì 27 aprile con Ifigenia, liberata. Lo spettacolo intende essere una riscrittura dell’originale greco. Ripropone, infatti, la tragedia euripidea secondo la lettura antropologica del rito data dallo studioso René Girard in uno dei suoi libri più famosi: La violenza e il sacro. L’obbiettivo è quello di scavare a fondo nel mito e di trovare i significati più profondi che si celano dietro la morte della giovane Ifigenia. Uno scopo senz’altro ambizioso, ma pienamente raggiunto. Il lungo lavoro di studio sul testo girardiano ha portato ad uno spettacolo molto denso di significato, carico di insegnamenti e per niente noioso.
Anche la struttura dello spettacolo sembra voler riproporre il lavoro di indagine e di decostruzione del mito nel quale regista e drammaturga si sono cimentati. Ifigenia, liberata è innanzitutto la storia di una compagnia teatrale che prova le scene di quello che sarà il suo nuovo spettacolo e che riflette sui suoi contenuti. Un esempio dunque di metateatro che, oltre a svelare il lungo lavoro che c’è dietro ogni rappresentazione teatrale, mira a rivelare il meccanismo che si cela nel mito – e, di riflesso, nell’umanità intera.
Questo lavoro di analisi si riflette anche nell’utilizzo di un grande schermo e di telecamere che all’occasione inquadrano ciò che avviene dietro al palco, altrimenti non accessibile allo sguardo del pubblico. Prendendo in questo modo le distanze dal teatro antico, nel quale le scene più truci si svolgevano fuori dal campo visivo degli spettatori. Decidere di non nascondere niente ma, al contrario, di filmare e proiettare ogni cosa in sala, è una scelta che ci ricorda ancora una volta il lavoro di indagine che si sta svolgendo e che mira a coinvolgere appieno il pubblico stesso.
Questa scelta è molto efficace perché permette al pubblico di lasciarsi condurre nella riflessione sui meccanismi che governano la vicenda. Sebbene il ragionamento sia denso e per niente scontato, il pubblico non fatica troppo nel seguirlo proprio perché si sente totalmente partecipe di quanto accade in scena.
Svettano sulla scenografia grandi maschere che richiamano la dimensione ancestrale del rito. E’ proprio da questa dimensione infatti che parte l’indagine sulla violenza umana condotta da Girard. Indagine che in questo spettacolo viene riproposta punto per punto, sotto forma di un lungo e continuo ragionamento. L’umanità, secondo la teoria giardiana, è intrinsecamente violenta. Ognuno di noi ha, oltre alle virtù che ci premuriamo di ostentare, una grande carica di violenza che non aspetta altro di essere sfogata. Spesso questa violenza si tramuta in conflitto contro l’Altro, a partire da motivazioni del tutto irrisorie. Lottare contro degli avversari, qualunque sia la ragione, è semplicemente un modo per sfogare questa violenza. La violenza viene messa in campo solo per il gusto di esercitarla, niente di più.
Questa condizione è propria della natura umana, fin dalle più remote origini. Tuttavia, un giorno lontano, qualcuno scoprì il modo per ristabilire la pace. Coalizzare tutte le parti contendenti contro un’unica vittima, “sacrificata” per mano di questa grande massa. La vittima diventa così un vero e proprio “capro espiatorio”. Essa è debole, tanto da non potersi difendere, ed è indifesa, in modo tale che nessuno possa vendicarla. Una volta uccisa la vittima, si instaurerà la pace tra tutte le persone coinvolte in questo “omicidio di massa”. Combattere contro un avversario comune produce coesione.
Inoltre, poiché la vittima è indifesa, non ci sarà più nessuno pronto a vendicarla: questo circolo infernale viene così spezzato definitivamente. Se dovessimo rappresentare graficamente questa caccia di tutti-contro-uno, il cerchio sarebbe la figura più appropriata: nell’odio tutti sono uguali, tutti allo stesso livello. Ed è proprio il cerchio la figura più ricorrente all’interno dello spettacolo: un cerchio che si stringe sempre di più intorno alla vittima da sacrificare, fino a non lasciarle più scampo.
La vittima, per essere vittima, deve essere realmente creduta colpevole, altrimenti non sarebbe possibile “giustiziarla”. Ifigenia è a tutti gli effetti una vittima innocente: è la protagonista inconsapevole della profezia pronunciata dall’indovino Tiresia secondo cui la sua morte permetterà al vento di soffiare di nuovo e di gonfiare le vele delle navi achee, costrette in Grecia ormai da troppo tempo. Probabilmente Tiresia sapeva che lo spirare del vento non sarebbe dipeso dal sacrificio della ragazza, come sembra insinuare l’alter-ego del regista nel bel mezzo della rappresentazione: poiché l’esercito freme per partire e manifesta un malumore sempre più crescente, l’indovino, tutt’altro che ingenuo, cerca semplicemente un espediente per riappacificare gli animi dei soldati, prima dello scoppio di una rivolta.
La morte di un innocente per scongiurare una guerra di tutti-contro-tutti: il quadro tracciato non è per nulla rassicurante. Di questo dovettero rendersene conto anche i nostri antenati che per primi sperimentarono sulla loro pelle questo truce – ma efficace – meccanismo. Secondo Girard, proprio per evitare che una simile ferocia generasse altre vittime innocenti, vennero inventati i riti: sacrificare di tanto in tanto una vittima simbolica – un capretto, ad esempio – mantiene vivo il ricordo di quella volta in cui l’uccisione di un’unica vittima riuscì a ristabilire la pace nella comunità. Proprio per questo motivo la vittima sacrificale diventa sacra: è colei che ristabilisce la pace.
Del meccanismo “del capro espiatorio” se ne trova traccia in tutti i miti, in tutte le religioni e in tutti i testi sacri sotto spoglie di mitologia e sacralità per celarne l’aspetto più terribile. La dimensione del sacro allontanerebbe pertanto la violenza – ed è curioso notare come in una società “desacralizzata” come quella contemporanea sembrino esplodere focolai di violenza di giorno in giorno sempre più numerosi.
In ogni cultura si può trovare traccia del meccanismo del capro espiatorio perché è un meccanismo proprio della natura umana, che è (anche) una natura violenta. Siamo dunque condannati ad un mondo di eterno odio, guerra e sofferenza a causa della nostra natura corrotta?
Tuttavia, in questo quadro di violenza apparentemente senza scampo, sembra ancora esserci spazio per la speranza: per la prima volta viene portato sulla scena e mostrato in tutta la sua crudezza il meccanismo del capro espiatorio, per la prima volta se ne comincia a parlare davvero. La comprensione del suo funzionamento aiuta a rompere finalmente questo circolo di insensata cattiveria e brutalità, perché siamo portati istintivamente ad allontanarcene. Il pubblico, durante la rappresentazione teatrale, finisce per empatizzare non con i carnefici, bensì con l’innocente
Ifigenia. Dunque essere consapevoli di questo meccanismo perverso è il primo grande passo che l’umanità può fare per allontanarsene definitivamente e cercare nuovi modi – sani – per canalizzare la violenza dell’uomo. Del resto, lo spettacolo sembra voler portare un barlume di speranza già dal titolo. Abbiamo scomposto e svelato il gioco vittimario nel quale Ifigenia è caduta e per questo motivo ne prendiamo le distanze.
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