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Racconti

Il sussurro della Fenice

« Piccola mia, un giorno anche tu sentirai il sussurro della fenice e sarà allora che avrai trovato l’amore. » 

Mentre passeggio nel parco al tramonto, in solitudine, non so perché all’improvviso ho ripensato a questa frase, che la mia nonna mi sussurrava all’orecchio ogni volta che le chiedevo qualcosa su quel sentimento sognato dagli amanti e cantato dai poeti: l’amore. L’amore, dal latino a-mors significa senza morte, identificando nella sua intensità la vita. Lo stesso che ci tiene in vita, raccoglie i cocci e fa sentire lo sfarfallio tra costole e cuore. Fin da piccola, ho immaginato che l’amore fosse in grado di far sentire completi, una sorta di collante che unisce razionale ed irrazionale. Crescendo invece, le mie vedute si sono un po’ allargate e divenute più introspettive, chiedendomi che forma avesse, con quale impeto potesse sconvolgere la vita di noi anime perdute, in perenne ricerca di un equilibrio. Ormai da anni, ho paura di non sentire quel sussurro tanto pronunciato dalla nonna.

E se nel momento in cui arriva sarò distratta?È questo che mi chiedo, ogni giorno.

La fenice, animale sacro dei miti e simbolo dell’immortalità dello spirito, pare che sussurri agli uomini e chi la ode si innamora perdutamente, fino a bruciare d’amore e poi rinascere dalle sue ceneri. Ecco, io voglio un amore che irrompa l’assordante silenzio in cui spesso mi racchiudo, voglio un amore che possa farmi rinascere dalle ombre che minacciano la mia purezza, che mi faccia rinascere. Mi sfioro le rose nere tatuate sul braccio, dai petali scuri come le mille amanti della notte, e sospiro ricacciando indietro le lacrime, perché esse marcheranno a vita il mio corpo e anche il mio cuore, testimoniando quella forma d’amore, grazie alla quale sono venuta al mondo, ma che ho perso troppo presto. L’amore l’ho sempre letto nei libri, che traboccano dalla mia libreria, ma forse raramente l’ho sentito parte di me, forse troppo volte ho respinto la fenice e adesso me ne pento amaramente.

Ritornerà?

L’amore, secondo tutte quelle pagine macchiate d’inchiostro e che mi hanno tenuto compagnia nelle notti d’inverno è trovare rifugio tra un paio di braccia che poi diventeranno la nostra casa, è guardare un paio di occhi e sentire un brivido lungo la schiena, l’amore è sinonimo di resilienza e del lasciarsi ammaliare dagli occhi tentatori di Cupido, è sentire battere violentemente il cuore quando un’altra persona ci prende per mano facendo combaciare le sue dita con le nostre. Cammino distrattamente, sento la testa scoppiare, voglio ritornare a casa e chiudermi nella mia camera; anche oggi ho lasciato che i pensieri più intimi prendessero il sopravvento, ma io son fatta così: esternamente indosso una corazza pesante come quella di un eroe in guerra, dentro invece sono scheggiata come un bicchiere di cristallo che cade, rovinosamente, sul pavimento.

Fa male voler amare, ma allo stesso tempo avere paura di non esserne all’altezza, vi è mai capitato?

 Velocizzo il passo, ma è proprio per via della distrazione e della fretta che non noto la presenza di un’altra persona e di non essere proprio da sola in questo parco verdeggiante e che profuma di mandarli in fiori, me ne accorgo soltanto quando il suo corpo sbatte violentemente contro il mio, facendomi balzare indietro, ma prima che possa cadere un paio di braccia muscolose mi sostengono per la vita, impedendo lo schianto al suolo. Cerco di riprendermi, alzo gli occhi e mi manca il respiro: un paio d’occhi neri costernati da filamenti azzurri, che mi ricordano subito l’oceano, mi scrutano curiosi, per niente adirati dalla mia sbadataggine e dal mio finirgli addosso, mentre il mio corpo è attaccato al suo sudato, stava facendo jogging!

Questi occhi sconosciuti, mi stanno scavando dentro, facendomi venire i brividi, queste labbra carnose, mi attirano, provo un’attrazione fatale come quella che gli Dei avevano per l’ambrosia, cibo che li rendeva immortali, vorrei tanto poggiare le mie e constatare la loro morbidezza e succhiare via un po’ d’amore. Poi alle mie orecchie arriva una voce roca e ansante facendomi ridestare dal mio stato di trans. Mi sta veramente parlando? Penso fra me.

<<Tutto bene?>> mi sussurra una voce roca

Io sono stralunata, lo guardo ancora qualche minuto, mi perdo nei suoi grandi occhi, prima di rispondere singhiozzando per l’imbarazzo.

<<Si, scusami ero distratta.>> rispondo timidamente 

<<Ti va un gelato per farti perdonare? Io sono Matteo, tu?>> replica sfacciato

<<Delia, dove mi porti?>> chiedo 

Mi passa una delle sue airpods, tolte durante il nostro scontro, le nostre dita si sfiorano creando una sorta di scossa elettrica che ci fa sorridere di rimando. Dopo averlo ringraziato, la indosso e la voce melodiosa di Ultimo risuona con Alba, perché uno sguardo in fondo basta per dipingerci, così sta cantando. Poi mi fa un cenno con la testa, così lo seguo, adesso non siamo più degli anonimi sconosciuti. Adesso siamo dita che si stanno sfiorando, rumore ridondante nelle orecchie di chi ci ascolta, siamo un miscuglio di colori, cenere che prende vita, siamo anime in collisione e assetate di passione. Sto forse fantasticando troppo? Non credo, io sono sempre molto concreta e cocciuta, raramente mi sbaglio!

Sospiro, affretto i miei passi, evitando di fare un’altra brutta figura, all’improvviso, un soffio di vento alita sulla mia nuca e non so perché, ma credo di avvertire quel sussurro, tanto da farmi fischiare le orecchie. Metto da parte un po’ la mia timidezza e mi affianco a lui.

Mi sorride, io avvampo, mi sento impacciata di fronte i suoi occhi.

Ho forse ho trovato la mia fenice?

  1. Ed io, in tal caso, riuscirò ad essere quel fuoco da cui lui rinascerà?
Giusy Anna Calta

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Giusy Anna Calta

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